Cass. Pen. sez. V, sent. 11.4.2012 n° 13568
Il disposto di cui all’articolo 282 ter del codice di
procedura penale non osta ad una mancata predeterminazione giudiziale dei
luoghi su cui vige il divieto; ciò ove le abitudini della vittima non
consentano una simile determinazione.
La misura cautelare dell’allontanamento può, quindi,
“seguire” la vittima.
Secondo quanto precisato dalla Suprema Corte di
Cassazione con la sentenza 11 aprile 2012, n. 13658 la normativa concernente le
misure cautelari deve essere interpretata al fine di soddisfare, in qualsiasi
forma e modo, le sottese esigenze cautelari.
Nella fattispecie concreta un soggetto indagato per
atti persecutori, ex art. 612 bis c.p., aveva proposto ricorso in Cassazione
avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva confermato la misura
del divieto di avvicinamento.
Tra i motivi del ricorso:
l’insussistenza dei gravi indizi propedeutici alla concessione della
misura;
l’eccessività genericità del contenuto cautelare.
I giudici della Corte, però, rigettano il ricorso.
Secondo la
Corte occorre la verifica degli stili di vita nonchè delle
abitudini della “vittima” – persona offesa, ove le stesse sfuggano ad una
precisa predeterminazione giudiziale, ad esempio per esigenze di relazione o di
lavoro.
Il giudicante può adottare delle formule che siano
più congeniali alla ipotesi concreta, e che, quindi, possano consentire alla
persona offesa di mantenere un’area di protezione efficace avverso gli atti
persecutori dell’indagato, ovunque essa si trovi.
Nel caso in cui la persona offesa, vittima degli atti
persecutori, non abbia, pertanto, luoghi abituali di frequentazione, è compito
del giudice “vestire a misura”, anche se in modo generico, il bisogno di
protezione che lo stesso ordinamento ha inteso consentire di tutelare con la
normativa sul tema.
(Da
Altalex del 23.4.2012. Nota di Manuela Rinaldi)