giovedì 28 febbraio 2013

SALVIAMO I TRIBUNALI DISTACCATI!



Nei giorni scorsi, nei locali del Consiglio dell’ordine avvocati di Catania, si è riunito il Coordinamento delle associazioni forensi operanti nelle sezioni distaccate del tribunale di Catania, costituitosi nei mesi scorsi, al fine di discutere ed adottare tutte le misure necessarie per scongiurare la chiusura delle sette sezioni, ovverosia Acireale, Adrano, Belpasso, Bronte, Giarre, Mascalucia e Paternò, presiedute rispettivamente dagli avvocati Grassi Bertazzi, Politini, Spampinato, Uccellatore, il nostro Fiumanò, Scalia ed Asero.
All’ordine del giorno l’eventualità di proporre apposito ricorso avverso il provvedimento del presidente del tribunale di Catania, di fatto anticipatorio del paventato accentramento alla sede centrale etnea dei procedimenti cautelari e monitori, provvedimento peraltro già formalmente avversato dall’Avvocatura catanese in sede di Consiglio giudiziario.
Il provvedimento presidenziale, infatti, comporterebbe sostanzialmente il ridimensionamento di importanti uffici giudiziari di prossimità, così allontanando la giustizia dai cittadini e facendo aumentare ulteriormente i già esorbitanti costi che implica il ricorso alla giustizia civile.
Al termine dell’incontro gli avvocati hanno stabilito di chiedere un parere ad un collega amministrativista. Tale parere è stato acquisito e a giorni si concretizzerà l’azione legale.
Già in sede d’inaugurazione dell’anno giudiziario, le associazioni forensi locali avevano chiesto di utilizzare la proroga di cinque anni, prevista dal d.lgs. n. 155/2012, in modo da mantenere per tale periodo le funzioni delle sezioni distaccate, soprattutto in considerazione che il tribunale di Catania, di per sé materialmente insufficiente a garantire un normale andamento del servizio giustizia, non è in grado di assorbire –come rilevato nella stessa sede anche dal Presidente della Corte d’appello- le migliaia di fascicoli provenienti dalle sette sezioni.
Al riguardo, i rappresentanti delle associazioni forensi territoriali hanno preso atto con soddisfazione che il Consiglio dell’ordine, presieduto dall’avv. Maurizio Magnano di San Lio, facendo propria tale richiesta di proroga quinquennale, ha deliberato di formalizzarla al ministro della Giustizia.

mercoledì 27 febbraio 2013

CNF: “Sì avvocato amministratore di condominio”


«Molto rumore per nulla», commedia made in Italy 
di sicuro successo:testi del Parlamento, 
regia e adattamento del CNF


In queste ultime settimane la questione relativa alla compatibilità della professione di avvocato con quella di amministratore di condominio – sorta a causa dell’art. 18 della legge n. 247 del 2012 (legge di riforma dell’ordinamento professionale forense) – ha dominato il dibattito sul web.

Forse, solo la campagna elettorale ha evitato che si trasformasse questo “curtigghiu” in un vero e proprio caso nazionale.

Tuttavia, considerati i risultati, in entrambi i casi, “that’s Italy”!

Lo scorso 22 febbraio il CNF ha, finalmente, pubblicato il tanto atteso e preannunciato parere grazie al quale molti avvocati potranno continuare a svolgere entrambe le attività.

Sembra che l’intera vicenda – come la commedia shakespeariana - oltre ad assumere un qual certo tratto di comicità sia stata ideata per un puro e semplice divertimento, senza un vero e proprio significato e senza conseguenze di rilievo.

Molto rumore appunto, molte parole, molti attacchi, per non dire nulla di nuovo o meglio per dire, contraddire e non approdare a nulla.

Insomma, un eccesso di attenzione su una questione che ha creato solo confusione, alimentata ancor di più dal modus operandi del CNF e dagli equivoci non del tutto chiariti.

02.02.2013: la legge di riforma dell’ordinamento professionale forense entra in vigore.

Che lo spettacolo abbia inizio!

Nel primo atto il CNF si esprime nel senso della incompatibilità fra la professione di avvocato e quella di amministratore di condominio chiarendo nella famosa faq 32 (ormai eliminata) che la professione di amministratore di condominio costituisce altra attività di lavoro autonomo, svolta necessariamente in modo continuativo o professionale, e rientra quindi tra le nuove cause di incompatibilità con la professione di avvocato.

Durante l’intervallo alcuni attori si ribellano al copione già noto. Il regista, allora, ci ripensa mentre gli autori sono occupati in altro.

Atto secondo: colpo di scena, cambia il copione!

Morale della commedia?

Quanto è influenzabile e debole l’uomo: è sufficiente un semplice rumore, un disturbo casuale per piegare la sua integrità! W la coerenza!

Gli attori esultano: il regista gli ha concesso il copione che ri-volevano, così “l’attività di amministratore di condominio si riduce, alla fine, all’esercizio di un mandato con rappresentanza conferito da persone fisiche, in nome e per conto delle quali egli agisce e l’esecuzione di mandati, consistenti nel compimento di attività giuridica per conto ed (eventualmente) in nome altrui è esattamente uno dei possibili modi di svolgimento dell’attività professionale forense sicché la circostanza che essa sia svolta con continuità non aggiunge né toglie nulla alla sua legittimità di fondo quale espressione, appunto, di esercizio della professione”.

Ma una voce fuori campo frena gli entusiasmi: “la compatibilità produrrà riflessi anche sul piano della disciplina fiscale e previdenziale dovendo il relativo reddito considerarsi a tutti gli effetti di natura professionale e quindi soggetto anche a contribuzione a favore della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza forense”.

Gli spettatori si augurano che non ci sia un terzo atto: hanno già riso così tanto da voler piangere e forse anche loro, a breve, saranno soddisfatti.

Di sicuro la regia non è all’altezza di Shakespeare … ma perdoniamola, si tratta pur sempre di una rivisitazione.
Giuliana Gianna (da Avvocati del 27.2.2013)

Anai: "No Cassa immediata per iscritti all'albo"

L'Associazione nazionale avvocati italiani chiede una riflessione profonda a tutta l'avvocatura per la prevista applicazione dell'articolo 21 della riforma professionale che prevede l'iscrizione contemporanea e obbligatoria tanto agli Albi che alla Cassa forense. Il presidente Anai, Maurizio De Tilla, spiega come “l'iscrizione alla Cassa senza momentaneo pagamento di alcun contributo comporterà aggravi forti, quali discendono dai diritti connessi all'assistenza, alla maternità e alla polizza grandi interventi. Attuare una norma di legge simile – continua - in un momento di grave crisi economica generale e in maniera particolare per la professione forense sarebbe molto problematico. La previsione della riforma è un pasticcio legislativo – ha continuato De Tilla – da un lato fissare contributi molto contenuti per chi ha redditi bassi rischierebbe di creare squilibrio negli assetti economici dell'Ente, dall'altro fissarli ridotti ma non troppo significherebbe vessare colleghi fino ad oggi non iscritti che guadagnano poco o niente anche per effetto della crisi e a farne le spese sarebbero prevalentemente i giovani. Questa norma aumenterà la situazione di disagio sociale che negli ultimi tempi ha investito la nostra categoria e creerà una forte reazione da parte dei 70 mila avvocati interessati; applicare il contributivo ai nuovi e tenere fermo il retributivo per tutti gli altri finirà per portare disuguaglianze di non poco conto con una moltitudine di colleghi che usufruiranno di pensioni irrisorie anche di cento euro al mese senza alcuna possibilità di integrazione al minimo.  Occorre pertanto – ha concluso De Tilla – svolgere una profonda riflessione sull'argomento senza prendere decisioni immediate che finirebbero per peggiorare la già complicata situazione della professione”.

(Da Mondoprofessionisti del 26.2.2013)

Da rapina a tentato omicidio, anche “palo” colpevole

La rapina si trasforma in un tentato omicidio di un dipendente della gioielleria svaligiata: a rispondere a titolo di concorso ordinario di quest’ultimo più grave reato è anche il “palo” che aspetta fuori in macchina. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4041/2013.

Il caso. Due finanzieri in divisa facevano irruzione in una gioielleria, picchiavano selvaggiamente un dipendente del titolare. Dopo essersi impossessati della refurtiva, fuggivano a bordo di una macchina. Il proprietario della stessa (e autista al momento della rapina) veniva indagato per i delitti, in concorso, di rapina aggravata, tentato omicidio, detenzione e porto di armi da sparo. L’uomo però ricorre per cassazione, lamentando l’errata attribuibilità, a suo carico, del tentativo di omicidio posto in essere dagli esecutori materiali della rapina.

Il giudizio di legittimità. La Suprema Corte sottolinea che «la responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario (art. 110 c.p.) se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave». In sostanza, la responsabilità concorsuale resta esclusa soltanto «quando il reato diverso e più grave si presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili», non collegabili in alcun modo al fatto criminoso su cui è innestata l’azione di taluno dei correi nel reato originario. Nel caso di specie, tuttavia, non si configura quest’ultima, più lieve, ipotesi, quindi il ricorso viene rigettato in toto.


(Da avvocati.it del 26.2.2013)

La prima nota spese non vincola l’avvocato

Se la nota spese non è accettata dal cliente e se l’avvocato dimostra le ragioni per un maggiore compenso, essa non può ritenersi vincolante per il professionista. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1284/2013.
Il caso. Un avvocato svolge la sua attività professionale, in una divisione ereditaria. Terminato il suo compito, intima all’erede, che si è avvalsa di questa sua prestazione, il pagamento di più di 300mln di lire, tramite decreto ingiuntivo. Questa propone però opposizione, respinta dal Tribunale. Decisione confermata in appello. Sostiene l’erede, anche in Cassazione, la vincolatività di una precedente nota spese, in cui veniva quantificata la somma di 95mln di lire. Non sarebbe quindi dovuta l’ulteriore somma.

Il giudizio di legittimità. Per la Suprema Corte, non solo la nota spese non è mai stata accettata espressamente dalla cliente ma l’avvocato ha «validamente giustificato l’invio della seconda richiesta per essere stata la prima erroneamente calcolata al di sotto dei parametri tabellari, avendo applicato lo scaglione della tariffa professionale corrispondente al valore della quota della cliente invece che a quello dell’asse ereditario». L’errore è stato giustamente ritenuto sussistente, poiché l’avvocato si è occupato direttamente dell’effettiva individuazione della massa ereditaria. Peraltro la ricorrente non ha mai mosso alcuna censura circa la ritenuta mancata vincolatività della prima parcella. Già considerando anche solo questo elemento si sarebbe potuta dedurre le legittimità della decisione del giudice di merito, circa la possibilità di formulare la seconda richiesta di compenso da parte del professionista.

(Da avvocati.it del 26.2.2013)

martedì 26 febbraio 2013

Anche pertinenze devono rispettare distanze

Cass. Civ., sez. II, sent. 3.1.2013 n° 72

Si deve ritenere costruzione qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione.
E’ questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 3 gennaio 2013, n. 72 in tema di distanze di costruzioni. Portando a conseguenza il principio ribadito, infatti, gli Ermellini sostengono che gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica, sono soggette al rispetto della normativa sulle distanze.
Nel caso di specie due coniugi convenivano in giudizio il vicino che aveva realizzato a confine con la porzione di un immobile di loro proprietà un vano di circa m. 5x3 di lato e m. 3 di altezza, in violazione delle norme sulle distanze previste dal regolamento edilizio comunale.
Da qui la richiesta di demolizione del vano, che tuttavia veniva rigettata dal giudice di prime cure con la condanna al pagamento delle spese processuali. Al contrario, in sede di appello, il Giudice riformava la sentenza di primo grado, condannando il vicino ad arretrare il vano in questione fino alla distanza di m. 5 dal confine col vialetto di proprietà degli appellanti, rigettando al contempo la domanda di risarcimento di ulteriori danni. In buona sostanza, secondo i giudici di merito,  il vano – a prescindere dalla sua funzione pertinenziale – costitutiva un edificio e non rispettava l’obbligo della distanza di almeno cinque metri dal confine.
Come si è visto, in sede di cassazione il Palazzaccio conferma la correttezza del ragionamento seguito dai giudici di appello, evidenziando con chiarezza l’irrilevanza dell’eventuale funzione pertinenziale ai fini della sussunzione nella categoria costruzione del vano in questione e rilevando al contempo  la dimensione  del vano tale da accrescere la superficie  o la funzionalità economica della costruzione.

(Da Altalex del 22.2.2013. Nota di Alessandro Ferretti)

Pedopornografia, detenzione di materiale e confisca

Cass. Pen. Sez. III, sent. 1.2.2013, n.5143

La sentenza in esame si sofferma sulle recenti novità introdotte dalla Legge 172/2012 agli articoli 600-ter, quater e septies del Codice Penale e, in particolare, sulla definizione di materiale pedopornografico e sul concetto di detenzione di immagini pedopornografiche.

Con riferimento all’oggetto del reato, il materiale pedopornografico, la Corte ha avuto modo di precisare che, a seguito delle modifiche introdotte con la Legge 172/2012 all’articolo 600-ter del Codice penale, non ha più alcun rilievo la contestazione secondo cui non è rinvenibile una sicura definizione di pornografia. Infatti, la citata disposizione normativa prevede espressamente che “… per pornografia minorile si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”.

Detta nuova formulazione normativa aderisce all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva fatto propria la definizione di pedopornografia di cui all’articolo 1 della Decisione Quadro del Consiglio n. 2004/68/GAI, che già puntualizzava che “il delitto di pornografia minorile è configurabile esclusivamente nel caso in cui il materiale pornografico, oggetto materiale della condotta criminosa prevista dall’articolo 600 ter c.p., ritragga o rappresenti visivamente un minore degli anni diciotto implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, quale può essere anche la semplice esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica”.

Quanto alla detenzione e conservazione delle immagini, la sentenza in esame condivide l’orientamento già espresso sul punto dalla giurisprudenza, per il quale il delitto di detenzione di materiale pedopornografico è integrato anche con l’allocazione di files pedopornografici, scaricati da internet, nel cestino del computer, essendo evidente che i files restano comunque a disposizione mediante la semplice riattivazione dell’accesso ai files (Sez. 3, n. 639 del 6 ottobre 2010). Pertanto, “solo per i files definitivamente cancellati può dirsi cessata la disponibilità e, quindi, la detenzione”, di per sé sufficiente alla commissione del delitto, non essendo richiesto un concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico.

Inoltre, i giudici della Corte si soffermano altresì sulle modifiche introdotte all’articolo 600 septies del Codice Penale, dal quale è stato eliminato il richiamo espresso all’articolo 240 Codice Penale ed è espressamente previsto che è “… sempre ordinata, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni o al risarcimento dei danni, la confisca dei beni che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato …”. Pertanto, mentre la confisca delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato è obbligatoria, deve ritenersi facoltativa quella concernente le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, che si basa su due elementi di fondo: “vale a dire la prognosi di pericolosità sociale derivante dal mantenimento del possesso della cosa da parte del reo e la strumentalità del bene alla commissione del reato”.

(Da filodiritto.com del 18.2.2013)

Niente congedo di paternità per statali

Nella nota del 20 febbraio 2013 il Dipartimento della Funzione pubblica ha escluso che si possa applicare ai dipendenti statali la disciplina del congedo obbligatorio e del congedo facoltativo del padre lavoratore, prevista dall'art. 4, comma 24, L. 92/2012 (riforma del lavoro) e dal relativo decreto attuativo (D.M. 22 dicembre 2012).

(Da diritto.it)

lunedì 25 febbraio 2013

Obbligo iscrizione Cassa e giovani avvocati

«L’iscrizione obbligatoria alla Cassa, prevista dalla nuova legge professionale, non deve essere l’occasione per “esodare” fasce di giovani e meno giovani competenti e professionali: va contrastato il malcelato obiettivo di arrivare alla autoesclusione di chi non è in grado di sostenere i contributi minimi, ma va pensato un percorso di avvicinamento e di adeguamento necessariamente proiettato in un arco temporale più ampio, introducendo ad esempio l'imposizione di versamenti che siano relativamente poco onerosi all’inizio. Non solo: crediamo che non possa, né debba essere negato ai “nuovi” iscritti il diritto all’assistenza. Tra gli almeno 30/50 mila nuovi iscritti ci saranno sicuramente molte donne, la stessa Cassa nella conferenza di settembre 2012 parlava della femminilizzazione della professione, e quindi molte mamme. Bisogna garantire pari opportunità».
Lo dichiara il segretario generale dell’Anf  Ester Perifano, commentando gli esiti dell’assemblea nazionale dell’avvocatura organizzata dalla Cassa Forense con la partecipazione delle istituzioni ordinistiche, politiche e delle associazioni di categoria.
«È positivo – continua - che la Cassa Forense apra un confronto ampio e che con un Road Show vada sul territorio ad incontrare gli avvocati per illustrare i nuovi aspetti della previdenza dopo la riforma Fornero e l’approvazione della legge professionale, ma, innanzitutto, è indispensabile individuare le criticità di questa fase. In questo senso l’Associazione Nazionale Forense avanza diversi spunti per affrontare questi profondi cambiamenti che interesseranno le prossime generazioni di avvocati del nostro Paese. La prima questione – spiega Perifano - è trovare i giusti accorgimenti affinché il pregresso versato dagli avvocati fino ora esclusi dalla copertura previdenziale professionale non vada perduto nella fase di travaso dalla gestione separata dell’Inps, nell’ambito del più rigoroso rispetto della quadratura dei conti. Su questo aspetto si innesta la necessità di affrontare il tema dei ricongiungimenti e delle totalizzazioni con i periodi lavorati presso altre casse, prevedendo se non la gratuità quantomeno che sia fatto tutto il possibile per facilitare la possibilità di ricondurre la posizione professionale ad un profilo unitario e coerente, e non già ad un mosaico discontinuo e frammentato. Si potrebbe applicare, dunque , ai nuovi iscritti – sottolinea il segretario Anf - lo stesso regime della gestione separata INPS, con l'obbiettivo di avere non due regimi definitivamente e per sempre separati, ma una fase transitoria che faciliti il percorso verso una sistemazione previdenziale ed assistenziale decorosa. Ma ogni scelta presuppone, tuttavia, la chiarezza dei conti e delle prospettive attuariali, che oggi non abbiamo ancora. E' necessario, dunque, rivedersi quando i numeri saranno più chiari. Tra gli avvocati italiani, da diversi anni, serpeggia grande preoccupazione per il proprio futuro, specie tra le generazioni più giovani: sarebbe autolesionistico mettere dei paletti di natura economica e previdenziali. Il rischio - conclude Perifano - è che l'avvocatura diventi un luogo dove i giovani avvocati saranno destinati a non avere cittadinanza, in linea con quanto accade nel resto del Paese: l'Italia, è noto, non è un Paese per giovani”.
(Da Mondoprofessionisti del 25.2.2013)

Cancellazione dall'albo e radiazione, non c’è analogia

Cass. Civ., SS.UU., sent. 12.12.2012 n° 22785

L’avvocato che abbia subito la sanzione della cancellazione dall’Albo non deve aspettare 5 anni per procedere con la domanda di reiscrizione. Tale termine, infatti, risulta previsto esclusivamente nel caso in cui sia stata irrogata la più grave sanzione della radiazione.
E’ questo il principio stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 12 dicembre 2012, n. 22785 in tema di reiscrizione all’albo dopo avvenuta cancellazione a mezzo di provvedimento disciplinare. In particolare, l’avvocato  era stato cancellato dall’albo a seguito della sanzione penale subita per aver introdotto sostanze stupefacenti in carcere con cessione ad un proprio assistito. Dopo circa tre anni il professionista si vede respingere dall’Ordine degli Avvocati  la richiesta di reiscrizione all’albo, in quanto quest’ultima non poteva avvenire  se non prima del decorso del termine di cinque anni da quando era divenuta esecutiva la precedente delibera di cancellazione, dovendo trovare applicazione analogica la disciplina prevista nel caso di  reiscrizione a seguito di radiazione.
Dopo il passaggio davanti al Consiglio Nazionale Forense con lo stesso esito,  l’avvocato presenta ricorso per cassazione trovando fondamento nel giudizio della Corte.
Infatti, secondo gli Ermellini la posizione dell’avvocato si riallaccia all’insegnamento della Cassazione stessa secondo cui in presenza di una domanda di reiscrizione nell'albo degli avvocati di colui che abbia in precedenza subito la sanzione disciplinare della cancellazione, non trova applicazione, in via d'interpretazione analogica, l'art. 47 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, cioè l’ipotesi relativa alla radiazione. Infatti, secondo il Palazzaccio,  essendo la cancellazione concepita dal legislatore come sanzione meno grave della radiazione, non sussistono le condizioni per postularne l'applicazione anche quando il professionista che chiede la reiscrizione era stato in precedenza cancellato e non radiato, benché la durata del tempo frattanto decorso possa essere autonomamente valutata ai fini dell'apprezzamento della sussistenza del requisito della condotta "specchiatissima ed illibata", che l'art. 17 del medesimo provvedimento legislativo richiede per l'iscrizione nell'albo.
Nel caso concreto, secondo Piazza Cavour, dalla decisione del Consiglio Nazionale Forense non è possibile desumere che il collegio giudicante abbia valutato la durata del tempo trascorso tra la cancellazione e la richiesta di reiscrizione nell'albo ai fini di escludere il prescritto requisito della condotta "specchiatissima ed illibata", dovendosi riferire al contrario alla vietata applicazione analogica del termine quinquennale previsto in caso di radiazione. Da qui la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa al Consiglio Nazionale Forense perché la riesamini alla luce del principio di diritto sopra richiamato.

(Da Altalex del 9.1.2013. Nota di Alessandro Ferretti)

domenica 24 febbraio 2013

Timbra cartellino per collega, non è sostituzione di persona

Secondo la Suprema Corte “farsi timbrare il cartellino dal collega non comporta il reato di sostituzione di persona, ma solo un procedimento disciplinare a carico del lavoratore”.

La condotta di chi fa riportare sul cartellino marcatempo nella sua dotazione la presenza, non corrispondente alla realtà, sul posto di lavoro, producendo effetti solo nell'ambito della sfera relativa al rapporto di diritto privato tra il dipendente ed il suo datore di lavoro, non è adatta ad integrare il reato di falsità ideologica a carico del pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 c.p.), né integra al piu' il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), poiche' difetta dell'attribuzione al soggetto attivo e la conseguente rappresentazione nei confronti dei terzi, allo scopo di indurli in errore per far conseguire a sé o ad altri un vantaggio ovvero per arrecare ad altri un danno, di connotati che, pur non appartenendogli, appaiono idonei a definirlo come una persona diversa da quella che egli effettivamente è ovvero rivestito di uno stato o dotato di una qualità a cui la legge riconnette effetti giuridici, che egli in realtà non possiede.

La Cassazione è, dunque, recentemente intervenuta su quei consueti, ma illeciti, “scambi di favore” che avvengono tra colleghi, quando si deve timbrare il cartellino di presenza (così Cass. 31/01/2013). Secondo i giudici in tale condotta non sono ravvisabili gli estremi del reato di sostituzione di persona.

Si configura il reato di sostituzione di persona quando un soggetto, al fine di ottenere un vantaggio personale, fa cadere un terzo in errore, sostituendosi ad altri, attribuendo a sé o ad altri un falso nome o una falsa qualità. Ad esempio si ha sostituzione di persona quando ci si attribuisca il nome di persona immaginaria; oppure si usi un “account” o una casellaemail servendosi dei dati anagrafici di un diverso soggetto, inconsapevole, con il fine di far ricadere su quest'ultimo l'acquisto di beni mediante la partecipazione ad aste in rete.

Secondo i giudici della Suprema Corte timbrare il cartellino del collega, per farlo risultare presente, non rientra pero' in questi casi. Infatti, seppur è vero che il datore di lavoro è caduto in errore, è bisogna constatare che il collega non ha assunto l'identità del dipendente assente, limitandosi a timbrarne soltanto il cartellino.

Nel caso di specie, il lavoratore furbetto si è limitato a simulare una presenza inesistente del collega sul lavoro, attraverso l'uso della scheda magnetica del compagno.

Attenzione però: il fatto che tale condotta non configuri il reato di sostituzione di persona, non significa che non sia un illecito comunque punibile. Infatti, oltre ad essere un illecito disciplinare, potrebbe concretizzarsi l'ipotesi del reato di truffa.


Eugenio Gargiulo (da overlex.com)

sabato 23 febbraio 2013

Scopertura RCA, paga Fondo di Garanzia

Se la polizza non viene onorata, in caso di sinistro
la compagnia fa valere la sospensione della garanzia
onerando l'impresa designata dal Fgvs

Quando l'assicurato non paga il premio Rc auto pattuito in un'unica soluzione oppure la sola prima rata, la scopertura assicurativa che si produce fra le parti non risulta opponibile al terzo danneggiato dal sinistro stradale e la garanzia della polizza rimane operante per tutto il periodo di tempo indicato dal certificato o dal contrassegno esposto nel veicolo. Nel caso in cui invece non risulta pagata la seconda rata o quelle successive la sospensione della copertura è opponibile dalla compagnia ex articolo 1901, comma secondo, Cc al terzo danneggiato e scatta la responsabilità dell'impresa designata dal fondo di garanzia per le vittime sulla strada (Fgvs) come in ogni caso di veicolo sprovvisto di polizza. Lo ricorda la sentenza 4353/13, pubblicata il 21 febbraio dalla terza sezione civile della Cassazione.
Obiezioni irrilevanti
Accolto, contro le conclusioni del pm, il ricorso della vittima di un incidente stradale avvenuto nel lontano 1995, con l'assicurazione del veicolo responsabile che risulta scaduta. Inconferenti le obiezioni sollevate dall'impresa designata dal fondo di garanzia, secondo cui in questo caso la scopertura assicurativa non risulterebbe: nella specie non è infatti applicabile "ratione temporis" l'articolo 283, primo comma, lettera b del codice delle assicurazioni (il decreto legislativo 209/05).
Polizza scaduta
Ecco allora come gli "ermellini" risolvono la questione: nei contratti Rc auto con rateizzazione del premio, una volta scaduto il termine di pagamento della seconda rata, l'efficacia del contratto resta sospesa a partire dal quindicesimo giorno successivo alla scadenza; la scopertura è opponibile anche ai terzi danneggiati: una volta spirato il termine, il veicolo risulta sprovvisto di assicurazione. In soldoni: l'assicurazione del responsabile del sinistro è tenuta a risarcire il terzo danneggiato quando il sinistro si è verificato entro il quindicesimo giorno dalla scadenza del periodo indicato sul contrassegno, anche se non è stato pagato il premio per il periodo successivo. Nel caso specifico l'incidente è avvenuto oltre il termine e la moto responsabile del sinistro deve ritenersi sprovvista di assicurazione: in applicazione dell'articolo 19, primo comma, della legge 990/69, applicabile "ratione temporis", il risarcimento dei danni da circolazione stradale deve essere posto a carico dell'impresa designata dal Fgvs e nei confronti di quest'ultima deve essere esercitata l'azione per il risarcimento dei danni.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

Mansarda inabitabile a basso costo, niente recesso

Vi è aliud pro alio se il bene è incommerciabile od assolutamente privo delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell’acquirente o abbia difetti che lo rendano inservibile o non è idoneo ad assolvere alla funzione naturale od a quella assunta come essenziale dalle parti. Così ha ribadito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1373/2013.
Il caso. Preliminare di vendita di due mansarde per 36mila euro. Caparra confirmatoria di 12mila euro. Provvigione alla società mediatrice di mille euro. Lo stabile è vecchio. L’acquirente chiede la restituzione di quanto versato e la risoluzione per inadempimento perché la società venditrice non ha consegnato il certificato di abitabilità e perché mancano i requisiti promessi. Il Tribunale respinge la domanda, mentre la Corte d’Appello la accoglie: spetta al venditore fornire la prova che «gli immobili presentavano tutte le caratteristiche per essere considerati abitabili» e dimostrare di aver consegnato il certificato. In questo caso ritiene l’inadempimento della venditrice di una gravità tale da consentire il recesso. La società venditrice ricorre per cassazione.
Il giudizio di legittimità. Nel cassare la sentenza impugnata rinviandola per un nuovo giudizio, la Suprema Corte sottolinea come il giudice, in maniera erronea, non abbia considerato l’esiguità del prezzo e l’avvenuta presa visione dei luoghi. L’acquisto veniva peraltro effettuato «nello stato di fatto e di diritto … come visto e gradito dalla parte acquirente». Questa viene considerata dall’appello come mera clausola di stile, ritenendo quindi irrilevante che l’acquirente fosse a conoscenza dell’inabitabilità. Tale circostanza non potrebbe essere considerata una rinuncia a questa caratteristica tale da escludere l’inadempimento del venditore. In definitiva, la Cassazione ritiene sbagliata la decisione del giudice di riformare la sentenza di primo grado. L’acquirente aveva infatti incaricato un notaio per la stesura del contratto definitivo. Tale notaio aveva chiarito che si trattasse di uno stabile d’epoca e che in tali circostanze è usuale la mancanza del documento di abitabilità. Tenendo conto di questi fatti andava inoltre valutata l’esiguità del prezzo «in relazione al prospettato aliud pro alio».

(Da avvocati.it del 22.2.2013)

venerdì 22 febbraio 2013

Geografia giudiziaria, nuovo rinvio alla Corte Costituzionale

L'Anai chiede di anticipare l'udienza di ottobre

L'Associazione nazionale avvocati italiani auspica che dopo l'ennesima ordinanza, la Corte costituzionale arrivi a fissare con anticipo rispetto ad ottobre la data dell'udienza pubblica sulla revisione della geografia giudiziaria. “Anche il Tribunale di Sala Consilina (con l’ordinanza del 20 febbraio 2013, Dr. Enrichetta Cioffi) - ha detto il presidente Anai Maurizio De Tilla - ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di incostituzionalità della normativa sulla geografia giudiziaria sollevata in un giudizio penale. È questa la sesta ordinanza (ma non l’ultima) - ha continuato De Tilla - che mette sotto i riflettori della Consulta questioni sollevate dall’Avvocatura che – in qualsiasi paese democratico – ben giustificherebbero la sospensione di ogni atto ministeriale ed amministrativo in attesa della valutazione della legittimità della normativa. Nello specifico si è affermato che nel Tribunale di Sala Consilina è pienamente attivo il processo civile telematico che, esso sì, è strumento volto a migliorare il funzionamento della giustizia e a salvaguardare il principio costituzionale di buon andamento della Pubblica Amministrazione. La informatizzazione della giustizia si realizza presso il Tribunale di Sala Consilina senza gravare in alcun modo sull’Erario, atteso il contributo e il sostegno economico di enti locali, di ordini professionali e di partner economici. Quindi, senza alcuna ragione gli utenti del Tribunale di Sala Consilina perdono la giustizia di prossimità. L’eliminazione del Tribunale di Sala Consilina, in quanto realizzata sulla base di norme illegittime, - ha continuato il presidente Anai - violerebbe la riserva di legge di cui all’art. 25, primo comma, della Costituzione che è destinata a garantire la certezza del cittadino di vedere tutelati i propri diritti da un organo già preventivamente stabilito dall’ordinamento e indipendente da ogni influenza esterna. Il succedersi di ripetute ordinanze – ha concluso De Tilla - dovrà indurre la Corte costituzionale a fissare al più presto la discussione delle questioni sollevate con i sei provvedimenti fino a oggi emessi dai giudici ordinari. La udienza fissata per l’8 ottobre per la discussione del ricorso della Ragione Friuli Venezia Giulia (difesa dal prof. Avv. Giandomenico Falcon) è troppo lontana e va anticipata.

(Da Mondoprofessionisti del 22.2.2013)

Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Cass. Civ. Sez. Lavoro, sent. n. 2942 del 7.2.2013

Massima
Secondo la disciplina di cui al d.P.R. 1124/1965, applicabile per il periodo antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 38/2000 (che, all'art. 13, ha inserito il danno biologico all'interno della copertura assicurativa pubblica), l'indennizzo previsto in caso di infortunio sul lavoro si riferisce solo alla riduzione della capacità lavorativa e, in base anche all'interpretazione datane dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991) non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico.

1. Questione
Il dipendente della società, con mansioni di operaio manutentore - a seguito di infortunio sul lavoro occorsogli nello stabilimento conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Parma in funzione di giudice del lavoro la predetta società chiedendo il risarcimento del danno biologico e morale subito. La compagnia assicuratrice si costituiva eccependo la inoperatività della polizza essendo la garanzia riferita ai danni previsti dagli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1125/1965. L'adito giudice, dichiarata la civile responsabilità della società per il predetto infortunio sul lavoro, la condannava, in accoglimento della domanda di manleva, al risarcimento del danno in favore del dipendente per danno biologico e per danno morale.
Avverso tale decisione la società propone appello, dove la Corte di appello ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado. In sintesi, la Corte ha ritenuto: a) che la responsabilità della azienda per il verificarsi dell'infortunio sul lavoro de quo era stata affermata correttamente dal primo giudice non sulla scorta del giudicato formatosi nel giudizio penale, ma sulla base di una autonoma valutazione delle risultanze del procedimento penale e di quanto era emerso dalla attività istruttoria specificamente espletata nel processo civile; b) che la responsabilità della società trovava fondamento nel non aver previsto che una operazione pericolosa quale quella compiuta dal dipendente fosse eseguita con uno strumento (scala a pioli) non idoneo a consentire al lavoratore di operare in condizioni di sicurezza e, quindi, nel non aver predisposto quelle misure atte a prevenire rischi di infortuni anche riconducibili ad imprudenza, imperizia e negligenza del lavoratore la cui condotta poteva comportare l'esonero totale da responsabilità per il datore di lavoro solo ove avesse presentato i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, caratteri questi ultimi che nel caso in esame non ricorrevano nel comportamento tenuto dal dipendente; e, comunque, la società non aveva provato di avere impartito al dipendente una adeguata formazione sia sulle operazioni di manutenzione sia in merito al controllo ed alla vigilanza sul rispetto delle procedure aziendali di sicurezza.
E’ stato presentato ricorso in Cassazione, che è stato rigettato.

2. Indennizzo e risarcimento danni
L'obbligazione dell'assicuratore al pagamento dell'indennizzo al proprio assicurato è distinta ed autonoma rispetto all'obbligazione di risarcimento, cui quest'ultimo è tenuto nei confronti del danneggiato; questi versa nella posizione di terzo, rispetto al rapporto immediato fra le parti contraenti l'assicurazione, e pertanto, a differenza di quanto accade nella "speciale" disciplina della responsabilità derivante dalla circolazione stradale, non ha azione diretta nei confronti dell'assicuratore (cfr. Cass. civ., n. 5306 del 2007).
Seppur possano confluire nell'alveo del medesimo processo, le cause, l'una introdotta dal danneggiato contro il responsabile del sinistro, e quella di garanzia promossa da quest'ultimo contro l'assicuratore della responsabilità civile discendente dal contratto di assicurazione, restano scindibili (cfr. Cass. nn. 12049/03, 13126/97), e il danneggiato non può legittimamente considerarsi parte del rapporto processuale instauratosi per effetto della introduzione dell'altra causa, che resta distinta dalla prima, anche nel caso in cui l'assicurato richieda all'assicuratore di pagare direttamente l'indennizzo al danneggiato, attenendo detta richiesta alle modalità di esecuzione della prestazione indennitaria (cfr. Cass. civ., n. 15039 del 2005). Di conseguenza, il Giudice, nella presente pronuncia, ha fatto buon governo della disciplina codicistica in materia di interpretazione del contratto, indagando e valorizzando la comune intenzione delle parti anche alla luce del loro complessivo comportamento. Al riguardo, vale ricordare che, secondo la costante giurisprudenza del Giudice di legittimità, l'interpretazione del contratto, concretandosi nell'accertamento della volontà dei contraenti, si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà della motivazione, tale da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, o per violazione di regole ermeneutiche, con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca soltanto nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto vagliati dal predetto giudice di merito (ex plurimis Cass. civ., 2 marzo 1996 n. 1632). Peraltro, è sempre insegnamento giurisprudenziale incontroverso che il controllo sulla motivazione non può in nessun caso comportare il riesame del merito da parte del giudice di legittimità, anche per quanto attiene in particolare la valutazione delle prove (Cass. civ., sez. un. 27 dicembre 1997 n. 13045), mentre, in ogni caso, nella fattispecie concreta la motivazione è del tutto articolata e coerente, fondata su una valutazione completa di tutti gli elementi probatori acquisiti e correttamente vagliati secondo la loro oggettiva valenza e significato. Del resto, come chiarito dalla Corte di Cassazione in materia, secondo la disciplina di cui al d.P.R. 1124/1965, applicabile per il periodo antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 38/2000 (che, all'art. 13, ha inserito il danno biologico nella copertura assicurativa pubblica), l'indennizzo previsto in caso di infortunio sul lavoro si riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base all'interpretazione della Corte Costituzionale (sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991), non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la configurabilità concettuale della duplice conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) del danno alla persona non significa che il diritto positivo prevedesse un "danno biologico previdenziale patrimoniale". Ne consegue che la richiesta di indennizzo del danno biologico e morale, quali voci non ricomprese nell'assicurazione obbligatoria ma eventualmente risarcibile per il lavoratore infortunato, porta dette voci complementari fuori dal sistema risarcitorio ex artt. 10 e 11 del d.P.R. 1124/1965 e, quindi, per quanto qui interessa, fuori dell'ambito di operatività della polizza che fa riferimento ad una responsabilità civile su questi ultimi espressamente modellata, in luogo di quella codicistica ex art. 2043 c.c.

Rocchina Staiano (da diritto.it del 20.2.2013)

giovedì 21 febbraio 2013

Pannelli solari per singolo condomino, è possibile

Può un condomino installare pannelli fotovoltaici sul tetto (comune) per suo utilizzo personale?
Il caso
Un condomino vuole installare pannelli fotovoltaici sul tetto (comune) per suo utilizzo personale. Può farlo? Con l’intervento della riforma del condominio ci sono nuove regole al riguardo?
La soluzione
Con le nuove norme è consentito l’installazione di uno o più condomini di pannelli fotovoltaici, ma l’assemblea può prescrivere regole a salvaguardia della stabilità, della sicurezza e del decoro architettonico dell’edificio e deve ripartire l’uso del lastrico solare salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento condominiale.
L’assemblea può anche chiedere al condomino che installi i pannelli la prestazione di idonea garanzia per gli eventuali danni.

(Da avvocati.it del 20.2.2013)

L’1 Marzo a Catania convegno sul fallimento

Dal Consigliere dell’Ordine Avv. Carla Pappalardo riceviamo e pubblichiamo:

Cari amici,
vi segnalo un convegno organizzato dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, dall'Ordine dei Commercialisti, dal Tribunale e dal Centro Studi di diritto fallimentare di Catania dal titolo "GIUSTIZIA DIGITALE E LEGGE FALLIMENTARE - LA GESTIONE DELLE COMUNICAZIONI CON I CREDITORI E DEPOSITO TELEMATICO DEGLI ATTI" e che si terrà  il 1° marzo 2013, alle ore 15,30 presso l'Hotel Excelsior di Catania. La prenotazione va effettuata presso l'Ordine degli Avvocati (Sig. Amata).
E' un incontro nel quale verranno illustrate -nella pratica-  le novità in tema di comunicazioni telematiche nelle procedure concorsuali.
A tal proposito, la Sezione fallimentare del Tribunale ha predisposto una circolare con le linee guida per i curatori e i commissari che sarà illustrata al convegno che potete trovare sul sito dell'Ordine nella sez. formazione.

Avv. Carla Pappalardo

COMMEMORAZIONE DI ALFIO FINOCCHIARO

Un folto corteo di amici e colleghi ha accompagnato ieri pomeriggio, per la tumulazione al cimitero di Giarre, la salma del compianto Avv. Alfio Finocchiaro, scomparso l’altro ieri a 54 anni.
Stamane lo stimatissimo avvocato, dopo l’apposita sospensione dell’udienza civile di martedì, è stato ricordato dai colleghi penalisti, durante l’udienza tenuta dal Magistrato dirigente del Tribunale di Giarre Dott.ssa Maria Pia Urso, nell’aula penale che fino a pochi giorni fa l’ha visto brillante protagonista.
Alle 12.30 Alfio sarà commemorato dalla Camera Penale nella sala adunanze del Palazzo di Giustizia di Catania.

mercoledì 20 febbraio 2013

Impugnare condizioni separazione non blocca domanda di divorzio

Cass. Civ., sez. I, sent. 3.1.2013 n° 40
Nell’attesa che venga definita la questione dell’affidamento dei figli e dell’assegnazione della casa coniugale discusse in sede di appello, è possibile ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
E’ quanto ha statuito la Cassazione con la sentenza 3 gennaio 2013, n. 40.
Mentre era pendente presso la Corte di Appello il procedimento di riesame volto a definire le condizioni della separazione personale di due coniugi, a seguito dell’impugnazione della moglie, il marito chiede e ottiene dal Tribunale di Roma una sentenza che statuisce solo sul capo relativo al divorzio e rimanda la decisione sulle altre questioni. La moglie impugna anche la sentenza di divorzio sostenendo che la sentenza che ha pronunciato la separazione personale, in quanto appellata, non era passata in giudicato.
La Corte di Appello però conferma la decisione del Tribunale perché sostiene, come avvalorato da giurisprudenza consolidata, che sul capo della sentenza relativo allo status di coniuge separato, si sia formato un giudicato interno, avendo l’impugnazione ad oggetto solo le statuizioni aggiuntive.
La moglie ricorre allora in Cassazione deducendo in primo luogo l’inammissibilità e l’improcedibilità della domanda di divorzio per violazione dell’art. 3 comma 2 della legge su divorzio.
La Corte chiarisce che l’orientamento giurisprudenziale è nel senso di ritenere scindibile la pronuncia sulla separazione personale dalla pronuncia sulle altre questioni attinenti l’addebito o il mantenimento, ciò consente la proposizione della successiva domanda di divorzio (Cass. Civ. n. 16985/2007 e n. 15157/2005).
La recente sentenza della prima sezione civile n. 9614 del 2010 specifica che anche la previsione contenuta nella legge sul divorzio di cui all’art. 4, comma 12 – che contempla l’emissione di sentenza non definitiva sullo scioglimento del matrimonio - è stata introdotta dal legislatore per fornire uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo, perché prevedendo contro questa sentenza solo l’appello immediato, favorisce la formazione in tempi brevi del giudicato sulla pronuncia di divorzio (e di separazione).
La Corte parla di “frustrare gli intenti dilatori che pongono ostacoli ad un rapido intervento della decisione sullo status matrimoniale tale da eliminare l'incidenza negativa della durata della controversia attinente ai rapporti diversi da quello personale tra i coniugi”.
La norma speciale contenuta nella legge sul divorzio è in realtà un’applicazione del principio generale di cui all'art. 277 c.p.c., comma 2, con la differenza che la norma generale richiede il presupposto dell’istanza di parte e l’esistenza di un apprezzabile interesse alla veloce definizione della domanda.
Pertanto, il tribunale, qualora la causa sia matura per la decisione sul divorzio, anche d'ufficio non può, ma "deve", senza alcun potere discrezionale in merito, pronunciare sentenza non definitiva sul divorzio.
Ancor più recente una sentenza della stessa sezione della Cassazione, la quale ha confermato che l'impugnazione proposta con esclusivo riferimento all'addebito pronunciato in sentenza, implica il passaggio in giudicato del capo sulla separazione, rendendo esperibile l'azione di divorzio pur in pendenza impugnazione (Cass. Civ. n. 24442/2011).
Infine, la sentenza passa ad esaminare un altro motivo di ricorso dedotto dalla ricorrente, ossia la violazione di costituzionalità della norma di cui all’art. 2 della legge sul divorzio per contrasto con gli articoli 3,7,8 e 29 della Costituzione, nella parte in cui prevede per il matrimonio religioso la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Sostiene la ricorrente che ciò è irragionevolmente e pregiudizievole per i cittadini che hanno in precedenza esercitato una libera scelta in favore del matrimonio celebrato con rito religioso.
Con riguardo a quest’ultimo rilievo, in passato la Corte Costituzionale aveva evidenziato però che la scelta del matrimonio concordatario non implica la rinuncia ad avvalersi del diritto di far cessare gli effetti civili del matrimonio, essendo quest’ultimo un diritto personale e inviolabile e quindi indisponibile.
Al contrario, il diritto all'indissolubilità del vincolo matrimoniale non rientra nei diritti costituzionalmente garantiti. L'indissolubilità costituisce un requisito del matrimonio religioso previsto unicamente nell'ordine morale cattolico e nell'ambito dell'ordinamento canonico, che non è stato recepito nell'ordinamento italiano. Di conseguenza, quel vincolo non può avere alcuna incidenza sugli effetti civili del matrimonio concordatario, ne può precludere il diritto strettamente personale e irrinunciabile, riconosciuto ai coniugi dall'ordinamento italiano di far cessare gli stessi effetti civili (C. Cost. n. 11860/1993 e n. 7990/1996).
Anche questo motivo di ricorso dunque viene respinto dalla Cassazione, unitamente al ricorso in via incidentale presentato dal marito, che probabilmente stanco del battibecco giudiziario, aveva chiesto la condanna della moglie ai sensi dell’art. 96 c.p.c. per aver insistito nella pretesa di revisione della sentenza di divorzio, pur in presenza di normativa e giurisprudenza palesemente contrarie.

(Da Altalex del 29.1.2013. Nota di Giuseppina Vassallo)

Illecito amministrativo: si applica disciplina in vigore al momento del fatto

Trib. Torino, sez. III civ., sent. 28.11.2012 n° 6902
La legittimità di un provvedimento amministrativo va valutata, quanto ai presupposti di fatto e giuridici, con riferimento alle norme di legge in vigore al momento della sua adozione. E' quanto ha stabilito la Terza Sezione Civile del Tribunale di Torino, con la sentenza 28 novembre 2012, n. 6902.
L’art 1 della legge n. 689/1981, sotto la rubrica “principio di legalità”, prevede testualmente che "Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”.
Secondo l’orientamento della Cassazione, condiviso dal Tribunale, “in tema di illeciti amministrativi, l’adozione dei principi di legalità, irretroattività e divieto di analogia, di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981, comporta l’assoggettamento del fatto alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore eventualmente più favorevole, a nulla rilevando che detta più favorevole disciplina, successiva alla commissione del fatto, sia entrata in vigore anteriormente all’emanazione dell’ordinanza ingiunzione per il pagamento della sanzione pecuniaria, non trovando applicazione analogica gli opposti principi di cui all’art. 2, commi 2 e 3, c.p., attesa la differenza qualitativa delle situazioni”.
Nel caso di specie, l’adozione dei principi di legalità, irretroattività e divieto di analogia, di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981, comportava l’assoggettamento del fatto illecito contestato nel 2005 alla legge del tempo del suo verificarsi, ossia al D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 336, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore, di cui al D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 158.
In particolare, non rileva che tale ultima normativa ora richiamata, successiva alla commissione del fatto illecito, sia entrata in vigore anteriormente all’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione n. 21 del 22 marzo 2010, non trovando applicazione analogica gli opposti principi di cui all’art. 2, commi 2 e 3, c.p., attesa la differenza qualitativa delle situazioni.
(Da Altalex del 17.1.2013. Nota di Simone Marani)

martedì 19 febbraio 2013

UDIENZA FISICHELLA DEL 25 AL 28

Informiamo i Colleghi che l'udienza del Giudice di Pace di Giarre Avv. Salvatore Fisichella, già prevista per Lunedì 25, è stata rinviata d'Ufficio a Giovedì 28 Febbraio 2013 ore 9.

ALFIO FINOCCHIARO CI HA LASCIATI

Queste sono notizie che non vorremmo mai pubblicare, ma riteniamo corretto farlo non solo per dovere di informazione, ma soprattutto per avere l'occasione di manifestare il nostro grande sgomento e sincero dolore per la prematura dipartita di un Collega ed Amico davvero caro e stimatissimo.
Come avete letto nel titolo, l'Avv. Alfio Finocchiaro, penalista apprezzatissimo e di meritata chiara fama, stamane ha concluso il suo percorso terreno.
Sapevamo del brutto male che l'aveva colpito di recente, ma non pensavamo la situazione precipitasse così repentinamente, soprattutto avendolo visto nei giorni scorsi in udienza, con la sua solita forza ed il suo solito garbo.
Alcuni minuti fa chi scrive, in qualità di Segretario dell'Associazione Giarrese Avvocati, ha ricordato le doti umane e professionali di Alfio, soprattutto la disponibilità e l'umiltà, nell'aula del Tribunale di Giarre, ove tantissime volte è stato brillantemente impegnato, nel corso dell'udienza civile appositamente sospesa, grazie anche alla sensibilità del giudice dott.ssa Celesti.
Addio, carissimo Alfio!

lunedì 18 febbraio 2013

Avvocato in studio associato non paga Irap

Cass. Civ., sez. VI-T, sent. 9.1.2013 n° 382

La Suprema Corte ha affermato con l'ordinanza 9 gennaio 2013, n. 382 che, in materia di imposizione Irap, l’avvocato inserito (da un punto di vista professionale) in uno studio associato ha diritto al rimborso di tale imposta, qualora i costi sostenuti dal medesimo non superino una ragionevole soglia (nella fattispecie in esame quantificata in circa €. 9.000,00).
Il thema decidendum della controversia e le motivazioni del provvedimento
La vertenza processuale nasceva dal ricorso presentato innanzi alla Corte di Cassazione da un avvocato, il quale svolgeva la propria attività di legale all’interno di uno studio associato, al fine di ottenere il rimborso Irap, relativamente all’anno di imposta 2003.
I giudici ermellini hanno accolto la linea difensiva sostenuta dal ricorrente, in quanto la circostanza secondo cui “la sussistenza di uno studio associato costituisce indizio della esistenza di una stabile organizzazione” appare una mera presunzione che “può essere superata con adeguata motivazione”.
Ebbene, in questo passaggio la Suprema Corte ha censurato la ratio decidendi addotta dai giudici lombardi di merito (rectius: Commissione Tributaria Regionale di Milano), i quali non avevano evidenziato il fatto – del tutto rilevante ai fini del rimborso Irap – che l’avvocato/contribuente non avesse sostenuto, in quel determinato anno di imposta, alcun costo riferito al personale dipendente e soprattutto che le spese riconducibili ai beni strumentali rappresentavano una cifra estremamente esigua.
A ben vedere dunque, l’esistenza di spese (nel caso in parola per “prestazioni alberghiere”), peraltro modeste nella loro quantificazione (€. 8.869,00) non appaiono adeguate a determinare la sussistenza di una struttura organizzata “che possa cagionare un significativo maggior reddito del contribuente”.
Una lettura delle precedenti pronunce in tema di rimborso Irap
Come noto, il tema del diritto al rimborso Irap - laddove non sia certa e ben definita l’area della c.d. stabile organizzazione - ha portato, da parte della Corte di Cassazione, a pronunce di segno opposto nel corso degli anni.
Per esempio, la sentenza 27 settembre 2011, n. 19688 aveva sancito che i liberi professionisti pagano l’Irap anche se la loro organizzazione è di “modesta entità”, ovvero costoro sono soggetti al prelievo fiscale anche se la propria “struttura è minimale”.
Al contrario, in un’ulteriore decisione dei giudici di Piazza Cavour (ordinanza 10 febbraio 2012, n. 1941) gli stessi avevano stabilito che “l’occasionalità di lavoro altrui” determina l’esenzione dall’Irap.
In breve, in quest’ultima fattispecie affrontata dalla Suprema Corte, era stata analizzata la situazione di un intermediatore finanziario, il quale aveva richiesto il rimborso Irap sostenendo che si avvaleva di lavoro altrui solo occasionalmente.
La c.d. occasionalità di lavoro di terzi rappresenta – così hanno illustrato i giudici in tale occasione – la sporadica assistenza di altri soggetti, che esclude di fatto (ma anche di diritto) la sussistenza dell’autonoma organizzazione.
Sempre in materia di definizione del presupposto della c.d. stabile organizzazione, appare di rilievo anche la sentenza della Corte di Cassazione, n. 4490/12, sulla scorta della quale i giudici hanno sancito che il consulente aziendale, al pari dei piccoli imprenditori, non è soggetto al pagamento dell’Irap, qualora l’Amministrazione finanziaria non riesca a comprovare la titolarità concreta di un’autonoma organizzazione.
In conclusione, la Suprema Corte è approdata alla seguente conclusione, ovvero il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente: a) sia il diretto dominus della suddetta organizzazione – da un punto di vista formale e sostanziale – e che lo stesso non sia inserito in strutture organizzative riferite a terzi e b) utilizzi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività o si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.

(Da Altalex del 12.2.2013. Nota di Federico Marrucci)