sabato 28 marzo 2015

Cassa, cancellazione e sospensione

Prima la L. 247/2012 e successivamente il nuovo regolamento dei contributi, esitato da Cassa Forense in attuazione del comma 9 dell'art. 21 della citata legge, hanno profondamente innovato gli istituti della cancellazione e della sospensione, nonché i relativi presupposti ed effetti.
Di vero, nel sistema previgente, salvi i casi di iscrizione facoltativa, l'obbligo di iscrizione a Cassa Forense scattava con il raggiungimento del parametro reddituale minimo previsto.

Inoltre era necessario, ai fini della continuità professionale, mantenere, nel corso degli anni e per ogni anno, un reddito, almeno pari al tetto reddituale minimo, salvo i casi di compensazione con la media reddituale.

Da tale sistema ne derivava che la cancellazione d'ufficio poteva avvenire solamente nell'ipotesi di sopravvenuta accertata incompatibilità, nonché nell'ipotesi di cancellazione da tutti gli Albi. Mentre la cancellazione a domanda, poteva avvenire a) per la mancanza di continuità professionale; b) per definitiva cessazione dell'attività professionale con chiusura della partita IVA; c) infine per il praticante abilitato al patrocinio in qualunque momento a presentazione della domanda di cancellazione.

Con l'entrata in vigore della L. 247/2012, o meglio con l'approvazione e pubblicazione del nuovo regolamento dei contributi, avvenuta il 20 agosto 2014, il sistema della cancellazione, come si diceva, è stato profondamente modificato.

Infatti, ai sensi del comma 8 dell'art. 21 della L. 247/2012 "L'iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense."

Dalla citata disposizione normativa e dal successivo regolamento, emanato da Cassa Forense, ne deriva che l'unico presupposto, necessario e sufficiente, per l'iscrizione alla Cassa e per il mantenimento di tale iscrizione, è la delibera del COA che dispone l'iscrizione all'Albo. Quindi non più domanda da parte dell'iscritto, né verifica della continuità professionale, né tantomeno verifica di eventuali casi di incompatibilità, essendo questi ultimi demandati esclusivamente ai COA.

Dalla superiore, radicale, innovazione normativa, ne è conseguita la previsione dell'art. 6 del nuovo regolamento dei contributi che disciplina, espressamente, le ipotesi di cancellazione dalla Cassa.

Ebbene, ai sensi del predetto articolo, la cancellazione dalla Cassa avviene, per gli avvocati, d'ufficio, esclusivamente nell'ipotesi di loro cancellazione dall'albo, nonché nell'ipotesi di sua sospensione volontaria annotata nell'albo ai sensi dell'art. 20 comma 2 e 3 della L. 247/2012, mentre per i praticanti avvocati la cancellazione viene deliberata d'ufficio dalla Giunta Esecutiva nel caso di cancellazione dal registro dei praticanti non seguita dall'iscrizione all'Albo degli Avvocati, ovvero a domanda negli altri casi.

Si diceva poc'anzi che uno dei casi di cancellazione dalla Cassa è la sospensione facoltativa, annotata all'Albo ex art. 20 comma 2 e 3 L. 247/2012.

Ebbene quest'istituto rappresenta una notevole novità.

Cassa Forense ha parecchio ragionato durante i lavori per la redazione del regolamento, sugli effetti di tale sospensione ai fini dell'iscrizione, ovvero del mantenimento della detta a Cassa Forense. Di vero, a seguito della sospensione facoltativa, viene mantenuta l'iscrizione all'albo e, quindi, in linea puramente teorica, si continua a permanere nella previsione di cui al comma 8 dell'art. 21 della L. 247/2012, con la conseguente permanenza, sempre in linea teorica, della iscrizione a Cassa. Infatti l'avvocato continua a mantenere l'iscrizione all'albo; viene privato solamente dello ius postulandi.

Ma, se si fosse acceduto a detta interpretazione, poiché la sospensione non è soggetta a termine, si sarebbe creata l'assurda, ipotetica situazione secondo la quale, un avvocato, che non ha mai esercitato la professione in quanto sospeso facoltativamente, con il pagamento dei contributi minimi, avrebbe avuto, comunque, diritto sia alla assistenza, sia, ancora, al trattamento previdenziale, con intuibili refluenze sulla stabilità del sistema. Situazione, certamente, illogica.

Ed ecco perché si è ritenuto di accedere alla tesi secondo la quale l'avvocato sospeso facoltativamente, non esercitando la professione di avvocato, viene cancellato dalla Cassa.

Inoltre, nel periodo transitorio (art. 12 Regolamento contributi) è previsto, in via eccezionale, che nessun contributo soggettivo minimo verrà richiesto per il 2014 e per il 2015 laddove l'avvocato proceda alla cancellazione da tutti gli albi entro 90 giorni dalla entrata in vigore del regolamento, ovvero, entro 90 giorni dalla ricezione della comunicazione di avvenuta iscrizione alla Cassa.

Da parte di taluni professionisti si è sostenuto che la eccezionale e speciale disciplina di esonero della contribuzione minima di cui al citato art. 12 primo comma possa riguardare non solo i professionisti che si cancellino dagli Albi, nei termini sopra evidenziati, ma anche coloro che, entro lo stesso termine, procedono semplicemente alla sospensione ai sensi dell'art. 20 2 e 3 comma L. 247/2012.

Il Consiglio di Amministrazione ha affrontato la problematica e, al fine di dissipare ogni dubbio, con delibera n.763 del 18/12/2014, ha stabilito:

"che il disposto di cui al primo comma dell'art. 12 del regolamento di attuazione dell'art. 21, commi 8 e 9 della legge 247/2012, vada limitato alla sola ipotesi tipica ivi contemplata, di cancellazione da tutti gli Albi professionali non seguita da reiscrizione entro il successivo anno solare.

In caso di mera "sospensione" dall'Albo ordinario ex art. 20, secondo comma, legge 247/2012, si procederà a cancellazione dalla Cassa ex art. 6, primo comma, del citato regolamento con esonero dalla contribuzione a partire dal primo anno successivo a quello della "sospensione" ma fermo restando il pagamento dei contributi obbligatori relativi al periodo maturato in costanza di iscrizione alla cassa".

In altre parole, la previsione di cui all'art. 12 primo comma del regolamento, con le relative agevolazioni, si applica esclusivamente nell'ipotesi ivi prevista e non è estensibile, analogicamente, ad altri istituti.


Santi Geraci – Vicepresidente Vicario di Cassa Forense (da CF News del Marzo 2015)

I processi troppo lenti costano 8 milioni al mese

I processi lumaca costano all’Italia circa 8 milioni al mese. A lanciare l’allarme sulle ricadute economiche della legge Pinto sull’ingiusta detenzione è il capo del dipartimento per l’Ordine giudiziario del ministero della Giustizia, Mario Barbuto, in occasione della conferenza stampa che si è tenuta ieri a Roma per presentare il 5° Salone della giustizia. Un problema drammatico, come mostrano i numeri. Dal 2002, anno successivo all’entrata in vigore della Pinto, a regime l’Italia è debitrice nei confronti degli indennizzabili, che hanno già ottenuto un decreto ingiuntivo, per 313 milioni di euro. A giugno 2014, le domande di indennizzo ammontavano a 405 milioni, diventati 455 a dicembre 2014. Un aumento di 50 milioni in sei mesi con un trend in crescita.
Inevitabile per Barbuto chiedersi quanti cancellieri, giudici e operatori si potrebbero pagare con queste somme: in sei o sette mesi, gli organici potrebbero essere coperti. Il presidente del Tribunale di Roma Mario Bresciano ricorda che la produttività dei magistrati italiani e di Roma in particolare, è la più alta d’Europa. Malgrado il vuoto d’organico sia del 40%: il 30% fisso e il 13% dovuto alle contingenze del momento dalle ferie alla malattia ai permessi.Il Tribunale di Roma rischia di avere vuoti di organico ancora per 10 anni, anche per effetto della nuova legge che manda in pensione i magistrati a 70 anni. Il giurista Filippo Patroni Griffi fissa al 25 % l’aumento di organico che sarebbe necessario al Consiglio di Stato. Mentre il presidente emerito della Consulta Annibale Marini sposta l’attenzione sull’importanza di recuperare la norma costituzionale della durata ragionevole del processo, per ridare fiducia ai cittadini.

Temi che saranno affrontati dal 28 al 30 aprile al Salone della Giustizia, che si terrà a Roma, nel Salone delle fontane. A mettere l’accento sull’importanza dell’appuntamento è Guido Alpa, presidente del comitato scientifico. Alpa ha ricordato che l’evento, che punta ad avere un respiro internazionale, con i suoi 27 seminari sarà l’occasione per avvicinare il cittadino e soprattutto ai giovani al mondo della giustizia. Tanti gli appuntamenti ad iniziare con il Convegno del 28 aprile sulla riforma della giustizia, promosso dal Consiglio nazionale forense. Nel programma anche i seminari del Consiglio superiore della magistratura sulla responsabilità civile delle toghe e l’organizzazione degli uffici giudiziari.


Patrizia Maciocchi (da Il Sole 24 ore del 27.3.2015)  

martedì 24 marzo 2015

OUA convoca per 16 aprile Stati generali Avvocatura

L’Organismo unitario dell’avvocatura (Oua) riunirà venerdì prossimo, a Firenze, l’assemblea dei delegati per parlare di prescrizione, Ddl anticorruzione, divorzio breve, delega sul civile e Ddl liberalizzazioni. Inoltre l’Oua, recependo la forte agitazione della categoria, ha deciso di convocare per il 16 aprile, a Roma, gli stati generali dell’Avvocatura.

(Da Il Sole 24 ore del 24.3.2015)

Impadronirsi del cellulare dell’ex per leggere SMS è rapina!

Poco importa che si tratti di una ex fidanzata che probabilmente ha tradito e che la prova del tradimento si possa trovare nei messaggini del telefonino.
Secondo la Cassazione impadronirsi con la forza del cellulare della ex fidanzata anche se solo per leggere gli SMS e provare il tradimento, può far scattare una condanna per rapina.

Secondo la Cassazione violare la riservatezza sui contenuti di un cellulare va ad incidere sulla libertà del proprietario e determina un ingiusto profitto anche se solo di tipo "morale".

Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, un ventiquattrenne si era impossessato del cellulare dell'ex fidanzata strattonandola.

Nella sentenza (numero 11467/2015) la Cassazione fa notare che "l'instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'articolo 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione".

Nessuno quindi può pretendere di impossessarsi di cellulare altrui alla ricerca di prove di possibili tradimenti.

Inutile il tentativo dell'imputato di sminuire l'accaduto.

Nelle sue difese aveva tentato di scagionarsi affermando che la sua azione non era ingiusta ma era motivata dalla volontà di dimostrare al padre della sua ex i tradimenti perpetrati dalla figlia.

Una tesi che non ha fatto breccia nei giudici della suprema Corte per i quali è molto più importante la libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale che "comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine"  senza che nessuno possa accampare pretese di alcun tipo.


(Da studiocataldi.it del 21.3.2015)

Adesso le società fanno (un po’) meno paura

Prove di dialogo tra la categoria e il governo sull`ingresso
di soci di capitale negli studi legali. Con un limite del 30%

Due linee di pensiero, due opinioni diverse a confronto.

Il mondo dell`avvocatura non è nuovo a questo tipo di situazioni, ma stavolta c`è in ballo una parte di futuro.

Nel disegno di legge sulle liberalizzazioni, infatti, c`è una nuova apertura alle società tra professionisti, un modello che potrebbe cambiare il modo di intendere la professione nel prossimo futuro.

Da sempre gli avvocati (o per lo meno la maggioranza) si sono detti ostili alla possibilità di aprire gli studi legali alla partecipazione di un socio di capitale (eventualità prevista per le altre categorie professionali).

Adesso però il fronte non sembra più così compatto anche se ci sono ampi margini per trattative e soluzioni concordate.

L`apertura

«Su questa questione - afferma Ester Perifano, segretario generale  dell`Associazione nazionale forense - è necessaria un`operazione di verità e di chiarimento, se si vuole che le misure proposte - rappresentino un`opportunità di modernizzazione per l`avvocatura.

Quello che sicuramente non ci serve è una deregulation spinta del settore. È bene chiarire che c`è da parte nostra sicuramente apertura alla possibilità di avere soci, anche di capitale, purché la partecipazione del capitale sia accuratamente regolamentata e controllata, in modo da lasciare la gestione e le scelte sociali interamente nelle mani dei soci professionisti».

Mirella Casiello, presidente dell`Organismo unitario dell`avvocatura (Oua), invece ribadisce la «ferma contrarietà alla previsione dell`articolo 4 bis, che introdurrebbe la possibilità dell`esercizio nella forma di una società di capitali pura e semplice. C`è - aggiunge - il rischio di un totale assoggettamento degli avvocati operanti all`interno della nuova forma societaria ai cosiddetti poteri economici forti, con conseguente spersonalizzazione e/o massificazione dell`attività professionale forense, nonché con potenziale o concreta moltiplicazione dei conflitti d`interesse palesi e occulti».

Il compromesso

Una posizione apparentemente all`opposto di quella dell`Anf, che però apre al dialogo. «E del tutto condivisibile la posizione espressa di recente dall`Oua afferma Perifano - che chiede il rispetto dei limiti, dei criteri e delle modalità attuative previsti dall`articolo 10 della legge 183/2011 per tutte le altre società professionali. Dunque apertura ai soci di capitale, ridotti però a non più di un terzo del capitale sociale. È opportuno, pertanto, aprire immediatamente un`interlocuzione approfondita, sia con il ministero dello Sviluppo economico che con quello della Giustizia, per arrivare a uno statuto autonomo dell`avvocatura che disegni un sistema moderno e affidabile, ma rispettoso delle specificità che la nostra professione richiede per il suo rango costituzionale».

Un tavolo di trattativa che andrebbe bene anche all`Oua anche se con qualche apertura in meno verso il governo. «Chiediamo, innanzitutto, che l`articolo 4 bis venga stralciato dal disegno di legge sulla Concorrenza afferma Casiello -. Come Oua vogliamo indire un tavolo di confronto il 16 aprile a Roma fra tutte le componenti dell`avvocatura, istituzionali; politiche e sindacali, su questo tema, e su altri ugualmente fondamentali, per il futuro della nostra categoria e della giurisdizione, per definire una proposta organica e condivisa di esercizio della professione forense in forma societaria».

Prove di dialogo in una categoria dalle mille anime che si dibatte in un presente difficile ma che deve costruire un futuro diverso per poter sopravvivere.

Isidoro Trovato (da Corriere Economia del 23.3.2015)

Medico non comunica reato conosciuto: omessa denuncia

Cass. Pen. Sez. VI, Sent. 27.2.2015, n. 8937

La Corte di Cassazione ha stabilito che integra la fattispecie di reato di omessa denuncia la condotta del medico che, venuto a conoscenza in concomitanza o in ragione delle funzioni svolte, di una situazione che presenti gli elementi essenziali di un fatto costituente reato, non la comunichi alle Autorità competenti.

In particolare, nel caso in oggetto, l’imputata, esercente la professione sanitaria, era accusata dei reati previsti agli articoli 362 (“Omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio”) e 378 (“Favoreggiamento personale”) del Codice Penale perché, venuta a conoscenza per ragioni di servizio di una presunta violenza sessuale ai danni della sua paziente, minore di anni diciotto e affetta da una grave patologia psichica, ometteva di informare le Autorità competenti, aiutando nel contempo l’autore della violenza a eludere le investigazioni dell’autorità.

Ritenuta colpevole dal Tribunale e, dunque, condannata per i reati sopracitati, ricorreva in appello ma anche il giudice di seconda istanza riteneva sussistente la responsabilità penale del medico e confermava la sentenza impugnata.

Avverso tale ultima sentenza, il medico proponeva ricorso in Cassazione, lamentando vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge in relazione agli articoli del Codice Penale citati, per aver la Corte d’appello confermato il giudizio di penale responsabilità, nonostante l’assoluzione dall’accusa di abuso sessuale ai danni della minore.

I giudici della Suprema Corte hanno vagliato i motivi di gravame per entrambi i capi di accusa.

Tralasciamo le argomentazioni della Corte con riferimento al reato di favoreggiamento personale ex articolo 378 del Codice Penale, ritenuto non sussistente in seguito all’accertamento della insussistenza obiettiva del reato presupposto (la violenza sessuale), e passiamo alle argomentazioni circa la sussistenza del primo capo d’imputazione, l’omessa denuncia.

Con riferimento al reato previsto dall’articolo 362 (omessa denuncia), la Corte di legittimità ha rilevato che “affinché possa ritenersi integrata l’omissione di denuncia, è richiesto che l’esercente il pubblico ufficio venga a conoscenza, in concomitanza o a cagione delle funzioni espletate, di una situazione che presenti gli elementi essenziali di un fatto costituente reato: deve trattarsi di elementi che appaiono sufficientemente affidabili e capaci di indurre una persona ragionevole a concludere che vi sono apprezzabili probabilità che un reato sia stato commesso”.

Dunque, “è necessario e sufficiente – continua la Corte – che l’esercente un pubblico servizio ometta di denunciare un fatto di cui sia venuto a conoscenza che presenti le linee essenziali di un reato, mentre non è indispensabile che la notizia si riveli anche fondata. Il che si correla strettamente alla natura di reato di pericolo della incriminazione, dovendosi garantire che la notitia criminis pervenga comunque all’autorità giudiziaria, unica competente ad operare le valutazioni e ad assumere le decisioni in ordine all’ulteriore corso del procedimento penale”.

I giudici di merito hanno correttamente ritenuto irrilevante ai fini della sussistenza del reato di omessa denuncia la circostanza che l’autrice del presunto reato di violenza sessuale ai danni della paziente del medico fosse stata assolta.

Da tale pronuncia si evince il seguente principio di diritto: ai fini dell’integrazione del reato di omissione di denuncia rileva soltanto se, all’epoca dei fatti, l’imputato avesse contezza degli estremi di un reato e, nonostante ciò, abbia contravvenuto all’obbligo di rapporto cui era tenuto in quanto esercente un pubblico servizio.

Ciò nonostante, pur ritenendo sussistente una condotta criminosa dell’imputata, ha accolto il ricorso, essendo il reato estintosi per prescrizione.


Lorenzo Pispero (da filodiritto.com del 20.3.2015)

lunedì 23 marzo 2015

Contributo unificato nell’opposizione all'esecuzione

Circolare Ministero Giustizia del 3 Marzo 2015

Il Ministero della Giustizia - Dipartimento per gli Affari di Giustizia, al fine di uniformare il comportamento degli uffici giudiziari, ha diramato una circolare che fornisce indicazioni sul versamento del contributo unificato nei giudizi di opposizione in materia di esecuzione.

L'opposizione all'esecuzione (art. 615 c.p.c.) e l'opposizione di terzo all'esecuzione (art. 619 c.p.c.) sono assoggettate al versamento del contributo unificato al momento dell'iscrizione a ruolo, secondo il valore della domanda, trattandosi di azioni che introducono normali ed ordinari processi di cognizione.

L'opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), invece, soggiace al pagamento del contributo unificato nella misura fissa di € 168,00 (art. 13, comma 2 D.P.R. n. 115/2002).

Il Ministero chiarisce che se l'opposizione è proposta ad esecuzione già iniziata non si apre una fase incidentale, da assoggettare ad autonomo contributo unificato.

La circolare, inoltre, esamina la questione relativa all'individuazione del momento in cui deve essere corrisposto il contributo unificato nelle procedure esecutive.

L'art. 518, comma 6 c.p.c., come modificato dal D.L. n. 132/2014 (art. 18), convertito in L. n. 162/2014, prevede l'obbligo per il creditore procedente di depositare, presso la cancelleria del tribunale competente per l'esecuzione, la nota di iscrizione a ruolo accompagnata dalle copie conformi del processo verbale di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, ricevuti dall'ufficiale giudiziario che ha compiuto le operazioni di pignoramento.

Il Ministero della Giustizia evidenzia che, in base al dettato del D.P.R. n. 115/2002 (art. 14), nelle procedure esecutive il contributo unificato deve essere versato al momento del deposito dell'istanza di assegnazione e vendita da parte del creditore procedente.

Nelle ipotesi in cui il creditore effettui contestualmente il deposito della nota di iscrizione a ruolo, del titolo, del precetto, del verbale di pignoramento e dell'istanza di assegnazione e vendita, i dovrà procedere altresì al versamento del contributo unificato.


(Da Altalex del 18.3.2015)

sabato 21 marzo 2015

Orlando annuncia misure alternative del contenzioso

"In un prossimo provvedimento stanzieremo 10 milioni di euro per incentivare le alternative dispute resolution (risoluzioni alternative del contenzioso, ndr)”. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenendo alla presentazione del IV rapporto sulla giustizia civile in Italia, iniziativa organizzata dall’Unione nazionale delle camere civili. “Quest’anno nel civile siamo scesi sotto i cinque milioni di cause, abbiamo un decremento in corso, credo che il prossimo anno chiuderemo con quattro milioni e mezzo” ha aggiunto il ministro. “Assumeremo cento idonei dalla graduatoria dell’Ice e li destineremo ai tribunali che decideranno di sottoscrivere un piano per lo smaltimento arretrato”.
“Il provvedimento anti-corruzione può essere votato, il legame con il testo sulla tenuità del fatto nella sua entrata in vigore non esiste”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando commentando i ritardi nell’iter di approvazione del ddl anti-corruzione a margine del convegno per la presentazione del IV rapporto sulla giustizia civile Italia nel palazzo della Cassazione. “La commissione ha avuto il testo, se ci sono schermaglie di carattere procedurale sono lecite – ha aggiunto Orlando – ma il ddl si può votare. Ci sono tanti provvedimenti nel cui iter si fa riferimento ad articoli di legge che non hanno ancora efficacia, in questo caso sono solo in atto delle schermaglie procedurali”.


(Da askanews del 20.3.2015)  

Nulli atti Ag. Entrate e cartelle Equitalia a firma dirigenti “di fiducia”

Corte Costituzionale, sentenza n.37/2015

La sentenza tanto attesa  dell’Ill.ma Corte Costituzionale è stata emessa  pochi giorni fa ovvero la sent. n. 37/2015.

I dirigenti dell’Agenzia delle Entrate che hanno rivestito il ruolo di  “dirigenti  di fiducia” presso l’Amministrazione finanziaria,  non perché avessero vinto il concorso ma solo per  coprire dei posti vacanti per un certo periodo  di tempo, sono tutti "fasulli".

Il decreto legge del 2012 aveva tentato di porre rimedio alle cariche temporanee  dei falsi dirigenti, prorogando il tempo di durata della loro carica provvisoria e di conseguenza sanava tutti i vizi di legittimità degli atti firmati dai dirigenti senza titoli.

Ma la Corte Costituzionale ha sconfessato il decreto legge, ed esprimendosi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del D.L 2 marzo 2012, n. 16 posta dal Consiglio di Stato con ordinanza del 2013, ne ha dichiarato la sua illegittimità.

Tante  le sentenze dunque che condannano  gli organi apicali dell’Agenzia delle Entrate.

    Il consiglio di Stato, sent. n. 5451/2013;

    CTP Messina 2563/2012;

    TAR del Lazio sent. n 06884/2010;

    nonché dalla ecc.ma Corte Costituzionale con le sent. n. . 4557 del 2009,  Sentenze n. 103 e 104 del 2007, n. 161 del 2008 e n. 69 del 2011 ed ancora sent. n. 14942 del 14.06.2013.

“ NON ESISTONO REGGENZE DI  FIDUCIA”.

Quindi  l’Agenzia  delle Entrate,  a far data dal 1992,  per  carenza  di  organo direttivo ha fatto ricorso a delle reggenze che sono per natura provvisorie ed ha  illegittimamente autorizzato  a firmare degli atti in qualità di dirigenti,  dei funzionari pubblici senza qualifica né titoli né alcun conferimento di legge.

Questa evidente illegittimità eseguita dall’Agenzia delle Entrate è già stata censurata dal TAR Lazio nella precitata Sentenza, ma la logica conseguenza non può che essere l’inesistenza di tutti gli atti che questi funzionari reggenti, ma non dirigenti, hanno firmato e trasmesso. L’Agenzia delle Entrate,  dando  incarico di dirigenti  a semplici funzionari non in possesso della qualifica relativa, ha ecceduto nel suo potere di deroga a norme di rango superiori, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, senza indicazione del termine di durata e senza che l’Ente abbia provveduto a bandire le procedure concorsuali per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

Eppure la  Costituzione è chiara, nel suo art.97 c.3: “Agli impieghi nelle Pubbliche si accede per pubblico concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” .

In tutti questi anni c’è stato un eccesso di potere e sviamento. L’Agenzia delle Entrate con quella delibera, ma ormai era prassi dal 1992, oltrepassava  i limiti della propria autonomia regolamentare violando i principi fondamentali per l'acceso alla qualifica dirigenziale.

Si fa presente che è stato accertato nella sentenza del Tar del Lazio che ci sono 767 posti di Dirigenti coperti temporaneamente tramite incarichi ad interim o vacanti.

Insomma più della metà dei dirigenti che hanno firmato gli atti in questi anni non avevano i poteri per farlo e tutte le cartelle di Equitalia trasmesse dall’Agenzia delle Entrate ma firmate dai questi dirigenti sono INESISTENTI.


Floriana Baldino (da studiocataldi.it del 18.3.2015)

venerdì 20 marzo 2015

Divorzio breve, rischio ingorgo

Possibile per i «separandi» 
anticipare la presentazione dell’istanza

Il Senato ha approvato a larghissima maggioranza, con 228 sì, 11 no e altrettanti astenuti, il Ddl sul divorzio breve. Il provvedimento, che ha subito delle modifiche rispetto al testo originariamente approvato da Montecitorio, torna all’esame della Camera dei deputati.

La principale novità è il superamento del filtro dei tre anni :il termine per la domanda di divorzio sarà un anno dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Il Senato, con l’approvazione “con modifiche” del Testo unificato sul cosiddetto divorzio breve, ha dato il suo imprimatur a una modifica della norma del divorzio che, ove definitivamente approvata dalla Camera nella sua terza definitiva lettura, introdurrà il “termine breve” per la proposizione della istanza di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Ancora, vi è da porre in evidenza come la modifica consentirebbe a tutti i coniugi che si trovassero coinvolti nella fase istruttoria di un “separazione giudiziale” di poter – immediatamente - sfruttare il termine breve, posto che l’articolo 1 della legge in approvazione, prevedrebbe con il nuovo testo dell’articolo 3 della legge che regola il divorzio, la possibilità per i coniugi di presentare la domanda di divorzio una volta spirato il termine annuale.

Il termine annuale è stato poi conseguentemente ridotto a “sei mesi” - con una disposizione quanto mai coerente con il principio della “contrazione dei termini” che sembra essere l’unica attenzione dell’attuale legislatore - per quelle domande di separazione che siano state introdotte con la formula della domanda consensuale, per le quali quindi è immaginabile l’inutilità di tempi maggiori per meglio elaborare il lutto separativo.

Infine si deve citare la modifica prevista all’articolo 3 della norma in corso di approvazione che riguarda la “cessazione” degli effetti della comunione legale tra i coniugi: questa con l’entrata in vigore della norma, viene espressamente fatta decorrere, con l'inserimento del II comma all’articolo 191 del codice civile, nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nel caso di separazione giudiziale e dal momento dell'udienza presidenziale nelle separazioni consensuali omologate.

Quanto all’efficacia della nuova normativa sui tempi “ridotti” per introdurre l’istanza di divorzio il testo prevede come la disciplina si possa applicare per le domande di domande di divorzio proposte «dopo l’entrata in vigore della presente legge» ribadendo poi il concetto già implicitamente regolato all’articolo 1, secondo il quale in pendenza di giudizio per la separazione non osti alla formulazione della domanda di divorzio.

Questo del coordinamento tra i giudizi in corso e l’immediata proponibilità dell’istanza per il divorzio costituisce, come può osservare ogni operatore del sistema della giustizia della famiglia, il punto più debole dell’intero impianto normativo. Ciò che appare esser sfuggito al legislatore è il fatto che l’immediata possibilità, per la numerosissima platea di coniugi “separandi” di presentare al proprio tribunale la domanda per il divorzio, comporterà, viste le attuali enormi difficoltà di smaltimento del lavoro ordinario dei tribunali (che nelle curie più grandi, fissano oggi per l’udienza presidenziale una data a sei mesi dal deposito della domanda) la contestuale, ovvia, paralisi degli uffici.

Ancora non può sottacersi l'aspetto critico più tecnico, quello connesso alla “contemporanea” pendenza di due “domande differenti” avanti al medesimo giudice della separazione, tema che sicuramente provocherà numerose critiche all'impianto normativo, che in merito nulla dispone.


Giorgio Vaccaro (da Il Sole 24 ore del 19.3.2015)

giovedì 19 marzo 2015

19 MARZO, SAN GIUSEPPE

... e buon onomastico al Presidente Fiumanò e al Consigliere Musumeci!

mercoledì 18 marzo 2015

Rate decennali per riscattare la laurea

Pagamento del riscatto degli anni della laurea in giurisprudenza, del servizio militare e di quello civile, nonché del periodo del praticantato («anche se svolto all'estero», efficace ai fini dell'approdo all'esame di stato e, comunque, «per non più di 3 anni») rateizzabile fino a 10 anni. E riduzione dell'interesse «dal 4% al 2,75% annuo». È con queste due modifiche che ottiene l'approvazione dei ministeri vigilanti di welfare, economia e giustizia il Regolamento per il riscatto (in base a quanto stabilito dall'articolo 24 della legge 141/1992) della Cassa di previdenza forense; la delibera, adottata dal comitato dei delegati il 19 dicembre 2014, riceve, il semaforo verde con un testo, di cui ItaliaOggi è in possesso, pronto per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, firmato dal direttore generale per le politiche previdenziali e assicurative del dicastero di via Veneto, Concetta Ferrari. Soddisfatto il vertice della Cassa, perché sono state recepite le modifiche sollecitate e perché, nonostante l'ultima correzione inviata fosse della fine del 2014, «abbiamo atteso oltre due anni per il via libera».
Novità rilevanti l'opportunità di saldare le somme dovute per riscattare gli anni di studio, di pratica forense e di attività civili e militari in un arco più lungo, «esteso, cioè, da 5 a 10 anni» afferma il presidente Nunzio Luciano. Diritto che potranno esercitare gli avvocati iscritti alla Cassa in regola con le comunicazioni reddituali e col versamento dei contributi, ma pure «chi è stato cancellato dalla Cassa, ma conservi il diritto alla pensione di vecchiaia», i «titolari di pensione di inabilità», nonché i superstiti che possano così conseguire il diritto alla pensione indiretta. Ma quale sarà l'effetto sull'estratto conto previdenziale? Gli anni in tal modo «recuperati» comporteranno un aumento di anzianità di iscrizione e contribuzione pari al numero di quelli riscattati. È «un investimento per il futuro della nostra categoria, che godrà di una dilazione importante nell'attuale stagione di crisi economica», va avanti il numero uno dell'Ente. Le nuove norme saranno applicabili (a richiesta dell'interessato) alle domande di riscatto già presentate, per le quali non sia, però, scaduto il termine per la corresponsione della prima rata; il tasso del 2,75% annuo non subirà variazioni, perché «sarà mantenuto per l'intero periodo della rateazione». Luciano auspica, infine, di avere dai ministeri risposta «in tempi celeri» sul nuovo Regolamento sull'assistenza, «fondamentale per avviare il welfare attivo a cui puntiamo».


Simona D'Alessio (da Italia Oggi del 18.3.2015)  

Amministratore condominio, per revoca basta giudice

La legge indica un’ampia casistica di comportamenti
per i quali si può «saltare» l’assemblea

Con la riforma del condominio sono stati esposti in maniera esplicita i casi di gravi irregolarità che potrebbero dare vita alla revoca giudiziaria, senza nulla togliere alla confermata facoltà dei condòmini di poter revocare l’amministratore, in ogni tempo, anche senza giusto motivo o giusta causa.

Può essere causa di revoca giudiziaria dell’amministratore, su ricorso di ciascun condomino, non aver reso il conto della propria gestione, non aver informato l’assemblea della notifica di una citazione o di un provvedimento che abbia un contenuto che esorbita le attribuzioni dell’amministratore, o essere causa di gravi irregolarità. L’assemblea non può nominare nuovamente l’amministratore revocato.

Nel caso di irregolarità fiscali o di mancata apertura e utilizzazione del conto corrente condominiale, ogni singolo condomino si potrà rivolgere al giudice solo dopo la mancata revoca da parte dell’assemblea.

Il Tribunale di Sciacca (sentenza 16 giugno 2014) ha revocato l’amministratore ex articolo 71- bis disposizioni attuative Cc perché condannato, con sentenza definitiva, per il reato di omesso versamento delle trattenute previdenziali. Dato che si tratta di «un’ipotesi speciale di appropriazione indebita», esso costituisce una causa ostativa allo svolgimento dell’incarico di amministratore di condominio, perché determina la perdita del possesso di uno o più dei requisiti indicati dall’articolo 71 bis delle disposizioni di attuazione del Codice civile.

Il divieto di “rinomina” dell’amministratore revocato sembrerebbe essere stato interpretato in modo estensivo dal Tribunale di Lecco (sentenza del 13 giugno 2014), che annullava la delibera assembleare con la quale era stato nominato amministratore del condominio la moglie di quello precedentemente revocato dal Tribunale, in quanto la nomina ripetuta dell’amministratore revocato (o di persone a lui riconducibili, come la moglie), anche se da parte della maggioranza dei condomini, aveva ingenerato diversi contenziosi giudiziari con grave pregiudizio per l’interesse alla corretta gestione della cosa comune, situazione che, secondo il giudice di merito, si sarebbe perpetrata, con l’attuale amministratrice, stante il rapporto personale tra i due.

Altre cause di revoca giudiziaria sono, per esempio l’inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 1130 n. 6, 7, e 9, del Codice civile oppure l’omessa comunicazione dei dati di cui all’articolo 1129 comma 2, nonché ogni qual volta l’amministratore abbia assunto atteggiamenti negligenti che possono comportare conseguenze sui condomini.

Di recente il Tribunale di Trento (ordinanza del 1° dicembre 2014) ha revocato un amministratore perché ha «dimostrato una inescusabile superficialità per aver posto in essere un’attività in sé incompatibile con la tutela delle parti comuni»: senza alcuna autorizzazione aveva praticato un’apertura sul muro al di sopra della porta tagliafuoco tra l’accesso ai garage dal giro scala, così vanificando la struttura e le misure antincendio, impedendo di fatto ai condomini di parcheggiare l’auto nel garage interno, oltre a non aver curato la tenuta del registro anagrafe condòmini e non aver pubblicizzato i propri dati anagrafici nella bacheca condominiale.

Per questo stesso ultimo motivo il Tribunale di Palermo (decreto 20 maggio 2014) ha disposto la revoca giudiziaria per condotta gravemente irregolare dell’amministratore essendosi reso irreperibile, per omissione di quanto disposto dall’articolo 1129 del Codice civile che, tra l’altro, richiede che, sul luogo di accesso al condominio, venga fissata l’indicazione delle generalità, del domicilio e i recapiti dell’amministratore.

Infine, in caso di accoglimento, da parte del giudice, della istanza di revoca giudiziaria, il ricorrente per le spese legali ha titolo di rivalsa nei confronti del condominio che, a sua volta, può rivalersi nei confronti dell’amministratore revocato (articolo 1129).

Diverso è invece il regime delle spese legali in caso di nomina dell’amministratore giudiziario (articolo 1129 comma 2) nei casi in cui l’assemblea non vi provvede. In tal caso, ha spiegato la Cassazione (sentenza 11 febbraio 2015 n. 2719), le spese di giudizio rimangono a carico della parte istante «in quanto l’articolo 91 Cpc (quello relativo alla condanna alle spese di giudizio), si riferisce a ogni processo, senza distinzioni di natura e di rito» (quindi anche ai provvedimenti di natura camerale e non contenziosa) «e il termine sentenza è, all’evidenza, ivi usato nel senso di provvedimento che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiude il procedimento stesso innanzi al giudice che lo emette: quindi, anche se tale provvedimento sia emesso nella forma dell’ordinanza o del decreto». Nella sentenza la giustificazione alla condanna alle spese si ravvisava nella contrapposizione di interessi tra il condomino che chiedeva la nomina dell’amministratore e si ostinava a non riconoscere quello nominato, nel frattempo, dall’assemblea, e il condominio, che aveva nominato l’amministratore e non voleva farlo nominare dal giudice, essendo cessata la materia del contendere.

L’amministratore nominato dal tribunale non va considerato alla stregua di un ausiliare del giudice, come se si trattasse di un consulente tecnico o un custode, per cui non potrà richiedere la liquidazione con decreto del suo compenso, secondo le modalità previste dall’articolo 52 del Codice di procedura civile. Ad esso si applicheranno le ordinarie norme previste per l’amministratore (Cassazione, sentenza 16698/2014). 


Luana Tagliolini (da Il Sole 24 ore del 17.3.2015)

martedì 17 marzo 2015

Danno da nascita indesiderata al vaglio delle S.U.

Cass. Sez. III Civ., Ord. Interlocutoria 23.2.2015, n. 3569

La Corte di Cassazione, con Sentenza del 23 febbraio, ha rimesso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, le questioni relative al danno da nascita indesiderata per mancata informazione sull’esistenza di malformazioni congenite del feto, nonché alla legittimazione, o meno, del nato a pretendere il risarcimento del danno.

Nel caso in esame, una coppia conveniva in giudizio il primario di Ostetricia e Ginecologia presso l’ospedale di Barga e il Direttore del Laboratorio di Analisi dello stesso presidio, nonché l’Azienda U.S.L. di Lucca al fine di ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della figlia, affetta da sindrome di Down.

Secondo i ricorrenti il danno doveva essere risarcito dai medici che avevano avviato la donna al parto, senza che fossero stati disposti approfondimenti, benché i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito valori non rassicuranti.

Dopo la Sentenza del Tribunale di Lucca, che aveva rigettato la domanda della coppia, e la conferma da parte della Corte di Appello di Firenze, che aveva ritenuto che la donna non avesse dato alcuna prova della condizione di pericolo per la sua salute fisica o psichica, che avrebbe rappresentato condizione legittimante il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza dopo il novantesimo giorno, i coniugi hanno proposto ricorso per Cassazione, cui hanno resistito tutti gli intimati.

La coppia lamentava davanti alla Corte l’impossibilità di fornire tale prova, poiché la condizione di pericolo per la salute si ingenera a fronte di un completo quadro informativo, di cui la donna non ne era conoscenza.

Quanto alla domanda risarcitoria avanzata dai genitori in nome e per conto della figlia, i giudici di merito avevano sostenuto la non esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere o a non nascere se non sano. Secondo i ricorrenti, il risarcimento non è volto a coprire una nascita indesiderata, bensì un’esistenza difficile da portarsi dietro tutta la vita e da vivere in ragione delle proprie limitazioni psicofisiche.

Secondo la Corte, il ricorso è incentrato su due questioni che meritano di essere sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite, vale a dire quella relativa all’onere probatorio in relazione alla correlazione causale fra inadempimento dei sanitari e mancato ricorso all’aborto e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria.

Al riguardo si sono affermati due orientamenti contrastanti. Un primo orientamento ritiene che corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata delle gravi malformazioni del feto. Si è affermato, infatti, che è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto. Tale orientamento è stato criticato da alcune pronunce della Corte (Cassazione Civile n. 16754/2012) che ha evidenziato come in mancanza di una preventiva, inequivocabile ed espressa dichiarazione di volontà da parte della donna di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, il giudice è chiamato ad una valutazione caso per caso, e la parte attrice dovrà quindi fornire ulteriori elementi, non la mera dichiarazione di volontà.

Per quanto riguarda la questione della legittimazione del nato a pretendere un risarcimento a carico del medico che, col suo inadempimento, ha privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza, anche su questo punto, afferma la Cassazione, si hanno diversi orientamenti giurisprudenziali. Innanzitutto l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile un diritto a non a non nascere o a non nascere se non sano. Ma, è stato recentemente affermato che una volta venuto ad esistenza, il nascituro ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e rappresentato dell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità (Cassazione Civile n. 16754/2012).

Pertanto, la Corte rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.


Francesca Russo (da filodiritto.com del 16.3.2015)

La casa va venduta con il posto auto condominiale

La vendita di un’abitazione senza il diritto d’uso del posto auto condominiale è illegittima e può comportare la nullità dello stesso contratto. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 4733 depositata ieri in una vicenda relativa alla compravendita di un appartamento posto nella periferia di Roma, nella quale il venditore aveva alienato solo l’immobile mantenendo il diritto d’uso del parcheggio condominiale giacchè connesso ad una veranda abusiva ubicata nello stesso edificio.
I coniugi acquirenti, invece, dando per scontato che insieme all’appartamento andava abbinato anche il beneficio del posto auto numerato in condominio, contro la decisione del giudice d’appello, adivano la Cassazione.

E a ben vedere, perché la Corte ha confermato la loro tesi.

“Bacchettando” la Corte d’Appello di Roma, che aveva dato ragione al venditore senza tenere conto della natura del diritto all’uso e al godimento del posto auto condominiale e soprattutto ritenendo “irrilevante” la natura abusiva del vincolo di pertinenza dallo stesso creato, i giudici della S.C. hanno annullato la sentenza.

Secondo la Cassazione, infatti, la normativa di riferimento (l’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942), disponendo la dotazione di parcheggi nelle costruzioni realizzate dopo l’1 settembre 1967, pone un vincolo di destinazione obbligatorio tra la cubatura totale dell’edificio e gli spazi destinati a parcheggio, facendo sorgere in tal modo un diritto reale d’uso sugli stessi a favore di tutti condomini.

Sbagliando, pertanto, il giudice d’appello ha ritenuto legittima la riserva operata dall’alienante sul parcheggio condominiale, una volta acclarata che la stessa era legata all’unità immobiliare abusiva (la veranda) realizzata ex post.

In tal modo, infatti, “mediante l’alterazione del precedente standard urbanistico”, cioè del rapporto tra la superficie di parcheggio e i metri cubi di costruzione, risultava eluso, in danno del diritto degli acquirenti dell’immobile di fruire anche del posto auto sotto forma di diritto reale d’uso, lo stesso vincolo di destinazione imposto dalla normativa. Su quest’assunto, pertanto, la s.C. ha cassato la sentenza con rinvio.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it dell’11.3.2015)

lunedì 16 marzo 2015

Ok non punibilità per tenuità del fatto

L'Organismo Unitario dell'Avvocatura esprime un giudizio complessivamente positivo rispetto al decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri di ieri sera. Rimangono i dubbi sui rischi di eccessiva discrezionalità dei magistrati. Per Mirella Casiello, presidente Oua, «il provvedimento dell'Esecutivo è nella giusta direzione perché circoscrive i confini di non punibilità, senza cedere a pericolose semplificazioni che avrebbero lasciato spazio ad aree di impunità su reati odiosi. Certo, ci sono ulteriori margini di intervento e di miglioramento per ridurre il peso del contenzioso sui nostri tribunali sui cosiddetti reati minori, cercando di evitare le pressioni più giustizialiste ma garantendo anche il diritto alla sicurezza dei cittadini. Anche a seguito delle richieste dell’Oua, positive anche le correzioni che consentono la possibilità tanto per la parte offesa quanto per l’indagato di fare opposizione all’archiviazione per tenuità del fatto o comunque di rinunciarvi a favore di una pronuncia nel merito. Rimane - conclude Casiello - il nodo della discrezionalità dei magistrati e il problema di possibili decisioni contraddittorie a seconda del tribunale. Ma anche la necessità di garantire adeguatamente le persone offese».

(Da Mondoprofessionisti del 16.3.2015)  

venerdì 13 marzo 2015

Penalisti sul piede di guerra

Svolta “forcaiola” del governo, avvocati pronti a scioperare

E’ un bombardamento. Anzi, un`offensiva a tenaglia. Senato e Camera. Da una parte l`anticorruzione, che si arricchisce di una bella spruzzata di 416bis. Dall`altra la super-prescrizione, ormai pronta al decollo: via libera della commissione Giustizia, con tanto di mandato ai relatori (ma con il no dell`Ncd). Da lunedì si va in aula. Può bastare a risarcire i magistrati per la responsabilità civile? Forse sì. O forse sarà eccessivo mettere in relazione lo strappo giustizialista di Pd e governo con il dispiacere dato alle toghe. Fatto sta che da quando Montecitorio ha definitivamente approvato la riforma della Vassalli, sulla giustizia c`è stata una clamorosa virata in senso restrittivo.

Se i deputati accelerano, i senatori fremono. Martedì sono state aumentate  le pene per peculato, mercoledì sera quelle per corruzione in atti giudiziari e per induzione indebita.

Ieri è saltato fuori un altro emendamento, sempre del governo, che ha introdotto nello stesso disegno di legge anticorruzione anche innalzamenti di pena per il 416 bis. Va bene il principio «nessuna pietà per i mafiosi», per citare l`esultanza del capogruppo dem Beppe Lumia. Ma perché mischiare misure per reati contro la pubblica amministrazione con quelle contro le cosche? I senatorio macinano ma appunto fremono, perché costretti ad aggiornarsi alla prossima seduta, fissata per lunedì, senza ancora aver ricevuto l`emendamento di Orlando sul falso in bilancio. Ma è questione di ore.

ALTRO CHE GIUDICI, ORA SCIOPERANO I PENALISTI

Prendete tutto questo e frullatelo con la prescrizione-monstre, varata ieri dall`altra commissione Giustizia, quella della Camera. Ne esce un processo che non finisce più. Oltre 20 anni perché arrivi la prescrizione in caso di corruzione propria. Ben oltre 25 anni per i casi aggravati di corruzione in atti giudiziari. Chi è che avrebbe dovuto fare sciopero? Adesso rischiano di farlo i penalisti. Sono a un passo.

L`Unione delle Camere penali delibera lo stato di agitazione e si riserva «ulteriori iniziative». Il presidente Beniamino Migliucci non esclude lo sciopero. Prevale, secondo gli avvocati, una «sorta di demagogia dell`urgenza` che induce Parlamento e governo a prendere decisioni improvvide» nella «delicatissima materia» della prescrizione.

Eppure, viene fatto notare nella delibera (di cui pubblichiamo ampi stralci in altro servizio di questa pagina, ndr), «alcun dato statistico segnala la esistenza di una qualche reale emergenza».

In effetti i dati dicono che solo il 3,5 dei reati contro la pubblica amministrazione finisce prescritto.

Ma il governo ormai pare non fermarsi più.

Il governo in realtà è diviso. Esattamente come la maggioranza. Alla Camera i deputati di Arera popolare (Ncd e Udc) votano contro il via libera alla prescrizione, e si vedono sostituiti dai colleghi di Sel che arrivano a dar man forte al Pd. Al ministero della Giustizia è in corso uno scontro molto teso tra il ministro Andrea Orlando e il suo vice Enrico Costa, che è appunto del Nuovo centrodestra. I due non si sono parlati per giorni, da quando cioè la commissione Giustizia di Montecitorio ha approvato la modifica decisiva sulla prescrizione, il famoso raddoppio. In pratica, i tempi massimi relativi alle interruzioni del processo erano prima calcolati in un quarto del massimo edittale, adesso nella metà della stessa pena massima. E` la goccia che ha fatto traboccare il vaso,. E incrinato i rapporti tra il guardasigilli e viceministro. Il quale si limita ad auspicare «correttivi tali da consentire il voto compatto in aula».

Come a dire: se il testo resta quello appena licenziato dalla commissione, noi dell`Ncd confermeremo il nostro no.

Chi è contento è ovviamente Donatella Ferranti, presidente pd della commissione Giustizia, e magistrato: «Una riforma equilibrata ma sostanziale, che potrà finalmente impedire lo scandalo di processi bloccati dalla tagliola del tempo». E poi «finalmente dopo 10 anni mandiamo in archivio la ex Cirielli, una legge perniciosa». L`altro punto forte ricordato da Ferranti è la sospensione della decorrenza dei termini di prescrizione per due anni dopo la condanna in primo grado e per un anno dopo quella in appello.

Si è almeno avuta la premura di prevedere che tali sospensioni si annullino in caso di successiva assoluzione.

E anche di sancire l`inapplicabilità delle nuove regole ai processi in corso. C`è ancora una norma di civiltà che tutela i minori vittime di abusi: per i loro aguzzini la prescrizione comincia a decorrere solo quando la vittima  compie 14 anni.

Il resto però rischia di intaccare pesantemente il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Chissà se nell’ala dura delle toghe tutto questo attenuerà l`irritazione per la responsabilità civile. Un magistrato molto autorevole, il presidente della Corte costituzionale Alessandro Criscuolo, dice che «l`eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi non dovrebbe «determinare uno stato di totale preoccupazione o intimidazione per l`ordine giudiziario». E anzi, «se un problema si pone, è nel senso di prevedere una maggiore attenzione, per evitare di incorrere in questa responsabilità». Poi aggiunge: «Una maggiore attenzione può essere un fatto fisiologico, normale e direi positivo». Criscuolo è stato anche presidente dell`Anm. E ricorda un altro dettaglio: «Il risarcimento danni per responsabilità può essere coperto da assicurazione».

Ecco. E allora, per tranquillizzare le toghe, c`era davvero bisogno di regalare loro il processo infinito?


Errico Novi (da Cronache del garantista del 13.3.2015)

giovedì 12 marzo 2015

Niente archiviazione con lesioni gravissime

No all’archiviazione per tenuità del fatto per l’omicidio colposo e le lesioni gravissime. Casomai ce ne fosse stato bisogno, la versione finale del decreto legislativo che approda oggi al Consiglio dei ministri, esclude espressamente, su indicazione del parere votato dalla Camera, l’applicazione dell’istituto «quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona».
Il provvedimento che oggi riceverà il via libera definitivo inserisce nel Codice penale un nuovo articolo, il 131 bis, che permetterà di escludere la punibilità quando per le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa va considerata di assai limitata rilevanza.

A escludere l’irrilevanza dell’offesa ci sono i motivi abietti o futili, la crudeltà, le sevizie, le condizioni di incapacità/impossibilità a difendersi della vittima; mentre la condotta è abituale, anche su questo punto è stata accolta una sollecitazione parlamentare, quando l’autore è dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, oppure ha commesso più reati della stessa indole o reati che hanno per oggetto condotte «plurime, abituali e reiterate» (per esempio, lo stalking).

A prova del fatto che non si tratta di un intervento di depenalizzazione stanno due elementi: l’inserimento del procedimento di archiviazione nel casellario e, anche questa è una novità dell’ultima ora, la previsione che il giudicato penale sulla particolare tenuità del fatto ha effetti diretti nel giudizio civile per il risarcimento del danno. Come spiega chiaramente la relazione al decreto, infatti, l’esclusione da punibilità introdotta non è un verdetto di assoluzione, ma, al contrario, accerta, in maniera definitiva, che il reato è stato commesso e dalla persona dichiarata non punibile. L’imputato ha avuto tutte le possibilità di difendersi in un procedimento che non si è concluso con un decreto di archiviazione, ma con una sentenza penale passata in giudicato e, quindi, a questo accertamento del fatto illecito che ha provocato anche un danno deve essere assegnata rilevanza anche nel giudizio civile.

In ogni caso, tanto la persona indagata, che potrebbe avere interesse a una pronuncia di piena assoluzione e non a un giudizio di cui appunto resta traccia nel casellario, tanto quella offesa devono essere informate da parte del pubblico ministero che ha chiesto l’archiviazione. In questo modo, entro 10 giorni, potranno opporsi nel merito, senza però che alla persona offesa sia attribuito un diritto di veto. Obiettivo del decreto è infatti da una parte escludere dall’area della punibilità quei fatti storici che ne sembrano del tutto immeritevoli sia alleggerire il carico giudiziario soprattutto, come ovvio, quando l’archiviazione interviene nelle prime fasi del procedimento.


Giovanni Negri (da Il Sole 24 ore del 12.3.2015)

Pene più dure per rapine e furti in appartamento

LA PROPOSTA
 
Esclusione della punibilità per i reati minori, sulla base della "tenuità del fatto", accordo sulle modifiche ai reati di corruzione.

E, contemporaneamente, aumenti di pene per i furti in appartamento e le rapine, reati cresciuti particolarmente negli ultimi dieci anni (le rapine, in realtà, sono rimaste sostanzialmente stabili nell`ultimo anno e calate per alcune tipologie specifiche, ma dopo essere cresciute de1195,4% in dieci anni).

È una mediazione tutta politica quella a cui hanno lavorato il ministro della giustizia Andrea Orlando e il viceministro Enrico Costa. Destinato a dare spazio ad una delle vertenze più care al Nuovo centro destra che da tempo  chiede interventi più duri sui reati di allarme sociale.



GLI AUMENTI

L`ipotesi è di creare una tipologia specifica per il furto in appartamento, attualmente accomunato dal Codice penale al furto con strappo. Contemporaneamente, verrebbero aumentate le pene sia massima sia minima, dall`attuale range 1-6 anni a 2-8 anni, fissando specifiche limitazioni alla possibilità di bilanciare tra circostanze attenuanti e aggravanti, ovvero, dando più peso alle seconde.

Era stato lo stesso Censis, nel suo rapporto annuale, a parlare di aumento record dei furti in abitazione saliti in dieci anni del 127%. Complessivamente, sono aumentate anche le rapine, per le quali colpisce il trend (+195,4% in dieci anni), e l`incremento del 3,7% nel 2013, anche se il 2014 segna un -0,2%.

La proposta di Orlando e Costa prevede interventi anche su questo reato, attualmente punito con una pena che va da 3 a 10 anni di reclusione: il minimo salirà a 4 anni, in modo da escludere la sospensione cautelare della pena per gli incensurati e ridurre i benefici della liberazione anticipata. La rapina aggravata, oggi punita con una reclusione che può durare da 4 anni e sei mesi fino a venti, salirà, nel minimo, a 5 anni di prigione.

Intanto oggi il consiglio dei ministri dovrebbe varare la misura sulla tenuità del fatto, alla quale è "agganciato" l`emendamento sul falso in bilancio che pur avendo eliminato le soglie di punibilità punta a salvaguardare le piccole  aziende responsabili di abusi bagatellari.

L`intervento riguarda reati minori puniti con multa o pena non superiore nel massimo a 5 anni, per i quali, quando non vi siano condotte abituali e danni rilevanti, il giudice può concedere direttamente l`archiviazione.


Sara Menafra (da Il Messaggero del 12.3.2015)  

Crisi falcidia avvocati: in 5mila pronti a mollare

Contributi onerosi, troppi aspiranti professionisti: i redditi si sono ridotti del 25% e a giorni c'è da decidere se versare la quota alla cassa previdenziale. O autosospendersi dall'Ordine

Anche i professionisti piangono. O meglio: anche gli avvocati non arrivano alla fine del mese. E ancora: ce ne sono tanti, tantissimi e in costante aumento, che neppure ce la fanno a pagare i contributi previdenziali minimi (circa 2mila euro l'anno), e oltre all'onta - di non riuscire a mettere insieme un reddito dignitoso - devono anche subire l'umiliazione di "autosospendersi" dall'ordine di categoria per "congelare" il contestuale pagamento dei contributi previdenziali obbligatori.

Il fiume carsico della crisi economica che ha devastato anche le professioni intellettuali (avvocati, notai, giornalisti, architetti, ecc), occhieggia a Milano, a Roma, a Genova, a Pescara. In tutta Italia - senza eccezione geografica alcuna - si moltiplicano i preoccupanti segnali di crisi. Con effetti che rischiano di riverberarsi pesantemente sul futuro sociale e previdenziale del Paese.

Entro fine marzo/inizio aprile i quasi 50mila avvocati (su 240mila totali) che non sono ancora iscritti alla cassa di previdenza di categoria dovranno decidere se pagare (3.500 euro circa per il 2014), oppure se chiedere agli ordini professionali di appartenenza di autosospendersi o cancellarsi.

«La legge 247 del 2012», spiega il presidente della Cassa forense, Nunzio Luciano, «impone a tutti gli iscritti agli ordini professionali di aprire una posizione previdenziale». La logica dell'imposizione - che deriva dall'applicazione della riforma previdenziale Fornero declinata per le casse professionali - è che lo Stato non può (e tanto più non potrà in futuro) farsi carico di assistere chi, privo di una propria posizione pensionistica, o di un numero sufficiente di versamenti, arriverà all'età della pensione senza aver accumulato un "castelletto" previdenziale in grado di assicurargli una vecchiaia dignitosa.

Peccato che la crisi economica degli ultimi 7 anni abbia falcidiato commesse e incarichi professionali. E moltiplicato i mancati pagamenti. Insomma, neppure professioni che si pensavano galleggiassero immuni dalla crisi (gli avvocati, ma pure i notai), oggi se la passano bene. L'Associazione degli enti previdenziali dei professionisti (Adepp), ha studiato già nel 2013, e ancora nel dicembre 2014, gli effetti della crisi sui redditi dei professionisti. In sostanza negli ultimi 3 anni i redditi di queste categorie sono crollati del 10%. E nel 2015 andrà anche peggio: sempre secondo le proiezioni dell'Adepp quest'anno il reddito medio dei professionisti italiani si fermerà sotto i 30 mila euro, dopo essere già sceso, negli ultimi sette anni, del 15% con punte che arrivano al 24%. Insomma, la recessione si è mangiata un quarto dei redditi.

E se è vero che la platea dei futuri o aspiranti professionisti cresce (+ 15,7% nel corso del 2013 gli iscritti agli ordini professionali), di certo calano compensi e fatturati.

Nell'immaginario collettivo rimane impressa la dichiarazione dei redditi record dell'avvocato (ex ministro della Giustizia con il governo Monti) Paola Severino: oltre 7 milioni nel 2012. O quello del principe del foro Niccolò Ghedini (avvocato di Silvio Berlusconi) che nel 2012 ha dichiarato un imponibile pari a 2.173.781 euro.

Ma la realtà - e non solo in provincia - è ben altra cosa. E gli avvocati non fanno certo eccezione. A dicembre scorso il tesoriere dell'Ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti, ha ammesso che ben 298 colleghi hanno rinunciato ( o si sono autosospesi dalla professione), perché non ce la facevano più a pagare quota di iscrizione e contributi previdenziali minimi. Se la passano un po' meglio a Milano dove l'Ordine ha registrato a fine dicembre ben 53 autosospensioni. Ieri l'edizione genovese de "la Repubblica" dava conto di Genova: 50 avvocati "autosospesi" in pochi mesi, su una popolazione cittadina di circa 4mila avvocati iscritti. In Abruzzo l'emorragia (140 autosospesi già nel 2012), sembra continuare. Non c'è città o regione immune. Il presidente della Cassa forense ha spedito a inizio gennaio circa 50mila raccomandate ad altrettanti colleghi iscritti ai rispettivi ordini ma non alla previdenza. Questi dovranno scegliere entro 90 giorni dal ricevimento della comunicazione se iscriversi alla Cassa oppure all'Inps. «Però da noi esiste il principio solidaristico e una contribuzione media del 14%, mentre all'Inps oggi è al 27% e crescerà fino al 33% nel 2017%», avverte Luciano.

Su Facebook è nato pure un gruppo ("no alla cassa forense obbligatoria" con 2.244 "mi piace". E gli iscritti a questa community lamentano proprio la coercizione per legge di una previdenza che rosicchia quel poco che si riesca a guadagnare. I famosi 50mila non iscritti alla cassa hanno redditi inferiori ai 15mila euro lordi l'anno, e anche solo immaginare di sborsare 2/3mila euro di contributi previdenziali risulta oggi insostenibile.

A metà aprile - quando scadrà il termine di legge per decidere se iscriversi, cancellarsi oppure autosospendersi - si saprà quanti tra questi sceglieranno l'addio alla toga per impossibilità a saldare. Nunzio Luciano non si sbilancia però stima "spannometricamente" che circa il 10% di questi rinuncerà ad iscriversi. Quindi 4.500/ 5mila avvocati lasceranno la toga causa crisi. Prima c'erano solo gli operai sui tetti. Fra qualche tempo troveremo anche giovani (o meno) avvocati, architetti, notai...


Antonio Castro (da Libero dell’11.3.2015)