lunedì 16 aprile 2012

Abbandono tetto coniugale? Non sempre è reato

Cass. Pen. sez. VI, sent. 2.4.2012 n° 12310

Il reato di cui all'art. 570 comma. 1 c.p., nella forma dell'abbandono del domilio domestico, non può ritenersi configurabile per il solo fatto storico dell'avvenuto allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale.
E’ quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che con la sentenza 2 aprile 2012, n. 12310 ha annullato senza rinvio la sentenza contestata da una donna russa che era stata riconosciuta colpevole dal reato di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale. In buona sostanza, secondo i giudici di Piazza Cavour la condotta tipica di abbandono del domicilio domestico è integrata solo in quei casi in cui l’allontanamento risulti privo di una giusta causa, connotandosi – si legge nella sentenza – di reale disvalore dal punto di vista etico e sociale.
Nel caso di specie la Corte di Appello territoriale aveva confermato la decisione del Tribunale impugnata dall’imputato, con la quale la cittadina russa era stata riconosciuta colpevole del reato contestato – abbandono ingiustificato del domicilio coniugale – in quanto, allontanatasi dall’abitazione familiare senza farvi più ritorno, si era sottratta agli obblighi di assistenza morale nei confronti del marito. Secondo la Corte territoriale, risultava accertato sia l’abbandono della casa coniugale sia l’assenza di qualunque ragionevole spiegazione di tale condotta.
La donna – seguendo il ragionamento dei giudici di appello – aveva posto in essere una condotta riconducibile alla sua deliberata volontà e non a supposte cause di forza maggiore o a fatti costrittivi subiti dalla donna stessa. Da qui la conferma della condanna a due mesi di reclusione, previa concessione di attenuanti generiche, con pena condizionalmente sospesa.
La difesa della donna propone ricorso per cassazione, deducendo violazione dell’art. 192 c.p.p. e carenza di motivazione con riferimento alla mancanza di idonee prove della sussistenza del reato, particolarmente sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, le doglianze si concentrano sulla oscurità delle ragioni per cui la donna si era allontanata dalla casa coniugale, non emergendo la reale ingiustificabilità della sua condotta, desunta dalle sole dichiarazioni del marito. Gli Ermellini, come si è visto, ritengono fondato il ricorso in base della considerazione che la fattispecie criminosa si perfeziona soltanto se e quando il contegno del soggetto agente si traduca in un'effettiva sottrazione agli obblighi di assistenza materiale e morale nei confronti del coniuge abbandonato, dato che la qualità di coniuge non è più uno stato permanente, ma una condizione modificabile per la volontà, anche di uno solo, di rompere o sospendere il vincolo matrimoniale.
E’ agevole ricavare, secondo la Cassazione, che l’autonoma manifestazione della volontà del coniuge, anche se non perfezionata nelle specifiche forme previste per la separazione o lo scioglimento del vincolo coniugale, può essere idonea ad interrompere senza colpa e senza effetti penalmente rilevanti alcuni obblighi, tra i quali quello della coabitazione. Non correttamente - chiosano i giudici della Cassazione - sia il Tribunale che la Corte territoriale si sono limitati ad accertare il mero dato oggettivo dell’allontanamento del coniuge dal domicilio familiare, non effettuando quella indispensabile verifica dell’esistenza di ragioni idonee a giustificare quella condotta materiale, quali ad esempio l’impossibilità, l’intollerabilità o l’estrema penosità della convivenza.
Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

(Da Altalex del 6.4.2012. Nota di Alessandro Ferretti)