martedì 30 aprile 2013

G.O.A., diritti e obblighi previdenziali

L’avvocato che, cancellatosi dall’albo, riveste la carica di giudice onorario aggregato, resta comunque iscritto alla Cassa Forense. La norma di riferimento è l’art. 9 della legge n. 276/1997, che prevede che la nomina a giudice onorario aggregato comporta la cancellazione dall’Albo, salvo che riguardi un distretto diverso rispetto a quello nel cui ambito ha sede il Consiglio dell’Ordine presso il quale l’avvocato è iscritto al momento della nomina.
Permane, tuttavia, l’iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense per gli avvocati ed il periodo di attività quale giudice onorario aggregato è considerato quale periodo di esercizio professionale ai fini del diritto al trattamento previdenziale previsto dalla legge n. 576/1980 e successive modifiche anche regolamentari.
Inoltre, l’art. 8 della citata legge n. 276/1997 prevede, al quarto comma, che, per i giudici onorari aggregati nominati tra gli avvocati, il Ministero della Giustizia (allora Ministero di Grazia e Giustizia) provvede a rimborsare direttamente all’avvocato i contributi previdenziali versati alla Cassa Forense, commisurati all’indennità percepita. Detta disposizione sancisce inoltre, all’ultimo comma, che l’indennità corrisposta ai giudici onorari aggregati nominati tra gli avvocati è considerata, a tutti gli effetti della legge n. 576/1980 e successive modifiche anche regolamentari, reddito professionale.
In proposito, si osserva, tra l’altro, che il Ministero della Giustizia (allora Ministero di Grazia e Giustizia), con la circolare del 19 ottobre 1999, ha provveduto a chiarire il contenuto della menzionata disposizione di cui all’art. 8 della legge n. 276/1997 affermando che, “poiché gli avvocati pensionati di vecchiaia sono esonerati dal versamento dei contributi minimi obbligatori, dovrà essere rimborsato soltanto quanto versato a titolo di contributo soggettivo, che ammonta al 10% dell’indennità annua percepita nonché il contributo di maternità…” e, nel caso in cui i professionisti siano rimasti iscritti, ove consentito, all’Albo professionale, il contributo integrativo nella misura del 2% del fatturato dichiarato (rectius, ora 14% per il contributo soggettivo e 4% per il contributo integrativo).
Alla luce della lettura coordinata degli art. 8 e 9 della legge n. 276/1997 con le previsioni di cui agli art. 10, 11 e 17 della legge n. 576/1980 e successive modifiche anche regolamentari, deve ritenersi, quindi, che l’obbligo di inviare la comunicazione reddituale per gli avvocati che, nominati giudici onorari, si cancellino dall’Albo, permanga in ragione del fatto che, ai sensi del citato art. 9 della legge n. 276/1997, essi possono mantenere l’iscrizione alla Cassa per tutto il periodo di svolgimento dell’attività di giudice onorario aggregato, a prescindere dall’iscrizione all’Albo e che detto periodo rimane valido ai fini previdenziali, con conseguente permanenza del relativo obbligo contributivo, salvo rimborso da parte del Ministero della Giustizia.
Peraltro, la giurisprudenza ha confermato l’interpretazione di cui sopra, affermando che “la nomina a giudice onorario aggregato comporta bensì la cancellazione dall’Albo, ma fa salva l’iscrizione dell’avvocato alla Cassa di Previdenza e Assistenza Forense, alla quale sono dovuti i contributi previdenziali commisurati all’indennità percepita; il rimborso di questi ultimi da parte del Ministero della Giustizia – dice l’art. 8 comma 4° cit. – va corrisposto direttamente all’avvocato, che resta pertanto obbligato esclusivo alla loro corresponsione alla Cassa di previdenza” (Trib. Palermo, 14 marzo 2013, n. 1182). Prosegue il giudice in questione affermando che deve “pertanto escludersi che il ricorrente possa beneficiare del trattamento previsto dalle norme cit. per i giudici onorari iscritti presso altro ente previdenziale” (in senso conforme: Corte d’Appello di Genova, n. 66/2011; Trib. Agrigento, n. 702/2011; Trib. Chiavari n. 183/2011; Trib. Lucca del 15/01/2009).

Marcello Bella - Dirigente Ufficio legale di Cassa Forense (da cassaforense.it)

ELEZIONI SUPPLETIVE ORDINE A FINE MAGGIO

ELEZIONI SUPPLETIVE CONSIGLIO ORDINE FORENSE
BIENNIO 2012/2013
(ai sensi dell’art. 65 Legge 247/2012
i Consigli Circondariali sono prorogati fino al 31/12/2014)

L’assemblea degli iscritti negli albi professionali è convocata per mercoledì 22 maggio 2013 prima convocazione dalle ore 8,30 alle ore 10,00 presso la Biblioteca dell’Ordine Forense per procedere alla elezione di un componente il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per il biennio 2012 – 2013.
Qualora in detta prima convocazione non si raggiungesse il numero legale (metà degli iscritti), la seconda convocazione, valevole con l’intervento di almeno un quarto degli iscritti avrà luogo nei giorni 23-24 maggio 2013 dalle ore 8.30 alle ore 17.00 e il 25 maggio 2013 dalle ore 8.30 alle 13.00 nella stessa Biblioteca.
L’eventuale ballottaggio avrà luogo nei giorni 30-31 maggio 2013 dalle ore 8,30 alle ore 17 e il giorno 1 giugno 2013 dalle ore 8,30 alle ore 13,00 nell’aula sopra indicata.
Le candidature, ai sensi dell’art. 2 del Regolamento vanno presentate in Segreteria almeno sette giorni liberi prima dell’Assemblea in prima convocazione.
Per partecipare alle votazioni è necessario esibire un documento di riconoscimento.

Catania, 22/04/2013

Il Consigliere Segretario                                                  Il Presidente
    Avv. Diego Geraci                                       Avv. Maurizio Magnano di San Lio

lunedì 29 aprile 2013

Depenalizzata la colpa lieve del medico

L’esercente delle professioni sanitarie che si attiene
a linee guida e a buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica nazionale e internazionale
risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave

E’ questa la sentenza della quarta sezione penale n. 16237/2013 che ha annullato con rinvio la condanna per omicidio colposo nei confronti di un chirurgo che, effettuando un intervento di ernia del disco, causò il decesso di un paziente in seguito ad emorragia letale.
Il Tribunale affermava, quindi, la responsabilità in relazione alla condotta commissiva afferente all’erronea esecuzione dell’intervento di ernia discale, assumendo la violazione della regola precauzionale, enunciata in letteratura, di non agire in profondità superiore a 3 centimetri; e di non procedere ad una pulizia radicale del disco erniario, per evitare la complicanza connessa alla lesione dei vasi che corrono nella zona dell’intervento.
Valutazione condivisa dalla Corte d’appello per ciò che attiene al profilo di colpa commissiva. La stessa Corte riteneva che il sanitario fosse in colpa anche per non aver preventivato la complicanza e per non aver organizzato l’esecuzione dell’intervento in una clinica attrezzata per far fronte alla possibile lesione di vasi sanguigni.
La Corte si è trovata, quindi, a determinare se l’esecuzione dell’intervento potesse ricadere o meno nella disposizione normativa di punibilità o se la legge dell’8 novembre 2012 numero 189 abbia determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie quando abbiano seguito scrupolosamente le linee guida acclarate dalle leggi scientifiche.
Gli Ermellini hanno essenzialmente affermato il principio contenuto nella normativa di riferimento che ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie in questione. In pratica, il principio del favor rei vale anche per i processi ancora pendenti.
La sentenza aggiunge chiarezza al decreto Balduzzi prevedendo che i comportamenti medici sulla base di linee guida riconosciute sono rilevabili in sede penale solo per profili di colpa grave.
Si deve partire, quindi, dall’esame del valore delle linee guida, dirette a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, vi sia conoscenza scientifica in grado di guidare affidabilmente l’indagine.
La Suprema Corte ha posto nello schema generale della colpa penale, che vede nella concretizzazione dell’evento il rischio che la cautela intendeva evitare, dette linee guida. In tal senso, la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto, alle difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi, alle contingenze del caso concreto.
La Cassazione pone anche il problema dell’accreditamento delle linee guida.
Quindi la nozione di colpa deve essere riempita con il riferimento alle cautele, ai principi scientifici, alle esperienze maturate nel settore specifico in cui si è svolta la condotta umana oggetto di analisi nel processo.
Senza dimenticare l’analisi della causalità della regola violata, in specie attinente ad un determinato settore professionale della attività umana. Ed in specie se non si versa in caso di colpa specifica, ossia di regola cautelare introdotta da una normativa, anche inferiore alla legge, ma ben presente e conosciuta dal giudice.
Senza dimenticare, ancora, che anche la violazione della regola deve comunque condurre all’evento che la norma cautelare stessa intendeva evitare; norma cautelare che, quindi, non si obiettivizza in una generica causazione dell’evento, ma restringe il campo della imputazione a quegli accadimenti che la norma cautelare, nata dalla esperienza o dalla ricerca scientifica, è diretta da impedire: nell’evento, si afferma in breve ed efficacemente, si deve essere concretizzato il rischio che la cautela intendeva evitare.
La sentenza, dimostra, però, anche «la necessità di un impegno delle società scientifiche ad approvare linee-guida valide accreditate eventualmente da un Ente terzo, e in genere a definire il campo delle buone pratiche cliniche». Questo spiraglio aperto dal combinato disposto di un articolo di legge e dalle interpretazioni della magistratura non elimina la necessità di una legge specifica che disciplini la responsabilità professionale del medico in una logica di sistema sia dal punto di vista civile che penale.
Il rinvio da parte della Cassazione della condanna ai danni di un chirurgo per omicidio colposo, motivato con la necessità di appurare se siano state seguite le linee guide scientifiche così come previsto dalla Legge Balduzzi, è solo un atto dovuto che non cambia la sostanza del problema della responsabilità professionale.
La Corte nega comunque, che le linee guida possano rappresentare standard legali precostituiti di colpa, si da fondare regole di condotta specifiche, data la loro eterogeneità, mutevolezza, finalità, ecc. , rilevando innanzitutto il grado di indipendenza di chi ha formato lo studio e l’istituzione scientifica da cui provengono, che condensano la condivisione dei risultati della ricerca. Vuol dire la Corte, che le linee guida mantengono un grado di astrattezza che impone al medico, al professionista, l’adattamento dal caso concreto, che può risultare mutevole ed abbisognevole di aggiunte: un professionista che segua le linee guida non per questo è automaticamente immune da colpa. Ma se le segue, sarà imputabile solo per colpa grave.
Questo è il punto essenziale della sentenza.
La Legge Balduzzi ha semplicemente assunto una prassi già largamente diffusa nella giurisprudenza confermando giustamente anche in sede civile il risarcimento del danno subito dal cittadino. È ovvio che se il medico ha seguito le indicazioni accreditate dalla comunità scientifica e le comuni regole di perizia e prudenza non dovrebbe essere condannato neanche per colpa lieve.
Ossia: se il sanitario segue le linee guida ma commetta un errore, oppure se le segue e decide di discostarsi per le peculiarità del caso concreto (rectius, dimostri di conoscerle e consapevolmente e motivatamente di discostarsene) risponderà solo di colpa grave.
Le linee guida portano a ridurre la responsabilità del medico che le ha seguite attentamente, al solo profilo della colpa grave, ossia della colpa macroscopica, ingiustificabile da qualunque punto di vista, in relazione alla causa dell’evento, al rischio che si è concretizzato.
Tanto più ci si discosta dalle linee guida immotivatamente, tanto più sarà ravvisabile la colpa grave.
Se sono seguite le linee guida, è da escludere un profilo di colpa se non nel caso di mancato adeguamento al caso concreto dell’approccio terapeutico (rectius, quando le linee guida sono richiamate in modo erroneo); o, anche, quando (ma forse è la stessa cosa), il medico non si accorga della palese necessità di discostarsi dalle linee guida proposte in astratto, ma non utili al caso concreto.
Ed a tal punto ci si discosta necessariamente dalle regole cautelari scritte, per individuare il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime situazioni, il “medico esperto”, che esamina lo stesso caso: poteva accorgersi tale figura astratta di medico modello della necessità di non seguire o di adeguare l’intervento alla peculiarità della malattia affrontata?
Probabilmente, anche in tal caso, si richiameranno altri protocolli di intervento (possiamo immaginare casi eccezionali ove le linee guida non sono mai state dettata, mai un approccio medico considerato) ma in tal caso sarà difficile enucleare un profilo di colpa. Proprio basandosi sulla figura del professionista medio.
Ed infatti, come afferma la Corte, tanto più il caso è di complicata soluzione, tanto meno sarà figurabile un profilo di colpa, come detto.
Sia il decreto Balduzzi sia la sentenza introducono il concetto di colpa grave e colpa lieve per il medico, stabilendo che quest’ultima non ha più rilevanza penale. Ciò significa che, da qui a breve, gli avvocati dei vari pazienti tenteranno di dimostrare in tutti i casi la colpa grave del medico ospedaliero e questo apre la stura ad un problema devastante poichè, in questo caso, tutti i medici eventualmente condannati dovranno risarcire i danni agli ospedali di appartenenza, per importi enormi. Dunque, il decreto Balduzzi, come la sentenza della Cassazione, possono portare a conseguenza pericolose. Inoltre resta lacunoso il riferimento alle linee guida e alle ‘pratiche virtuose’, poiché ad oggi non abbiamo linee guida in Sanità univoche da poter prendere come unico riferimento.

(Da leggioggi.it del 29.4.2013)

A lamentarsi si fa peccato

Da qualche tempo i ritrovi dei professionisti under 45-50 ed in particolare degli avvocati assomigliano allo spogliatoio di una squadra di calcio abituata alle zone alte della classifica che si ritrova a lottare per non retrocedere.
Colpevolmente in ritardo, forse nella speranza che il mondo cambi per tutti ma non per la categoria, l’avvocato percepisce che qualcosa nella propria attività deve cambiare.
In realtà, non è tanto cosa, ma chi: lui.
Deve proprio cambiare l’avvocato, il suo modo di lavorare, di rapportarsi ai clienti (privati o aziende), ai collaboratori, ai colleghi, di gestire lo studio, di dare tutto per scontato, pensando che come d’incanto le nuove tecnologie possano sposarsi ad un approccio alla professione per certi versi ottocentesco. Non si tratta di assecondare mode né tanto meno di cambiare per cambiare, ma di avere l’umiltà e la perseveranza di riformattare in tutto o in parte il proprio modus operandi.
Per essere concreti, un aiuto mi è arrivato da Mario Alberto Catarozzo con la sua opera “Gestire il tempo nell’attività professionale” (Alpha Test). Lo posso dire con la sincerità dello scettico che pagina dopo pagina si è lasciato convincere (per la verità senza opporre troppa resistenza).
Tuttavia, una volta terminata la lettura e lasciati sedimentare gli spunti (posta elettronica, riunioni, telefonate, ecc.), si rischia di essere sopraffatti dalla sfiducia di riuscire nell’impresa, tali e tanti sono i suggerimenti utili rispetto alla mancanza di tempo per metterli in pratica (ma proprio su questo Catarozzo sgrida l’avvocato presuntuoso!).
Ho pensato allora di tenere il volume a portata di mano e di seguire come uno scolaro di volta in volta i punti che mi sembrano più urgenti, adattandoli alla mia personalità, alle novità della disciplina e alle mie esigenze.
Inoltre, a costo di risultare antipatico, cerco di sollecitare colleghi e collaboratori alla lettura. Il beneficio sta nella condivisione.
Infine – grazie alla disponibilità di Catarozzo – ho avviato la sezione in Filodiritto interamente dedicata alle “Competenze professionali trasversali”.
Ne nascerà un dibattito che sarei lieto di ospitare nel mio blog e su Filodiritto.
Sono sicuro che l’acqua dello stagno dell’avvocatura si muoverà.

Antonio Zama (da antoniozama.it del 13.4.2013)

ANSIOSA ATTESA PER IL GIUDICE DI PACE

Aria di ansiosa attesa, quella che si respira in queste ore negli uffici del giudice di pace di Giarre.
Si spera, infatti, che altri Comuni dell’ex mandamento abbiano aderito prima di oggi, per come in precedenza impegnatisi, all’unione o consorzio tra enti utile a mantenere il servizio che interessa oltre centomila cittadini.
In questi giorni, peraltro, diversi esponenti politici hanno espresso la volontà di non privare Giarre anche di quest’ufficio, dopo gli “scippi” di ospedale, sportello riscossione tributi e –a meno di dichiarazione d’incostituzionalità ai primi di luglio- del tribunale.
Diceva Eraclito –afferma il funzionario giudiziario dott. Giovanni Zagaglia- che quando si giunge alla fine dei propri giorni è importante donare a chi resta il meglio di sé, in questa vicenda il mantenimento del giudice di pace rappresenta un finale positivo da lasciare ai posteri”.
Il cancelliere ha rivolto ripetuti appelli, sia a mezzo stampa e tv locali che con iniziative personali, come una raccolta di firme che ha coinvolto centinaia di cittadini.
Sono certo che la disponibilità dimostrata dal sindaco uscente –aggiunge- dia i frutti sperati, sin d’ora la nostra gratitudine va a chi ha impedito la chiusura dell’ufficio e a chi continuerà a provvedere al suo mantenimento”.

domenica 28 aprile 2013

Diffamare su Facebook

Riflessioni sulla sentenza n. 38912/2012 del GIP di Livorno

La sentenza in commento costituisce un importante precedente in materia di diffamazione sul web e chiarisce che l’uso di espressioni offensive e lesive della reputazione altrui tramite Facebook integra il reato di cui all’art. 595 c. 3 c.p., ossia diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della pubblicità. La vicenda all’origine della pronuncia è ormai nota agli “addetti ai lavori”: M.R., a seguito della conclusione di un rapporto lavorativo con il Centro Estetico Eterea di Livorno, scriveva sulla propria bacheca Facebook frasi ingiuriose ed offensive rivolte sia al suddetto Centro estetico sia alla titolare dello stesso. Quest’ultima pertanto querelava M.R. per diffamazione e il procedimento penale si concludeva con la sentenza in  oggetto.
Una corretta disamina della pronuncia non può esimersi dal rilevare come la stessa lasci aperte alcune questioni che necessitano invece di accurata riflessione.
La prima riguarda la prova della diffamazione.
Com’è noto, nel caso di diffamazione tramite Internet, occorre dimostrare:
-la condotta diffamatoria in senso stretto (il che può presentare notevoli difficoltà, essendo il contenuto web sempre modificabile e, anche, eliminabile);
-la riconducibilità della suddetta condotta, con ragionevole certezza, ad un certo utente della rete;   
Il GUP di Livorno non si sofferma per nulla sul primo aspetto, limitandosi a considerare che le “risultanze istruttorie”, ossia alcuni documenti allegati all’atto di querela, danno prova della condotta diffamatoria.
Ora, pur non conoscendo il contenuto questi documenti, è possibile fare alcune osservazioni, ricordando anzitutto che la prova del contenuto di una pagina web non è validamente fornita attraverso la produzione in giudizio di una mera copia cartacea o di back-up della stessa.
La pagina diffamatoria, infatti, dovrà essere raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato momento e, pertanto, prodotta in copia conforme. Detta copia potrà essere eseguita dal pubblico ufficiale o su supporto informatico (in questo caso il Notaio o altro p.u. dovrà eseguire la copia delle informazioni visualizzate e, inoltre, apporre l’attestazione di conformità indicando il browser, l’ora, eventuali certificati di sicurezza, l’URL della pagina e firmare digitalmente tutti i file) o cartaceo (in tale ipotesi andranno indicati: il sito internet; il tipo di browser utilizzato; la data e l’ora in cui la copia viene effettuata; eventuali certificati di sicurezza per la verifica dell’identità del sito).
Per quanto queste informazioni possano apparire banali, troppo spesso ci si ferma alla sola stampa della pagina web. In realtà, seppur comporti maggiore dispendio economico, rispettare dette minime formalità è essenziale al fine dell’efficacia probatoria dei documenti prodotti: la mera copia della pagina incriminata, per converso, avrà l’efficacia soltanto di un principio di prova scritta (ai sensi dell’art. 2717 c.c.).
In secondo luogo, il GUP ritiene dimostrata la riferibilità soggettiva degli scritti all’imputata, sulla base della circostanza che il profilo Facebook utilizzato per la pubblicazione dei messaggi era nominativamente intestato alla M.R., nonché considerando il fatto che tra M.R. e il Centro Estetico Eterea era in effetti intercorso un rapporto di lavoro (il che collimerebbe col contenuto diffamatorio incriminato, relativo proprio ad un pregresso rapporto lavorativo ed alla sua conclusione).
Ferma restando la validità di questo assunto, vale però la pena sottolineare che la sentenza n. 8824/2011 della Corte di Cassazione, ha affermato essere l’indirizzo IP prova determinante della riconducibilità di un messaggio postato sul web ad un certo soggetto. Infatti, al momento della connessione Internet da una postazione fisica, il gestore del servizio telefonico (provider) associa un determinato codice numerico (l’indirizzo IP, appunto) alla linea telefonica utilizzata per la connessione. Questo codice numerico identifica in modo univoco sulla rete mondiale un certo computer connesso. Una volta ricondotto il messaggio diffamatorio all’indirizzo IP usato per la connessione e, quindi, alla relativa linea telefonica, è ovvio che il campo dei possibili colpevoli si restringe agli effettivi utilizzatori di quella linea.
Passo successivo è verificare a chi è intestato il nickname utilizzato per l’immissione del messaggio. Ovvio che se il nome dell’utente corrisponde a quello dell’utilizzatore della linea telefonica, residua ben poco spazio per la prova contraria!
Assai ben sorretta dovrà essere la dimostrazione della circostanza che un altro soggetto si è servito delle credenziali dell’accusato (e della sua linea telefonica) per “postare” il messaggio diffamatorio, o ancora che un altro utente della rete si è intromesso nella connessione identificata dall’IP per manomettere i messaggi del presunto colpevole.
La lettura della sentenza spinge però anche ad una più approfondita ed attenta riflessione, riguardo alla prova dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Com’è noto, l’aggravante di cui all’art. 595 c. 3 c.p. è integrata nel caso in cui la condotta diffamatoria abbia raggiunto un numero indeterminato di persone. Il Tribunale di Livorno ha fondato la sussistenza dell’aggravante sulla circostanza che Internet si configura al pari di un mezzo stampa a causa della sua «diffusione incontrollata» che permette al messaggio di un qualunque utente di «entrare in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti». Il GUP, pertanto, ha applicato questo ragionamento trascurando di osservare che Facebook, attualmente, consente ai propri utenti di scegliere il livello di riservatezza delle proprie pubblicazioni: i contenuti pubblicati dall’utente possono infatti essere visualizzati da “amici di amici”, “solo amici” o da una cerchia di soggetti ancora più ristretta, individuati di volta in volta dal titolare del post (anche una sola persona).
Sarebbe quindi stata opportuna un’indagine più approfondita: l’aggravante del mezzo di pubblicità avrebbe potuto configurarsi solo nel caso in cui il soggetto avesse scelto il maggior grado di visibilità per i suoi contenuti (“amici di amici”), perché solo in tal caso il messaggio diffamatorio avrebbe potuto raggiungere una moltitudine indeterminata di destinatari.
Nel caso contrario, a parere di chi scrive, il reato da contestare avrebbe dovuto essere derubricato nell’ipotesi non aggravata di cui all’art. 595 c. 1 c.p..

Anna Gabbolini (da telediritto.it del 27.4.2013)

sabato 27 aprile 2013

Cancellieri: "Onorata per incarico delicatissimo"

"Sono onorata di andare a ricoprire" un "delicatissimo incarico e mi impegnerò al massimo per esserne all'altezza".
Lo dice il Guardasigilli Annamaria Cancellieri ringraziando il capo dello Stato Napolitano e il premier Letta "per la fiducia che mi hanno voluto accordare".
"Continuerò - prosegue - a servire lo Stato come ho fatto per tutta la mia carriera e come ho fatto in questi 16 mesi al Viminale. Un'esperienza che mi rimarrà nel cuore per la quale voglio ringraziare con affetto il Presidente Mario Monti".

(Da tiscali.it del 27.4.2013)

LA CANCELLIERI MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

E' Anna Maria Cancellieri il ministro della Giustizia del nuovo governo presieduto da Enrico Letta. Lo ha annunciato nella dichiarazione al Quirinale dopo aver accettato l'incarico di presidente del Consiglio. L'ex commissario del Comune di Bologna era stata ministro degli Interni nel governo Monti.

La Cancellieri è nata a Roma il 22 ottobre del 1943.

Laureata in Scienze politiche, inizia la carriera direttiva al ministero dell'Interno partendo da Milano, nel 1972.

Nel 1993 è nominata prefetto ed esercita questo ruolo in diverse aree del Paese: i primi incarichi li ricopre a Vicenza, a Bergamo e a Brescia, poi arriva nel 2003 a Catania e, infine, torna al Nord nel 2008 alla guida della prefettura Genova.

Ha cessato il servizio nel ministero dell'Interno nel 2009.

Nel febbraio 2010 è stata nominata commissario straordinario di Bologna e nell'ottobre del 2011 ha svolto lo stesso compito nel comune di Parma, tornando alla guida della città dopo una precedente esperienza avuta nel 1994.

(Da ilrestodelcarlino.it del 27.4.2013)

Geografia giudiziaria: approvate piante organiche personale

''Il Guardasigilli Paola Severino ha firmato il decreto ministeriale per la determinazione delle nuove piante organiche del personale amministrativo non dirigenziale degli uffici interessati dalla riforma della geografia giudiziaria. Con questo atto, che fa seguito al decreto di revisione delle piante organiche dei magistrati, assunto previo parere favorevole del Csm, il ministro della Giustizia ha così posto l'ultimo tassello per l'attuazione della riforma che inizierà ad operare il prossimo 13 settembre'' (…e noi facciamo rispettose corna, AGANews).
E' quanto rende noto l'ufficio stampa del ministero della Giustizia.
''Nel frattempo, sarà di grande rilievo l'attività che svolgerà il gruppo di lavoro congiunto Csm-Ministero nell'ambito del quale potranno trovare positiva soluzione le eventuali questioni interpretative ed applicative della nuova geografia giudiziaria'', conclude la nota.

Asca del 26.4.2013

StP: quale futuro per gli studi professionali?

Le Stp (Società tra professionisti) ai blocchi di partenza da tempo sono oramai realtà, almeno sulla carta, quella della Gazzetta Ufficiale in cui è stato pubblicato da pochi giorni il relativo regolamento. Sulle perplessità operative e sugli aspetti ancora irrisolti sono già state pubblicati diversi commenti e riflessioni.
A questo punto la domanda è lecita: che ne sarà del tradizionale studio professionale?
Intendiamo lo studio a cui ci hanno abituato le generazioni precedenti, lo studio di piccole dimensioni, centrato intorno alla figura del titolare che in prima persona portava avanti, magari con l’ausilio di praticanti, giovani collaboratori e segreteria, il progetto professionale. Di chi è il futuro della professione? Dei “piccoli” Studi perché più “leggeri” quanto alle spese? Degli Studi di medie dimensioni organizzati in forma associata, perché riescono a convogliare diversificazione nelle specializzazioni con personalizzazione dei rapporti col cliente? Degli Studi grandi perché hanno capacità relazionali e di network internazionale? Certo, ce ne vorrà di tempo (magari neppure tanto), ma il conto alla rovescia è iniziato e come tutti i processi appare inarrestabile. Che fare, allora? Restare fermi, aggrappati al “conosciuto”, può non essere la scelta strategicamente migliore. Le teorie evoluzionistiche ci insegnano che è la specie che più si adatta al cambiamento a sopravvivere. Traslando il concetto, potremmo dire che saranno i professionisti che accettano il cambiamento e lo approcciano con aria di sfida che si posizioneranno meglio nel futuro mercato professionale.
Concorrenza, richieste sempre più specialistiche della clientela, ritmi frenetici, nuove tecnologie, nuova cultura nella relazione professionista-cliente, insomma un mix di fattori che richiede oggi che la professione si organizzi in strutture più articolate e generi prestazioni di eccellenza.
Che si opti per lo studio associato, piuttosto che per la Stp, accanto ad esse dovrà necessariamente fare la sua comparsa nella nuova organizzazione una cultura manageriale improntata alla gestione pianificata del tempo, delle attività e dei collaboratori.
Le soft skills (competenze trasversali) entrano dunque in scena come strumenti indispensabili per una efficiente gestione della professione: leadership, gestione dei conflitti, comunicazione efficace interna ed esterna allo studio, personal branding, public speaking, tecniche di negoziazione, coaching.

Mario Alberto Catarozzo (da filodiritto.com del 26.4.2013)

venerdì 26 aprile 2013

Aggravante transnazionalità anche per associazione a delinquere

La speciale aggravante prevista dall’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146 è applicabile al reato associativo, sempreché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l’associazione stessa. Così affermano le Sezioni Unite penali della Cassazione nella sentenza n. 18374 del 23 aprile scorso.
La questione di diritto su cui le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi attiene al punto se la circostanza aggravante ad effetto speciale della cd. «transnazionalità» di cui al citato art. 4 della L. 146/2006 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) sia compatibile con il reato di associazione per delinquere ovvero sia applicabile ai soli reati fine. Trattasi di questione controversa che ha visto, nel tempo, il contrapporsi di due distinti orientamenti in giurisprudenza:
a) uno che ha sostenuto l’incompatibilità concettuale ed ontologica della speciale aggravante con l’ipotesi associativa, presupponendo detta circostanza l’esistenza del gruppo criminale organizzato, con la conseguenza che può accedere ai soli reati costituenti la diretta manifestazione di attività del gruppo (cd. reati-fine dell’associazione);
b) l’altro, sostenuto da un maggior numero di pronunce emesse da diverse sezioni della Cassazione, favorevole all’applicabilità della circostanza aggravante anche al reato associativo.
Sottolineano preliminarmente le Sezioni Unite che la «transnazionalità» non è elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie delittuosa, ma configura, piuttosto, una peculiare modalità di espressione riferibile a qualsivoglia delitto, a condizione che lo stesso, sia per ragioni oggettive sia per la sua riferibilità alla sfera di azione di un gruppo organizzato operante in più di uno Stato, assuma una proiezione transfrontaliera. In particolare, l’art. 3 della stessa L. 146/2006 àncora la qualificazione della transnazionalità del reato al concorso di tre distinti parametri:
1) la gravità del reato, determinata in ragione della misura edittale di pena;
2) il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato;
3) in forma alternativa: la commissione del reato in più di uno Stato; la commissione in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato; commissione in uno Stato, ma implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; commissione in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato.
La connotazione di transnazionalità implica che il fatto delittuoso cui inerisce debba considerarsi, per ciò stesso, più grave a causa del coefficiente di maggiore pericolosità connesso alla fenomenologia della criminalità organizzata transnazionale. Ecco perché il successivo art. 4 della legge del 2006 introduce una speciale aggravante per il reato «grave» che sia commesso con il «contributo» di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno Stato. Il generico riferimento a qualunque reato, purché ad esso si accompagni la previsione sanzionatoria contemplata dalla norma, porta a ritenere, per le Sezioni Unite, che l’apporto causale di un gruppo siffatto possa spiegarsi nei confronti di qualsivoglia espressione delittuosa, e dunque anche di quella associativa, e non dei soli reati-fine, di cui la prima costituisce il mezzo per la relativa consumazione.
A voler sostenere la tesi dell’incompatibilità dell’aggravante con il delitto di associazione per delinquere dovrebbe sostenersi (a conforto del primo dei due ricordati orientamenti) l’immedesimazione del gruppo criminale organizzato, il cui apporto è presupposto dell’aggravante, con la contestata associazione, giacché non sarebbe ipotizzabile l’esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all’esistenza di sé stesso. Tuttavia, la formulazione normativa dell’aggravante, nella parte in cui evoca il contributo causale, lascia chiaramente intendere che presupposto indefettibile della sua applicazione è la mancanza di immedesimazione, richiedendo che associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato si pongano come entità o realtà organizzative affatto diverse. Peraltro, in uno al dato ontologico della «immedesimazione», all’applicabilità dell’aggravante osterebbe, sul piano formale, il disposto normativo di cui all’art. 61 c.p., secondo il quale le circostanze, positivamente previste, aggravano il reato «quando non ne sono elementi costitutivi».
Pertanto, dal combinato disposto degli artt. 3 e 4 della L. 146/2006, le Sezioni Unite traggono la conclusione che, ai fini della configurazione della speciale aggravante in oggetto, non è affatto necessario che il reato in questione venga commesso anche all’estero, ben potendo restare circoscritto in ambito nazionale, né che l’associazione per delinquere operi anche in Paesi esteri. Non è neppure necessario che del sodalizio criminoso facciano parte soggetti operanti in Paesi diversi, posto che quel che occorre, ai fini dell’operatività dell’aggravante, è che alla commissione del reato oggetto di aggravamento abbia dato il suo contributo un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale. E’ ovvio, poi, che quel contributo, ancorché realizzato in forma associativa, deve rappresentare una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria ad integrare la fattispecie-base, atteso che è proprio quel contributo a rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice. Pertanto, una volta rilevato che l’associazione criminale «basti a sé stessa», nel senso che gli associati e il programma criminoso posto a fulcro del sodalizio sono idonei a realizzare il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di contributo esterno, si può immaginare che a tale condotta se ne possa affiancare un’altra (autonoma), così da estendere le potenzialità del sodalizio in campo internazionale e giustificare l’applicazione dell’aggravante in ragione dei connotati di maggiore pericolosità che viene ad assumere il reato base.

Anna Costagliola (da diritto.it del 26.4.2013)

Favori sessuali da lavoratrice in prova, è concussione

Concussione al funzionario che pretende favori sessuali dalla lavoratrice in prova prima dell'assunzione.
La minaccia, pure se larvata, è grave e condiziona in modo pesante la libera scelta della donna integrando la «costrizione» ex articolo 317 Cp. Resta concussione e non integra la mera indebita induzione, dopo la riforma anticorruzione, la condotta del funzionario pubblico che pretende favori sessuali dalla dipendente in prova, agitando lo spettro di una mancata assunzione definitiva in caso di rifiuto. E ciò anche se la minaccia è vaga, per quanto subdola: la condotta dell'agente, addetto all'ufficio di collocamento per le categorie protette di lavoratori, condiziona in modo pesante l'autodeterminazione della parte offesa e integra dunque la «costrizione» indicata dall'articolo 371 Cp. È quanto emerge dalla sentenza 18372/13, pubblicata il 22 aprile dalla sesta sezione penale della Cassazione.
Autodeterminazione e costrizione
È vero: introducendo l'illecita induzione di cui all'articolo 319 quater Cp il legislatore ha voluto responsabilizzare il «privato cooperante» per mettere un freno ai «soprusi dei rappresentanti della pubblica amministrazione». Ma non tutte le condotte che prevedono un abuso di qualità e di funzioni da parte di chi riveste la qualifica pubblica possono implicare di per sé una "complicità" del privato. Non giova all'imputato eccepire che i favori sessuali pretesi siano frutto di una libera scelta della donna. L'impiegato dell'ufficio del lavoro prima mette in dubbio l'assunzione definitiva della dipendente e, poi, dopo che la lavoratrice supera il periodo di prova, poi fa intuire alla parte offesa che potrebbe essere licenziata se si dovessero scoprire le irregolarità con le quali sarebbe stata assunta. La parte offesa si rivolge alla polizia e fa arrestare il funzionario con i soldi della tangente (il "ricattatore" alterna la natura delle richieste). Il punto è che il dipendente pubblico si mostra generico sui problemi che sarebbero potuti sorgere sul rapporto di lavoro, ma molto deciso nel pretendere le prestazioni in cambio, sessuali o in denaro: la condotta suscita alla donna il concreto e angosciante timore che le fosse disconosciuto un diritto e, dunque, rientra nella concussione di tipo costrittivo anteriore alla riforma. Pena rideterminata, ricorso rigettato nel resto.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

UDIENZE GULLOTTA AL 7 MAGGIO

Informiamo i Colleghi che le udienze di Giudice di Pace di Giarre Avv. Gaetano Gullotta, già previste per martedì 30 Aprile e giovedì 2 Maggio, sono rinviate d'ufficio a martedì 7 Maggio.

giovedì 25 aprile 2013

OGGI FESTA DELLA LIBERAZIONE

Rivela fatti di rilevanza penale, no licenziamento

No al licenziamento del dipendente perché rivela
all’autorità fatti dell’azienda di rilevanza penale
(non esiste un dovere di omertà)

Cass. Sez. Lavoro, Sent. 14.3.2013, n.6501

Il datore di lavoro non può contare sull’omertà del dipendente. Per le aziende un altro motivo per essere virtuose (oltre al Decreto Legislativo 231). Le sentenza si segnala anche per un interessante giudizio sugli scritti anonimi.
I fatti: Tribunale e Corte d’appello di Napoli giudicano legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per avere questi diffamato la società presentando, insieme ad altri cinque dipendenti, un esposto alla Procura della Repubblica – corredato da documenti aziendali – per irregolarità che sarebbero state commesse dalla medesima società in relazione ad un appalto pubblico, senza averle previamente segnalate ai superiori gerarchici.
Icasticamente, la Cassazione chiarisce: “se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all’Autorità Giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale. Diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’articolo 2105 Codice Civile) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”.
La Cassazione, che ha cassato la sentenza di secondo grado e rinviato per la decisione alla Corte d’appello di Napoli, ha elaborato i seguenti principi di diritto:
“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto”.
“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.
“L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ex articolo 5 legge n.604/66, l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante (l’intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso”.
La Cassazione si è altresì espressa sull’utilizzo degli scritti anonimi nel procedimento disciplinare (in particolare in funzione di sollecitazione).
Secondo la Cassazione: “nessuna norma di legge vieta che l’esercizio del potere disciplinare possa essere sollecitato (non anche provato, ovviamente) a seguito di scritti anonimi; il divieto di utilizzo di denunce anonime è disciplinato solo dagli articoli 240 e 333 Codice di Procedura Penale, in un’ottica – per altro – strettamente funzionale agli obiettivi e alle regole del processo penale, ma si tratta pur sempre d’un divieto di utilizzabilità a fini probatori, che non esclude l’avvio di successive indagini di polizia giudiziaria. Inoltre, poiché le clausole generali di correttezza e buona fede costituiscono un metro di valutazione dell’adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte, il loro rispetto da parte del datore di lavoro non viene in rilievo quando, come nel caso di specie, la materia del contendere verta sull’adempimento o meno degli obblighi del dipendente”.
Questa parte della sentenza ha particolari riflessi con riferimento alla vita quotidiana in azienda alla luce della disciplina 231, che ha introdotto le segnalazioni verso l’Organismo di Vigilanza.

(Da filodiritto.com del 22.4.2013)

mercoledì 24 aprile 2013

OUA: 29 E 30 MAGGIO ASTENSIONE ANTI-SOPPRESSIONE

LA CORTE COSTITUZIONALE ANTICIPA AL 2 LUGLIO L’UDIENZA PREVISTA PER L’8 OTTOBRE SUL RICORSO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA SULLA GEOGRAFIA GIUDIZIARIA E FISSA AL 2 E 3 LUGLIO QUELLE PER I RINVII DEL TRIBUNALE DI PINEROLO
IL 29 E 30 MAGGIO L’OUA CONFERMA LE DUE GIORNATE DI ASTENSIONE DALLE UDIENZE CONTRO LA CHIUSURA IRRAZIONALE E INCOSTITUZIONALE DI CIRCA 1000 UFFICI GIUDIZIARI
MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA (30 MAGGIO) DELL’AVVOCATURA CON I COMUNI, I SINDACATI E LA SOCIETÀ CIVILE

Soddisfazione è stata espressa dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura che aveva chiesto con forza che si anticipasse la data di trattazione del ricorso della Regione Friuli Venezia Giulia sulla geografia giudiziaria (prevista per l’8 ottobre), in vista dell’entrata a regime del provvedimento il prossimo settembre, e che in questi mesi ha messo in campo diverse iniziative contro quella viene definita una «irrazionale e incostituzionale chiusura di circa 1000 uffici, sedi distaccate e tribunali».

Per Nicola Marino, presidente Oua quella di oggi è «una buona notizia per la giustizia italiana. Accolte, finalmente, le richieste dell’avvocatura sia per l’anticipo dell’udienza dell’8 ottobre, sia per la celere fissazione di quelle sui rinvii del tribunale di Pinerolo (una il 2 e l’altra il 3 luglio). È bene che la Consulta esamini rapidamente questo provvedimento dai chiari profili di illegittimità. Non ha senso continuare, invece, ad accelerare questo processo di smantellamento del sistema con gravi danni per i cittadini, come sta facendo il Ministero di via Arenula e diversi presidenti di Tribunale».

«Al futuro Governo e al nuovo Parlamento – continua - chiediamo di intervenire con urgenza per evitare di distruggere la “giustizia di prossimità” e di mortificare interi territori del nostro Paese, sia dal punto di vista dei diritti sia sotto quello della competitività economica per le imprese».

«L’Oua –conclude Marino- ha inoltre fissato due giornate di astensione (29 e 30 maggio) con una grande manifestazione a Roma il 30 maggio insieme al Coordinamento dei Fori Minori, gli Ordini e le Associazioni forensi, i sindacati dei lavoratori e dirigenti dei Tribunali, i Sindaci e i cittadini interessati dal provvedimento».

Comunicato OUA del 23.4.2013

A LUGLIO L'UDIENZA PER I PICCOLI TRIBUNALI

Il 2 e 3 luglio la Corte esamina i ricorsi
contro la chiusura dei piccoli tribunali

La Corte costituzionale ha fissato l'udienza di trattazione delle questioni di legittimità costituzionale della Legge e dei Decreti che hanno disposto la soppressione di 969 uffici giudiziari. Accogliendo l'istanza del Coordinamento Nazionale degli Ordini Forensi Minori la Corte costituzionale ha fissato per i giorni 2 e 3 luglio la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale della Legge 148 e dei Decreti 155 e 156. “Grande soddisfazione per la sensibilità della Consulta nei confronti del gravissimo problema  - ha detto Walter Pompeo, presidente del Coordinamento Nazionale degli Ordini Forensi Minori -  adesso occorre solo mettere in campo tutte le risorse indispensabili a tutelare la Giustizia di prossimità , la Costituzione , le più piccole ma efficienti realtà giudiziarie da una manovra che recherebbe solo maggiori spese e maggiore inefficienza . E, per questo – ha concluso Pompeo - indurre la Politica e il Ministro a indirizzare le proprie energie verso una riforma condivisa davvero idonea a dare al Paese una Giustizia migliore” L'Associazione nazionale avvocati italiani esprime soddisfazione per la fissazione da parte della Corte costituzionale dell'udienza di trattazione delle questioni di legittimità costituzionale dei decreti legislativi 155 e 156/2012 al 2 e 3 luglio prossimi. “Proprio ieri abbiamo dato notizia che gli atti di rimessione alla Corte erano arrivati a 14 - ha detto il presidente Maurizio De Tilla – adesso il nuovo ministro della Giustizia fermi subito l'attuazione di una riforma che sta demolendo 1000 uffici giudiziari”. Le città sono in rivolta. Nei giorni scorsi sindaci e avvocati hanno protestato in relazione alle sedi di Aversa, Afragola, Frattamaggiore e Marano. Sono scesi in campo l’ex Sottosegretario di Stato Pasquale Giuliano e il Sindaco di Aversa Giuseppe Sagliocco.   “Esprimiamo enorme soddisfazione – ha concluso De Tilla – e rivolgiamo un ringraziamento particolare ai giudici delle leggi che hanno accolto i nostri appelli riconoscendo la gravità della situazione. Al nuovo ministro chiediamo di ascoltare quello che hanno da dire in materia gli operatori della giustizia e gli amministratori locali”

Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 23.4.2013)

Spese generali, titolo e misura nella legge

Il rimborso delle spese generali trova nella legge titolo e misura. Non è necessario che il dispositivo della sentenza ne specifichi l’importo.
È quanto stabilito dalla prima sezione civile della Corte di cassazione, la quale, con sentenza n. 9315 del 17 aprile 2013, ha ritenuto infondate le motivazioni poste dai ricorrenti in materia di condanna e compensazione delle spese processuali.
Nella fattispecie, i suddetti ricorrenti, deducendo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., relativi alla responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, nonché dell’art. 15 della tariffa forense (che prevede un rimborso forfettario in ragione del 10% dei soli onorari, a carico del cliente), lamentavano, tra l’altro, che la sentenza impugnata non avesse liquidato anche le spese forfettarie da essi richieste, limitandosi ad
utilizzare nel dispositivo la formula “oltre accessori di legge”, insuscettibile di poter essere eseguita.
La Corte ha osservato al riguardo che, proprio ai sensi dell’art. 15 della tariffa forense, spetta all’avvocato il rimborso delle spese generali, nella misura del 10% degli importi liquidati a titolo di onorari e di diritti. Si tratta, pertanto, di un credito che consegue per legge e, essendone la misura determinata per legge, la quantificazione che il giudice ne effettua in sentenza ha mera efficacia dichiarativa. Essa, dunque, non incide sul diritto del procuratore di chiedere tale rimborso che nella legge già trova titolo e misura, così come devono essere corrisposti per legge, anche se non ve ne sia espressa menzione nel dispositivo della sentenza, gli ulteriori accessori, quali il rimborso Iva, contributo cpa.
Il rimborso in questione deve ritenersi compreso nella liquidazione degli onorari e dei diritti nella misura del 10% di tali importi, anche senza espressa menzione nel dispositivo della sentenza. Risulta, in conclusione, superfluo e non proficuo che la parte faccia valere il proprio interesse a che la sentenza ne affermi la spettanza.

Biancamaria Consales (da diritto.it del 23.4.2013)

Equitalia non pignora c/c se reddito mensile sotto € 5.000

Decisione di Equitalia «per tutelare le fasce più deboli». E per porre rimedio al rischio del cortocircuito normativo. Equitalia ha detto stop, bloccando i pignoramenti dei conti correnti di lavoratori dipendenti e pensionati con un reddito inferiore ai 5mila euro mensili. Ma, sia chiaro, non è una decisione definitiva. 

Si tratta, più semplicemente, di una spruzzata di sano buon senso sull’ennesima kafkiana situazione all’italiana. Quale? Quella creata col solito doppio binario normativo: da un lato, si sceglie la strada del pignoramento sui conti correnti per consentire allo Stato di recuperare i propri crediti; dall’altro, si obbliga i contribuenti ad aprire un conto corrente per poter percepire regolarmente stipendio e pensione.

Corto circuito … Conseguenze possibili? Semplicemente il cortocircuito. Nessun rispetto, in pratica, dei limiti fissati per i pignoramenti, ossia «un decimo» sotto i 2mila e 500 euro, «un settimo» tra i 2mila 500 e i 5mila euro, «un quinto» sopra i 5mila euro.

Di fronte a questo quadro, seppur solo potenziale, la reazione di Equitalia è stata davvero di buon senso. Così, con una nota interna, è stato disposto, «con decorrenza immediata», che «per i contribuenti lavoratori dipendenti e pensionati non si proceda, in prima battuta, a pignoramenti presso istituti di credito e Poste», piuttosto «tali azioni saranno attivabili solo dopo che sia stato effettuato il pignoramento presso il datore di lavoro o l’ente pensionistico, e che, in ragione delle trattenute accreditate, il reddito da stipendio e da pensione risulti pari o superiore ai 5mila euro mensili».

Resta però intatta, evidenziano da Equitalia, la necessità di «approfondimenti» sulle «problematiche emerse in merito ai pignoramenti di conti correnti sui quali affluiscono stipendi e pensioni».

Ebbene sì, il nodo è comunque da sciogliere, e anche in fretta. E toccherà allo Stato – leggi Governo e Parlamento – fare chiarezza...

Bisogna, molto semplicemente, prendere atto della contraddizione in termini creatasi a livello normativo: si prevedono i «pignoramenti dei conti correnti per il recupero dei crediti», ma ci si dimentica che esiste «l’obbligo del versamento di stipendio e pensione sul conto corrente». Conseguenza potenziale, come detto, il pignoramento tout court dello stipendio o della pensione.

Pignoramenti bloccati su stipendi inferiori a 5mila euro. Per questo motivo, per evitare il cortocircuito, e per «andare incontro alle esigenze delle persone» e «tutelare le fasce più deboli», spiegano da Equitalia, si è optato per il ‘blocco’ dei pignoramenti dei conti correnti su stipendi o pensioni inferiori ai 5mila euro mensili.

Ciò significa che si continuerà a ricorrere ai pignoramenti old style, ossia indirettamente tramite il datore di lavoro o l’ente pensionistico, e secondo i limiti quantitativi previsti. E solo laddove si accerterà, anche alla luce del primo pignoramento effettuato, il superamento della soglia dei 5mila euro, si potrà provvedere direttamente al ‘blocco’ dei conti correnti.

Attilio Ievolella (da dirittoegiustizia.it del 23.4.2013)

Matrimonio annullabile per errore su identità sessuale marito

Trib. Milano, sez. IX civ., sent. 13.2.2013

Il Tribunale di Milano, con la sentenza 13 febbraio 2013, ha annullato un matrimonio sulla base della dichiarata omosessualità del marito, celata alla moglie prima delle nozze.

Il caso. La coppia, prima del matrimonio, aveva avuto soltanto manifestazioni di affetto o altri approcci di tipo sessuale senza mai giungere a consumare un rapporto completo.

Dopo le nozze, il marito, confessa alla moglie la sua impossibilità di avere un rapporto sessuale con una donna, che aveva tentato e sperato di poterlo fare ma si era reso conto che la sua omosessualità glielo rendeva impossibile.

L’uomo aveva anche ammesso di aver avuto fino a qual momento solo rapporti con uomini e ciò era successo anche dopo il matrimonio.

La donna si rivolge allora al Tribunale di Milano per far dichiarare l’annullamento del matrimonio sulla base dell’errore in cui era stata indotta dal marito.

L’art. 122 c.c. consente di impugnare il matrimonio per errore sulle qualità personali del coniuge. L’errore deve essere essenziale nel senso che il coniuge non avrebbe prestato il suo consenso se lo avesse conosciuto.

L’errore può riguardare anche l’esistenza di una malattia fisica o psichica o un’anomalia o deviazione sessuale tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale.

La confessione dell’uomo ha reso più facile l’accertamento dei presupposti necessari per la richiesta, ma la sentenza contiene alcuni importanti principi aventi portata generale.

La legge parla di malattia fisica o psichica o deviazione sessuale. I giudici milanesi hanno fatto rilevare che l’omosessualità non può essere ricondotta in nessuna di queste categorie. In sostanza l’omosessualità non è considerata, né a livello medico, né morale né etico, una malattia o una deviazione.

Appare invece corretto parlare di “identità sessuale” di una persona, che definisce la direzione e l’orientamento del comportamento sessuale.

Tale inclinazione ha senz’altro precluso alla coppia lo svolgimento della vita matrimoniale, caratterizzata dalla totale mancanza di scambio fisico che impedisce non solo la procreazione, ma l’esprimersi dei valori connessi alla sessualità che sono strettamente legati al valore della persona in sé.

I giudici richiamano una sentenza della Cassazione (Cass. Civ. n. 13547 del 2009) che ha definito la sessualità come diritto inviolabile della persona sulla base dell’art. 2 della Costituzione e come “modus vivendi” essenziale per l’espressione e lo sviluppo della persona.

Anche la Corte Costituzionale, già nella sentenza n. 561 del 1987, aveva definito la sessualità come “uno dei modi essenziali di espressione della persona umana”.

Il matrimonio è stato pertanto dichiarato nullo sulla base del secondo comma dell’art. 122 c.c. per errore sulle qualità personali dell’altro coniuge, non per l’esistenza di una malattia o deviazione sessuale, ai sensi del terzo comma n. 1, così come prospettato dalla moglie.


(Da Altalex del 5.4.2013. Nota di Giuseppina Vassallo)