sabato 25 aprile 2015

venerdì 24 aprile 2015

SALVATORE SCALIA NUOVO PROCURATORE GENERALE DI CATANIA

A S.E. Dott. Scalia le nostre sentite congratulazioni
e l’augurio di proseguire nel suo proficuo lavoro


Proprio mentre gli uffici giudiziari di Catania sono in piena emergenza immigrazione, il plenum del Csm vota all'unanimità il nuovo procuratore generale della città siciliana: si tratta di Salvatore Scalia, attualmente avvocato Generale presso la Corte d'appello di Catania.

In magistratura dal 1975, Scalia ha cominciato la carriera come sostituto procuratore a Marsala; è stato poi pretore a Lentini e a Catania, e in seguito per nove anni sostituto procuratore nella stessa città. Nel 1993 la nomina a procuratore di Nicosia, dove per lunghi periodi è rimasto completamente privo di sostituti e quindi ha dovuto svolgere da solo tutta l'attività dell'ufficio.

Eppure sono state numerosissime le indagini aperte, sottolinea la delibera del Csm, peraltro su fenomeni «da gran tempo rimasti nell'ombra»: dallo spaccio di stupefacenti a mega-truffe in danno della Comunità europea e del servizio sanitario; dai delitti contro la pubblica amministrazione, specie nel settore degli appalti, all'usura. Scalia è stato anche procuratore aggiunto a Messina, prima di essere nominato nel 2008 Avvocato Generale presso la corte d'appello di Catania.


(Da gds.it del 24.4.2015)

mercoledì 22 aprile 2015

IL DIVORZIO BREVE E’ LEGGE

Il divorzio breve è legge. La Camera ha approvato in via definitiva (con 398 sì, 28 no e 6 astenuti) la riforma delle norme sul divorzio italiano, a 41 anni dal referendum del 1974.  A favore hanno votato Pd, Sel, M5s, Scelta civica, Psi e Alternativa libera. Forza italia e Area popolare hanno dichiarato il loro sì lasciando, però, anche libertà di coscienza, viste le "diverse sensibilità" presenti nei gruppi. La Lega Nord ha lasciato libertà di coscienza.
Un traguardo che arriva dopo oltre 10 anni di discussioni in Parlamento. Il tempo di attesa tra separazione e divorzio scende a un anno (invece di tre) se l'addio è giudiziale, ma se il divorzio tra i coniugi è consensuale il tempo scende a 6 mesi. E non cambia nulla se nella coppia ci sono figli minori.

Cambiano anche le norme sul fronte patrimoniale: la comunione dei beni potrà essere sciolta nello stesso momento in cui si sottoscrive la separazione. La riforma potrà incidere sulle cause di separazione in corso, “regalando” tempi più brevi a chi aspetta il divorzio.

Durante una fase della lunga discussione sulla legge, sembrava possibile anche che il divorzio non diventasse breve bensì lampo, ovvero con l’abolizione dei due gradi (separazione e divorzio). Al Senato, infatti, la relatrice Rosanna Filippin aveva tentato di inserire nel disegno di legge la norma, provocando però una spaccatura nella maggioranza che sosteneva la legge sul divorzio breve. Norma stralciata poi, e rinviata a tempi migliori.


(Da repubblica.it del 22.4.2015)

PASSA IL “DIVORZIO BREVE”

(ANSA) - ROMA, 22 APR Sì definitivo dell'Aula della Camera all'introduzione del divorzio breve. Il provvedimento è stato licenziato a Montecitorio con 398 sì, 28 no e sei astenuti. Il gruppo della Lega ha votato contro.

martedì 21 aprile 2015

Il Pm italiano può dirsi europeo?

L’insieme dei principi elaborati dal Consiglio consultivo dei Procuratori europei (CCPE) nella cosiddetta Carta di Roma induce a riflettere sullo status e sull’organizzazione del pubblico ministero italiano. Sebbene questa ribadisca il carattere gerarchico dell’organizzazione delle procure, sottolinea fortemente la necessità che i pubblici ministeri siano indipendenti, autonomi e imparziali, riconoscendone il ruolo essenziale a garanzia dello Stato di diritto. Si afferma testualmente che: “I membri del pubblico ministero contribuiscono ad assicurare che lo stato di diritto sia garantito da un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente. I procuratori agiscono per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali…”.
Condizione necessaria affinché il pm europeo possa garantire lo stato di diritto è che ne siano riconosciute l’indipendenza e l’autonomia le quali “costituiscono un corollario indispensabile dell’indipendenza del potere giudiziario” in parallelo a ciò che stabilisce la Costituzione italiana.

Questa visione dell’organo requirente è in linea con l’elaborazione giuridica italiana in cui il procuratore ha funzioni di primaria tutela dell’interesse dello Stato al rispetto della Carta Costituzionale e della legge, ed è rivolto alla ricerca della verità attraverso “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art 358 c.p.p.).

Ma questo modello di pubblico ministero è compatibile con il diritto civile di ogni cittadino, pm compreso, a scendere nell’agone politico?  A riguardo, la Carta di Roma invita i procuratori non solo ad essere imparziali ma ad apparire tali astenendosi “da attività politiche incompatibili con il principio di imparzialità”.

Il principio trova nella normativa italiana una previsione in completa sintonia. L’art. 8 d.P.R. nr 361/1957 prevede che “i magistrati che sono stati candidati e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nel cui ambito si sono svolte le elezioni”. La ratio va individuata nell’inopportunità che colui che ha svolto una campagna elettorale esprimendo posizioni politiche legate a quel territorio ritorni in servizio nella medesima circoscrizione.

La normazione secondaria del CSM (Circolare n. 12046/09 e succ. mod) non prevede un obbligo generale di mutare le funzioni da requirenti a giudicanti dopo il ritorno in ruolo per mancata elezione, ma solo se la candidatura è intervenuta nel distretto di svolgimento delle funzioni. Ciò esprime l’esigenza di evitare al magistrato i rischi di una eccessiva sovraesposizione e di un potenziale appannamento dell’immagine di indipendenza e terzietà.

La Carta di Roma, però, va oltre, delineando un pubblico ministero manager, il quale, essendo responsabile del “funzionamento efficiente, rapido ed efficace del sistema giudiziario” dovrebbe anche essere in condizione di gestire le risorse (personale, tecnologie, bilancio finanziario) a sua disposizione.

L’affermazione che il pubblico ministero debba essere in grado di “negoziare il proprio budget e decidere come utilizzare in modo trasparente i fondi stanziati” non è usuale nel nostro ordinamento in cui la gestione delle risorse economiche si collega ad un’idea manageriale del ruolo direttivo del magistrato (sia requirente che giudicante) verso la quale si registra ancora una certa resistenza culturale.

In conclusione può evidenziarsi che la Carta di Roma, seppur prendendo le mosse da una cornice organizzativa gerarchica del pubblico ministero, ne accentua l’indipendenza e l’autonomia, in piena sintonia con la Carta Costituzionale italiana, suggerendo, in prospettiva europea, un modello di organo requirente, simile a quello italiano, la cui organizzazione sia funzionale alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.


Ilaria Perinu (da In Terris del 21.4.2015)

lunedì 20 aprile 2015

AVVOCATI, GUADAGNI DIFFICILI

Quasi la metà degli avvocati ha un guadagno annuale al di sotto dei 15 mila euro e solo 1 su 3 è pagato puntualmente. È questo il risultato della ricerca “Vita da professionisti” condotta dall'Associazione Bruno Trentin con il contributo e il supporto della Consulta delle Professioni e della Filcams Cgil e presentata nei giorni scorsi a Roma.
Ma in questa condizione, gli avvocati non sono soli.

Condividono con loro il “mal comune” (che non sempre equivale al “mezzo gaudio”) anche gli ingegneri, gli architetti e in generale il popolo delle partite Iva.

L’indagine, infatti, è rivolta all’intera categoria dei professionisti non dipendenti, operanti in qualsiasi settore come autonomi o con forme contrattuali discontinue e precarie, con lo scopo di spingere la riflessione verso la definizione di un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori (caldeggiato nelle ultime settimane dal segretario generale della CGIL Susanna Camusso), nonché quale strumento teso ad evidenziare i necessari interventi politici soprattutto sul versante del sistema previdenziale e del regime agevolato per i redditi bassi per far fronte alle difficoltà in cui versano i professionisti oggi.

Proprio tali difficoltà rappresentano la premessa stessa dello studio che sottolinea come se in passato far parte dei c.d. “lavoratori della conoscenza” era garanzia di benessere, la crisi non ha risparmiato neanche loro, diminuendo sensibilmente il numero dei professionisti autonomi (oggi pari, secondo i dati Istat, a quasi 3 milioni e mezzo che, nel loro insieme, tra professioni ordinistiche e non, contribuiscono a circa il 18% del Pil).

Dalle oltre duemila interviste realizzate online, cui hanno partecipato, su base volontaria, avvocati, ingegneri, architetti e partite Iva, è emerso che il 47,5% dei professionisti percepisce fino a 15mila euro all’anno e oltre il 60% (due su tre) ha difficoltà ad arrivare a fine mese, mentre solo il 21,7% può vantare redditi oltre i 30mila euro.

Tuttavia, dai controlli è risultato come i redditi più elevati siano percepiti da chi lavora più ore: infatti il 44,5% del campione intervistato va oltre le 40 ore settimanali, dimostrando che “il benessere economico è legato imprescindibilmente allo sfruttamento o all’auto-sfruttamento”.

A percepire i redditi più alti, secondo quanto emerge dallo studio, considerando come base un importo superiore ai 25mila euro lordi, sono i professionisti dei settori: banca, assicurazione e finanza (54,2%); consulenza e servizi per le aziende (52,8%); salute e sicurezza sul lavoro (66,2%); servizi commerciali (58,8%) e commercialistico e consulenza tributaria (50%).

Sono, invece, a rischio “povertà estrema”, considerando redditi inferiori a 5mila euro lordi annuali, le tipologie di professionisti operanti nei seguenti segmenti: cultura e spettacolo (23,7%); informazione ed editoria (25%); tecnico-scientifico (20%) e archivistico-bibliotecario (27,3%).

Ad aggiungersi alle problematiche reddituali, sono anche i ritardi nei pagamenti: solo un professionista su tre (29,5%), infatti, è pagato con puntualità, mentre il 19,% sconta ritardi dai 3 ai 6 mesi, e quasi il 17% superiori a 6 mesi, anche da parte dei committenti pubblici (ben il 20,7%), mentre quasi il 7% dichiara di non essere mai stato pagato per le prestazioni svolte.

Altro aspetto messo in luce dallo studio rappresenta la discontinuità dell’occupazione: relativamente al 2013 circa il 16,5% del campione ha dichiarato di essere stato disoccupato per due mesi, quasi il 21% da tre a sei mesi e l’11,8% da sette mesi a un anno. Ad essere più esposti, sono i professionisti con contratti di parasubordinazione, di inserimento al lavoro e le partite Iva a regime minimo.

Nonostante tutto, però, solo il 15% degli intervistati sogna il “posto fisso”, mentre la maggior parte va “fiera” del proprio lavoro, ritenendolo coerente al proprio percorso (84%), per nulla ripetitivo e noioso (80%) e vuole continuare  a svolgerlo.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it del 18.4.2015)

venerdì 17 aprile 2015

Moglie divorziata convive? Addio al mantenimento

Niente più assegno alla moglie divorziata che si rifà una vita con un altro uomo, anche se la convivenza è solo di fatto. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza n. 6855 depositata il 3 aprile scorso, ponendo fine così alla "prassi" di non risposarsi per non perdere il sostegno economico determinato dal parametro dell’inadeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Per la Cassazione, infatti, anche se non convola a nozze, l’ex coniuge che inizia una nuova convivenza non ha più diritto al trattamento posto a carico dell’onerato, che non risorge, peraltro, neanche laddove detta convivenza dovesse cessare.

La decisione di creare una nuova famiglia, per quanto fuori dal matrimonio, infatti, ha sostenuto la prima sezione della S.C., è frutto di una libera e consapevole scelta e chi la assume deve tenere in debito conto che questa, per quanto stabile, in futuro può anche cessare, facendo salvi ovviamente i diritti dei figli eventualmente nati dall’unione.

Così, la Corte ha accolto le ragioni dell’ex marito, rigettate invece dai giudici di merito che avevano ritenuto legittimo il diritto della signora alla percezione dell’assegno divorzile anche dopo aver avviato una nuova relazione affettiva con un altro uomo (avendo avuto anche un figlio), poi finita.

Una decisione, quella del Palazzaccio, che assume molta importanza anche sotto l’aspetto della rilevanza della coppia di fatto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità: laddove, infatti, i conviventi elaborino un “progetto e un modello di vita in comune” che riveste i connotati della stabilità e della continuità, questo va considerato come una “vera e propria famiglia di fatto”, hanno ribadito i giudici di legittimità, che non può che rescindere qualsiasi legame con il tenore di vita che caratterizzava la precedente convivenza matrimoniale, facendo cadere ogni presupposto per il riconoscimento di un assegno divorzile.

Non vi è, dunque, nessuna “quiescenza” del diritto all’assegno che lo farebbe risorgere in seguito alla rottura della convivenza tra i familiari di fatto, ma un esonero definitivo dall’obbligo posto a carico dell’ex coniuge (il quale, altrimenti sarebbe onerato del sostentamento economico di una donna che ha avviato un progetto di vita e familiare insieme a un altro), sebbene in assenza di apposita normativa, hanno sottolineato gli Ermellini, occorra sempre una decisione del giudice per accertarlo.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it del 15.4.2015)

giovedì 16 aprile 2015

Concorrenza, no a invasioni di campo del ministero Sviluppo economico

COMUNICATO STAMPA O.U.A.

Stralcio della norma che consente i soci di solo capitale negli studi legali, così come prevista dal DDL Concorrenza, licenziato dal Consiglio dei Ministri e ora all'esame delle Commissioni alla Camera dei deputati. Ma anche disponibilità al dialogo con il Ministero di Giustizia, affinché si avvii una vera modernizzazione della professione forense. No alle invasioni di campo e ai colpi di mano dei ministeri economici, anche per evitare le fallimentari esperienze del passato. Questa le ferme richieste contenute in un documento dell'Organismo Unitario dell'Avvocatura discusso negli Stati Generali dell'Avvocatura Italiana, riuniti oggi a Roma (realizzato anche un documento sui “fatti” di Milano con precise richieste sulla sicurezza e le strutture giudiziarie).

Ai lavori hanno partecipato il Cnf, la Cassa Forense, il Coordinamento degli Ordini, numerosi Presidenti degli Ordini forensi di tutta Italia e diverse associazioni di categoria. All'assise erano anche presenti i rappresentanti di diverse forze politiche, tra questi per il forum giustizia del Pd, Sandro Favi e Filippo Marciante, per il partito dei Socialisti Italiani, l’onorevole Marco Di Lello.

“Questa norma è un pasticcio - attacca Mirella Casiello - non solo perché contraddice i principi che ispirano la professione forense ma anche perché, così come è stata formulata, non prevede alcuna limitazione alla presenza di soci di mero capitale alle società di avvocati e soprattutto non affronta i problemi legati alla fiscalità e alla previdenza di queste società ‘ibride’ ”.

“Mi sia permessa un'ulteriore valutazione - prosegue la Presidente OUA - così com'è stata formulata, la norma rischia di compromettere le garanzie di rispetto dei principi di equa previdenza, solidarietà generazionale e imparzialità fiscale per i soggetti operanti, tutti principi osservati dall’Avvocatura.

“Sulla base di queste considerazioni - conclude Casiello – si chiede al Governo di stralciare la norma dal Ddl Concorrenza per riportare la discussione nell'alveo del Ministero di Giustizia competente. Gli interventi sulla materia non possono essere adottati senza consultare tutte le componenti dell'Avvocatura che sono, lo ribadiamo, sempre disponibili al confronto”.


Roma, 16 aprile 2015

mercoledì 15 aprile 2015

Paga mutuo e “sopravvive”, no mantenimento a moglie

Lui è un maresciallo della Finanza e guadagna poco più di duemila euro al mese. Lei, invece, lavora come operatrice in un call center. Lui abita nella casa coniugale. Lei paga un affitto di 900 euro al mese ed è collocataria dei figli. Chiara la disparità economica tra i due ex coniugi che dovrebbe far sorgere automaticamente il diritto al mantenimento per l’ex moglie.
Ma questo solo sulla carta.

L’uomo, infatti, paga il mutuo sulla casa comune per oltre 600 euro, versa un assegno di mantenimento mensile ai figli pari a 527 euro e rimborsa mensilmente 140 euro per un finanziamento precedentemente contratto.

Facendo due conti, dunque, l’assegno per la moglie, fissato dalla Corte d’appello in 400 euro mensili, non è poi così scontato, atteso che all’uomo rimarrebbero per vivere circa 300 euro al mese!

È questo il ragionamento seguito dalla Cassazione con sentenza n. 7053 dell’8 aprile 2015, la quale, bacchettando i giudici di merito ha ritenuto fondate le doglianze dell’uomo e cassato la sentenza d’appello con rinvio per un nuovo giudizio.

In particolare, hanno affermato i giudici della sesta sezione civile, ha errato la corte nell’omettere di considerare gli oneri economici sostenuti dal ricorrente, giustificando il riconoscimento dell’assegno soltanto sulla valutazione della situazione economica dei coniugi, senza tenere conto delle prove documentali prodotte dall’ex marito che dimostravano che il rispettivo reddito netto era gravato da spese tali (e, in primis, l’accollo totale del mutuo dell’appartamento acquistato in comproprietà con la moglie) da risultare insufficiente a far fronte alle esigenze della vita quotidiana.

È vero, dunque, che la disparità della situazione economica tra i due coniugi è uno dei fattori determinanti per far maturare il diritto all’assegno di mantenimento a favore di quello più debole, ma è anche vero, ha concluso la S.C., che nel porre a confronto entrambe le posizioni reddituali, è doverosa la valutazione, da parte del giudice, dell’incidenza degli esborsi sulla complessiva situazione patrimoniale, solo all’esito della quale potrà stabilirsi se ed in quale misura sorga il diritto alla corresponsione dell’assegno.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it del 10.4.2015)

lunedì 13 aprile 2015

Cartella Equitalia nulla se gli interessi non sono chiari

Comm. Trib. Prov. Como, sez. III, sent. 4.9.2014 n° 409

È illegittima la cartella esattoriale di Equitalia se il calcolo degli interessi non è chiaro.

A tali conclusioni è giunta una recente pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Como (sentenza n. 409/03/14, depositata il 4/09/2014), dove si chiarisce che “… nonostante la ingente esposizione di interessi e sanzioni pecuniarie afferente al debito tributario, alcun dettaglio viene fornito circa il calcolo di detti accessori (durata del ritardo e tasso di interessi), il che impedisce al contribuente di verificare la correttezza del relativo calcolo, e quindi, comporta la nullità della cartella”.

I Giudici di Como, dunque, recepiscono in pieno i dettami della Suprema Corte, secondo la quale è illegittimo l’atto tributario laddove non consente al contribuente di poter operare qualsivoglia controllo in merito all’operato della Amministrazione Finanziaria (sent. Corte Cassazione n. 8651/2009).

Emerge, quindi, un principio fondamentale secondo cui non esiste una presunzione di legittimità delle somme pretese dal Fisco, ciò significa che il contribuente non deve prendere per verità assoluta quanto gli viene richiesto dall’Amministrazione finanziaria ma anzi deve essere messo nelle condizioni di verificare ogni singolo centesimo richiesto.

Alla luce delle predette pronunce, ci si augura che il concessionario della riscossione possa rendere più chiari gli atti che invia al contribuente, nel pieno rispetto dei principi espressi dallo Statuto dei Diritti del Contribuente (si veda articolo 7 della Legge n. 212/2000).


(Da Altalex del 24.2. 2015. Nota di Matteo Sances)

domenica 12 aprile 2015

LE “CASELLE CORRISPONDENZA” SPOSTATE IN BIBLIOTECA

Il Segretario dell’Ordine Avv. S. Walter Toro informa che il servizio di “Corrispondenza tra Avvocati”, al fine di garantirne la maggiore efficienza e fruibilità, è stato trasferito dai locali di Segreteria di Presidenza alla Biblioteca “Nino Magnano di San Lio” dell’ Ordine Forense di Catania.

venerdì 10 aprile 2015

OGGI FIACCOLATA PER LA TRAGEDIA DI MILANO

In seguito al tragico episodio avvenuto ieri al Tribunale di Milano, che ha visto coinvolti Avvocati e Magistrati, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania, unitamente all’ANM di Catania, ha organizzato una fiaccolata per commemorare le vittime e per sensibilizzare la società civile sulle criticità dell’amministrazione della giustizia. La fiaccolata si terrà questa sera alle ore 19,30 nel piazzale del Tribunale. Tutti gli Avvocati sono invitati ad intervenire per rendere la propria partecipata testimonianza.

giovedì 9 aprile 2015

STRAGE TRIBUNALE MILANO, LA SOLIDARIETÀ DELL’OUA

Mirella Casiello, presidente OUA: “Il tribunale ormai trincea del disagio sociale e della follia assassina. Gli operatori della giustizia, avvocati e magistrati, principali vittime di questa situazione. Grande preoccupazione per il nodo sicurezza”

Il vice presidente dell’Oua, Pietro Faranda, milanese, su queste tragiche ore al Palazzo di Giustizia: «Grande dolore per le vittime di questa strage: il giudice Ferdinando Ciampi, il collega, avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, e gli altri quattro cittadini coinvolti, di cui due in ospedale in gravissime condizioni. Un giorno terribile che speriamo faccia riflettere tutti».

«Il tragico episodio di Milano – sottolinea Mirella Casiello, presidente Oua - dimostra come i tribunali, che da sempre sono la “prima linea” della lotta alla criminalità, siano diventati anche la trincea simbolica del disagio sociale e, in alcuni casi, della follia assassina. Le conseguenze di questa grave situazione ricadono sugli avvocati e i magistrati e sul concetto stesso di giustizia nel nostro Paese».

«Rimane, comunque, alta la preoccupazione per il nodo sicurezza in un tribunale importante come quello milanese – conclude Casiello –. Abbiamo, infine, rivolto la nostra solidarietà oltre che a tutti i familiari delle vittime della strage, anche al presidente dell’ordine forense meneghino, Remo Danovi e al presidente f.f. del Tribunale di Milano».


CS OUA 9.4.2015

mercoledì 8 aprile 2015

Il processo civile telematico verso il caos

De Tilla (Anai): abbiamo un universo
normativo a puzzle indecifrabile

Doveva essere il toccasana per snellire i processi e invece, di fatto, gli avvocati sono risucchiati nel gorgo del processo telematico. A denunciare la complessa situazione che sta vivendo la categoria con l'entrata in vigore del processo civile telematico è l’Anai, l’associazione nazionale degli avvocati italiani. «Vi sono gravi inconvenienti per la difettosa informatizzazione dell’apparato giudiziario e per la discordanza di prassi territoriali, si incrementano notifiche, comunicazioni, depositi, restano quasi ovunque da depositare le copie cartacee degli atti» denuncia il presidente Anai Maurizio De Tilla. Il presidente Anai elenca alcuni disservizi: «Alcuni uffici non accettano più atti cartacei, altri richiedono depositi con modalità tradizionali, magari accompagnati da supporti, come dischi o chiavette, sui quali caricare il materiale. Sussistono inoltre disparità di decisioni sulla portata ed estensione del processo telematico. Ed infatti alcuni giudici ritengono che sia possibile depositare in via telematica anche gli atti introduttivi della lite. Cosa succede, poi, se in alcuni uffici mancano gli strumenti informatici per riceverli?È da considerare nullo l’atto depositato in un formato diverso da quello previsto? È possibile una rimessione in termini?  L'attuazione è resa ancora più complessa - continua De Tilla - dalle “specifiche tecniche” che impongono che l’atto da depositare debba essere un file pdf “nativo digitale” ottenuto trasformando (tramite la funzionalità del pc) un documento peritale. Si consideri che le decisioni dei giudici, in modo pressoché unanime, hanno stabilito la nullità degli atti in formati diversi. E ciò anche se la normativa sul processo telematico non prevede la sanzione della nullità per il mancato rispetto dei formati. L’avvocatura ha, opportunamente, chiesto protocolli armonizzati o un unico provvedimento nazionale. Ci sono alcuni tribunali nei quali il P.c.t. non funziona. In altri tribunali sussistono difficoltà di collegamento al sistema giustizia in determinati orari. Spesso vi è ritardo nell’accettazione dell’atto da parte del personale di cancelleria. Per i depositi di decreti ingiuntivi fra la consegna e l’accettazione a volte decorre anche un mese. L’aggiornamento software dei tribunali preclude, nel giorno previsto per tale attività, l’invio e il conseguente deposito degli atti. Non esiste il registro storico degli invii in caso di sospensione del sistema. I documenti e gli atti depositati telematicamente nei procedimenti avanti il tribunale non vengono acquisiti dalle Corti di Appello (salvo poche eccezioni). Siamo in presenza di un universo normativo a puzzle, spesso indecifrabile, contraddittorio, di difficile apprensione e consultazione.  Altra anomalia: Ad esempio, il decreto ingiuntivo si presenta in via telematica ma l’opposizione è cartacea. La citazione, la comparsa di costituzione sono cartacee, le memorie istruttorie e finali sono telematiche. La sentenza è telematica, ma l’appello è cartaceo. È cartaceo anche il ricorso per cassazione.  Occorre stoppare tutte queste anomalie - ha concluso De Tilla - fermiamo il caos del Processo Civile Telematico e uniformiamo le regole su tutto il territorio nazionale!».


(Da Mondoprofessionisti del 7.4.2015)

Rumori molesti dei vicini e normale tollerabilità

Cass. Civ.  sez. II, sent. n. 6786 del 2.4.2015

Una tirata di orecchie dalla Corte di Cassazione per i giudici di merito che nel caso di specie, a seguito di accertamenti disposti per lamentata violazione dell'art. 844 del codice civile (rumori ed immissioni intollerabili), avevano negato la rimozione degli apparati di condizionamento d'aria che una gelateria, sita al piano terra di un complesso condominiale, aveva provveduto ad installare.

Gli interessati ricorrevano in Cassazione lamentando che il giudicante non aveva preso in considerazione alcuni elementi di fatto inerenti alla domanda, debitamente allegati.

La norma sopra citata dispone che “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”.

E' fondamentale dunque, in sede processuale, delineare questa soglia di normale tollerabilità, onde valutare se effettivamente sia stata superata.

La proprietà, rimarca la Corte, è qui tutelata nella sua interezza, “con riferimento alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene e non dunque solo alla tutela della salute in quanto tale”.

L'interpretazione del concetto di normale tollerabilità deve avvenire in senso ampio, pur mantenendo un collegamento alla norma costituzionale che provvede alla tutela della salute.

Accertato il mutamento della “normale qualità della vita” (tenuto conto degli elementi probatori non esaminati nei gradi di merito) la Suprema corte ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata.


Licia Albertazzi (da studiocataldi.it del 4.4.2015)

lunedì 6 aprile 2015

Non coerenza studi di settore non basta per accertamento

Comm. Tributaria Reg. Milano sez. Brescia, 
sent. 10.10.2014 n° 5136/64/14

Non basta che il contribuente non risulti congruo e coerente per giustificare l’accertamento fiscale.

Ciò è quanto emerge da una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano – sezione staccata di Brescia (sentenza n. 5136/64/14), secondo la quale l’Agenzia delle Entrate non può accertare il reddito del contribuente basandosi solo sull’incongruità dallo studio di settore.

Il motivo di questa pronuncia deriva dal fatto che, secondo i giudici lombardi, la predetta rettifica rientra tra quegli accertamenti presuntivi che richiedono necessariamente la presenza di INCONGRUENZE tali da sconfessare la contabilità aziendale (cd. “gravi incongruenze”).

Proprio su questo punto i giudici chiariscono che “il Legislatore … oltre ad inquadrare gli accertamenti determinati degli studi di settore tra quelli basati su presunzioni semplici, ha ulteriormente richiesto, per legittimare l’accertamento, che vi siano <<gravi incongruenze>> tra i ricavi/compensi dichiarati e quelli derivanti dagli stessi studi. Sono tali incongruenze, quindi, a conferire allo scostamento risultante dall’applicazione degli studi di settore i requisiti di gravità, precisione e concordanza, propri delle presunzioni semplici. Va inoltre osservato che secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente lo scostamento dagli studi di settore non costituisce che una presunzione semplice e, come tale, non può giustificare la rettifica del reddito d’impresa se non è supportato da ulteriori elementi indiziari (Cass. SU 18/12/2009, sent. n.26635, 26636, 26637, 26638 e, da ultimo, sez. trib. 6/07/2010, ordinanza n.15905)”.

Nel caso in questione, invece, l’Ufficio delle imposte non era stato in grado di evidenziare alcuna grave incongruenza (la contabilità del contribuente ad esempio risultava formalmente corretta) ma aveva provveduto comunque ad emettere l’accertamento fiscale.

Per tali motivi, dunque, i giudici hanno dichiarato l’accertamento illegittimo.


(Da Altalex del 25.2.2015. Nota di Matteo Sances)

sabato 4 aprile 2015

AUGURI DI BUONA PASQUA!

Ai nostri soci e colleghi 
ed alle loro famiglie...


“Caro Cassa”, in 5mila lasciano la professione

Restare o abbandonare per non pagare i contributi? È la scelta che circa 50mila avvocati, destinatari dell’obbligo di formalizzare l’iscrizione alla cassa previdenza pur avendo un reddito minimo, dovranno compiere entro la fine di giugno, a pena di cancellazione dall’albo.
Il termine è quello dei 90 giorni successivi al ricevimento degli “avvisi” inviati dalla cassa forense, tramite posta certificata, agli avvocati in regola con l’albo ma non con la previdenza di optare per l’iscrizione all’ente o per le liste Inps.

In cinquemila hanno già gettato la spugna, secondo quanto dichiarato dallo stesso presidente della cassa, Nunzio Luciano in un’intervista al Sole24ore (“Intervista a Nunzio Luciano: «Opzione per la Cassa degli avvocati con reddito minimo»”). Ma tale percentuale, vista la platea di 50mila non preoccupa l’ente previdenziale che parla di “scommessa vinta” anche se le defezioni dovessero aumentare fino alla fine di giugno.

L’obbligo di iscrizione per gli avvocati all’ente previdenziale e del relativo pagamento dei contributi, indipendentemente dalla capacità reddituale, si ricorda, è stato fissato, con l’entrata in vigore del relativo regolamento attuativo in vigore dal 21 agosto 2014, dall’art. 21, commi 8 e 9, della riforma forense (l. n. 247/2012).

La norma prevede, infatti, che l’iscrizione all’albo professionale comporti l’iscrizione contestuale obbligatoria alla cassa nazionale di previdenza forense e della corresponsione dei contributi previdenziali, a prescindere dal reddito, a pena di cancellazione dall’albo stesso.

Per chi è in possesso di requisiti minimi di reddito (inferiore a 10.300 euro annui), il regolamento prevede pagamenti agevolati, pari a 700 euro l’anno quale contributo soggettivo, in luogo dei 2.800 ordinari, un quarto cioè della contribuzione minima.

Ma, per contro, anche il trattamento previdenziale sarà proporzionale a quanto versato, seppur è prevista la copertura nei casi di malattia grave o calamità.

Previste anche rateizzazioni dei contributi e misure di microcredito, oltre al monitoraggio dei fondi europei e a iniziative sul welfare.

Ma a quanto pare tutto questo non basta e il prezzo da pagare è troppo alto (considerato che alle quote previdenziali va aggiunta anche quella per l’albo richiesta regolarmente dall’ordine), per quei 5.000 (salvo aumenti) costretti a rinunciare ad esercitare la professione.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it del 2.4.2015)

giovedì 2 aprile 2015

Anche con pistola giocattolo la minaccia è aggravata

Cass. sez. V Pen., sent. n. 13915 dep. 1°.4.2015

In tema di minaccia, ricorre l’aggravante dell’arma anche nel caso di una pistola giocattolo, in quanto qualsiasi oggetto che abbia all’apparenza le caratteristiche intrinseche di un’arma può provocare nel soggetto passivo un effetto intimidatorio più intenso.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 13915, depositata il 1° aprile 2015.


(Da dirittoegiustizia.it del 2.4.2015)