sabato 25 aprile 2015
venerdì 24 aprile 2015
SALVATORE SCALIA NUOVO PROCURATORE GENERALE DI CATANIA
A S.E. Dott. Scalia le nostre sentite
congratulazioni
e l’augurio di proseguire nel suo proficuo
lavoro
Proprio
mentre gli uffici giudiziari di Catania sono in piena emergenza immigrazione,
il plenum del Csm vota all'unanimità il nuovo procuratore generale della città
siciliana: si tratta di Salvatore Scalia, attualmente avvocato Generale presso la Corte d'appello di Catania.
In
magistratura dal 1975, Scalia ha cominciato la carriera come sostituto
procuratore a Marsala; è stato poi pretore a Lentini e a Catania, e in seguito
per nove anni sostituto procuratore nella stessa città. Nel 1993 la nomina a
procuratore di Nicosia, dove per lunghi periodi è rimasto completamente privo
di sostituti e quindi ha dovuto svolgere da solo tutta l'attività dell'ufficio.
Eppure
sono state numerosissime le indagini aperte, sottolinea la delibera del Csm,
peraltro su fenomeni «da gran tempo rimasti nell'ombra»: dallo spaccio di
stupefacenti a mega-truffe in danno della Comunità europea e del servizio
sanitario; dai delitti contro la pubblica amministrazione, specie nel settore
degli appalti, all'usura. Scalia è stato anche procuratore aggiunto a Messina,
prima di essere nominato nel 2008 Avvocato Generale presso la corte d'appello
di Catania.
(Da gds.it del
24.4.2015)
mercoledì 22 aprile 2015
IL DIVORZIO BREVE E’ LEGGE
Il
divorzio breve è legge. La
Camera ha approvato in via definitiva (con 398 sì, 28 no e 6
astenuti) la riforma delle norme sul divorzio italiano, a 41 anni dal
referendum del 1974. A favore hanno
votato Pd, Sel, M5s, Scelta civica, Psi e Alternativa libera. Forza italia e
Area popolare hanno dichiarato il loro sì lasciando, però, anche libertà di
coscienza, viste le "diverse sensibilità" presenti nei gruppi. La Lega Nord ha lasciato
libertà di coscienza.
Un
traguardo che arriva dopo oltre 10 anni di discussioni in Parlamento. Il tempo
di attesa tra separazione e divorzio scende a un anno (invece di tre) se
l'addio è giudiziale, ma se il divorzio tra i coniugi è consensuale il tempo
scende a 6 mesi. E non cambia nulla se nella coppia ci sono figli minori.
Cambiano
anche le norme sul fronte patrimoniale: la comunione dei beni potrà essere
sciolta nello stesso momento in cui si sottoscrive la separazione. La riforma
potrà incidere sulle cause di separazione in corso, “regalando” tempi più brevi
a chi aspetta il divorzio.
Durante
una fase della lunga discussione sulla legge, sembrava possibile anche che il
divorzio non diventasse breve bensì lampo, ovvero con l’abolizione dei due
gradi (separazione e divorzio). Al Senato, infatti, la relatrice Rosanna
Filippin aveva tentato di inserire nel disegno di legge la norma, provocando
però una spaccatura nella maggioranza che sosteneva la legge sul divorzio
breve. Norma stralciata poi, e rinviata a tempi migliori.
(Da repubblica.it del
22.4.2015)
PASSA IL “DIVORZIO BREVE”
(ANSA) - ROMA, 22 APR Sì definitivo dell'Aula della Camera all'introduzione del
divorzio breve. Il provvedimento è stato licenziato a Montecitorio con 398 sì,
28 no e sei astenuti. Il gruppo della Lega ha votato contro.
martedì 21 aprile 2015
Il Pm italiano può dirsi europeo?
L’insieme
dei principi elaborati dal Consiglio consultivo dei Procuratori europei (CCPE)
nella cosiddetta Carta di Roma induce a riflettere sullo status e
sull’organizzazione del pubblico ministero italiano. Sebbene questa ribadisca
il carattere gerarchico dell’organizzazione delle procure, sottolinea
fortemente la necessità che i pubblici ministeri siano indipendenti, autonomi e
imparziali, riconoscendone il ruolo essenziale a garanzia dello Stato di
diritto. Si afferma testualmente che: “I membri del pubblico ministero
contribuiscono ad assicurare che lo stato di diritto sia garantito da
un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente. I
procuratori agiscono per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le
libertà fondamentali…”.
Condizione
necessaria affinché il pm europeo possa garantire lo stato di diritto è che ne
siano riconosciute l’indipendenza e l’autonomia le quali “costituiscono un
corollario indispensabile dell’indipendenza del potere giudiziario” in
parallelo a ciò che stabilisce la Costituzione italiana.
Questa
visione dell’organo requirente è in linea con l’elaborazione giuridica italiana
in cui il procuratore ha funzioni di primaria tutela dell’interesse dello Stato
al rispetto della Carta Costituzionale e della legge, ed è rivolto alla ricerca
della verità attraverso “accertamenti su fatti e circostanze a favore della
persona sottoposta ad indagini” (art 358 c.p.p.).
Ma
questo modello di pubblico ministero è compatibile con il diritto civile di
ogni cittadino, pm compreso, a scendere nell’agone politico? A riguardo, la Carta di Roma invita i
procuratori non solo ad essere imparziali ma ad apparire tali astenendosi “da
attività politiche incompatibili con il principio di imparzialità”.
Il
principio trova nella normativa italiana una previsione in completa sintonia.
L’art. 8 d.P.R. nr 361/1957 prevede che “i magistrati che sono stati candidati
e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo di cinque anni le
loro funzioni nella circoscrizione nel cui ambito si sono svolte le elezioni”.
La ratio va individuata nell’inopportunità che colui che ha svolto una campagna
elettorale esprimendo posizioni politiche legate a quel territorio ritorni in
servizio nella medesima circoscrizione.
La
normazione secondaria del CSM (Circolare n. 12046/09 e succ. mod) non prevede
un obbligo generale di mutare le funzioni da requirenti a giudicanti dopo il
ritorno in ruolo per mancata elezione, ma solo se la candidatura è intervenuta
nel distretto di svolgimento delle funzioni. Ciò esprime l’esigenza di evitare
al magistrato i rischi di una eccessiva sovraesposizione e di un potenziale
appannamento dell’immagine di indipendenza e terzietà.
La Carta di Roma, però, va oltre, delineando un pubblico ministero
manager, il quale, essendo responsabile del “funzionamento efficiente, rapido
ed efficace del sistema giudiziario” dovrebbe anche essere in condizione di
gestire le risorse (personale, tecnologie, bilancio finanziario) a sua
disposizione.
L’affermazione
che il pubblico ministero debba essere in grado di “negoziare il proprio budget
e decidere come utilizzare in modo trasparente i fondi stanziati” non è usuale
nel nostro ordinamento in cui la gestione delle risorse economiche si collega
ad un’idea manageriale del ruolo direttivo del magistrato (sia requirente che
giudicante) verso la quale si registra ancora una certa resistenza culturale.
In
conclusione può evidenziarsi che la
Carta di Roma, seppur prendendo le mosse da una cornice
organizzativa gerarchica del pubblico ministero, ne accentua l’indipendenza e
l’autonomia, in piena sintonia con la Carta Costituzionale
italiana, suggerendo, in prospettiva europea, un modello di organo requirente,
simile a quello italiano, la cui organizzazione sia funzionale alla tutela dei
diritti fondamentali dell’individuo.
Ilaria Perinu (da In
Terris del 21.4.2015)
lunedì 20 aprile 2015
AVVOCATI, GUADAGNI DIFFICILI
Quasi
la metà degli avvocati ha un guadagno annuale al di sotto dei 15 mila euro e
solo 1 su 3 è pagato puntualmente. È questo il risultato della ricerca “Vita da
professionisti” condotta dall'Associazione Bruno Trentin con il contributo e il
supporto della Consulta delle Professioni e della Filcams Cgil e presentata nei
giorni scorsi a Roma.
Ma
in questa condizione, gli avvocati non sono soli.
Condividono
con loro il “mal comune” (che non sempre equivale al “mezzo gaudio”) anche gli
ingegneri, gli architetti e in generale il popolo delle partite Iva.
L’indagine,
infatti, è rivolta all’intera categoria dei professionisti non dipendenti,
operanti in qualsiasi settore come autonomi o con forme contrattuali
discontinue e precarie, con lo scopo di spingere la riflessione verso la
definizione di un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori (caldeggiato nelle
ultime settimane dal segretario generale della CGIL Susanna Camusso), nonché
quale strumento teso ad evidenziare i necessari interventi politici soprattutto
sul versante del sistema previdenziale e del regime agevolato per i redditi
bassi per far fronte alle difficoltà in cui versano i professionisti oggi.
Proprio
tali difficoltà rappresentano la premessa stessa dello studio che sottolinea
come se in passato far parte dei c.d. “lavoratori della conoscenza” era
garanzia di benessere, la crisi non ha risparmiato neanche loro, diminuendo
sensibilmente il numero dei professionisti autonomi (oggi pari, secondo i dati
Istat, a quasi 3 milioni e mezzo che, nel loro insieme, tra professioni
ordinistiche e non, contribuiscono a circa il 18% del Pil).
Dalle
oltre duemila interviste realizzate online, cui hanno partecipato, su base
volontaria, avvocati, ingegneri, architetti e partite Iva, è emerso che il
47,5% dei professionisti percepisce fino a 15mila euro all’anno e oltre il 60%
(due su tre) ha difficoltà ad arrivare a fine mese, mentre solo il 21,7% può
vantare redditi oltre i 30mila euro.
Tuttavia,
dai controlli è risultato come i redditi più elevati siano percepiti da chi
lavora più ore: infatti il 44,5% del campione intervistato va oltre le 40 ore
settimanali, dimostrando che “il benessere economico è legato
imprescindibilmente allo sfruttamento o all’auto-sfruttamento”.
A
percepire i redditi più alti, secondo quanto emerge dallo studio, considerando
come base un importo superiore ai 25mila euro lordi, sono i professionisti dei
settori: banca, assicurazione e finanza (54,2%); consulenza e servizi per le
aziende (52,8%); salute e sicurezza sul lavoro (66,2%); servizi commerciali
(58,8%) e commercialistico e consulenza tributaria (50%).
Sono,
invece, a rischio “povertà estrema”, considerando redditi inferiori a 5mila
euro lordi annuali, le tipologie di professionisti operanti nei seguenti segmenti:
cultura e spettacolo (23,7%); informazione ed editoria (25%);
tecnico-scientifico (20%) e archivistico-bibliotecario (27,3%).
Ad
aggiungersi alle problematiche reddituali, sono anche i ritardi nei pagamenti:
solo un professionista su tre (29,5%), infatti, è pagato con puntualità, mentre
il 19,% sconta ritardi dai 3 ai 6 mesi, e quasi il 17% superiori a 6 mesi,
anche da parte dei committenti pubblici (ben il 20,7%), mentre quasi il 7%
dichiara di non essere mai stato pagato per le prestazioni svolte.
Altro
aspetto messo in luce dallo studio rappresenta la discontinuità
dell’occupazione: relativamente al 2013 circa il 16,5% del campione ha
dichiarato di essere stato disoccupato per due mesi, quasi il 21% da tre a sei
mesi e l’11,8% da sette mesi a un anno. Ad essere più esposti, sono i
professionisti con contratti di parasubordinazione, di inserimento al lavoro e
le partite Iva a regime minimo.
Nonostante
tutto, però, solo il 15% degli intervistati sogna il “posto fisso”, mentre la
maggior parte va “fiera” del proprio lavoro, ritenendolo coerente al proprio
percorso (84%), per nulla ripetitivo e noioso (80%) e vuole continuare a svolgerlo.
Marina Crisafi (da studiocataldi.it
del 18.4.2015)
venerdì 17 aprile 2015
Moglie divorziata convive? Addio al mantenimento
Niente
più assegno alla moglie divorziata che si rifà una vita con un altro uomo,
anche se la convivenza è solo di fatto. Lo ha affermato la Cassazione, con la
sentenza n. 6855 depositata il 3 aprile scorso, ponendo fine così alla
"prassi" di non risposarsi per non perdere il sostegno economico
determinato dal parametro dell’inadeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di
vita goduto durante il matrimonio.
Per
la Cassazione,
infatti, anche se non convola a nozze, l’ex coniuge che inizia una nuova
convivenza non ha più diritto al trattamento posto a carico dell’onerato, che
non risorge, peraltro, neanche laddove detta convivenza dovesse cessare.
La
decisione di creare una nuova famiglia, per quanto fuori dal matrimonio,
infatti, ha sostenuto la prima sezione della S.C., è frutto di una libera e
consapevole scelta e chi la assume deve tenere in debito conto che questa, per
quanto stabile, in futuro può anche cessare, facendo salvi ovviamente i diritti
dei figli eventualmente nati dall’unione.
Così,
la Corte ha
accolto le ragioni dell’ex marito, rigettate invece dai giudici di merito che
avevano ritenuto legittimo il diritto della signora alla percezione
dell’assegno divorzile anche dopo aver avviato una nuova relazione affettiva
con un altro uomo (avendo avuto anche un figlio), poi finita.
Una
decisione, quella del Palazzaccio, che assume molta importanza anche sotto
l’aspetto della rilevanza della coppia di fatto nell’orientamento della
giurisprudenza di legittimità: laddove, infatti, i conviventi elaborino un
“progetto e un modello di vita in comune” che riveste i connotati della
stabilità e della continuità, questo va considerato come una “vera e propria
famiglia di fatto”, hanno ribadito i giudici di legittimità, che non può che
rescindere qualsiasi legame con il tenore di vita che caratterizzava la
precedente convivenza matrimoniale, facendo cadere ogni presupposto per il
riconoscimento di un assegno divorzile.
Non
vi è, dunque, nessuna “quiescenza” del diritto all’assegno che lo farebbe
risorgere in seguito alla rottura della convivenza tra i familiari di fatto, ma
un esonero definitivo dall’obbligo posto a carico dell’ex coniuge (il quale,
altrimenti sarebbe onerato del sostentamento economico di una donna che ha
avviato un progetto di vita e familiare insieme a un altro), sebbene in assenza
di apposita normativa, hanno sottolineato gli Ermellini, occorra sempre una
decisione del giudice per accertarlo.
Marina Crisafi (da
studiocataldi.it del 15.4.2015)
giovedì 16 aprile 2015
Concorrenza, no a invasioni di campo del ministero Sviluppo economico
COMUNICATO STAMPA O.U.A.
Stralcio
della norma che consente i soci di solo capitale negli studi legali, così come
prevista dal DDL Concorrenza, licenziato dal Consiglio dei Ministri e ora
all'esame delle Commissioni alla Camera dei deputati. Ma anche disponibilità al
dialogo con il Ministero di Giustizia, affinché si avvii una vera
modernizzazione della professione forense. No alle invasioni di campo e ai
colpi di mano dei ministeri economici, anche per evitare le fallimentari
esperienze del passato. Questa le ferme richieste contenute in un documento dell'Organismo Unitario dell'Avvocatura discusso negli Stati Generali
dell'Avvocatura Italiana, riuniti oggi a Roma (realizzato anche un documento
sui “fatti” di Milano con precise richieste sulla sicurezza e le strutture
giudiziarie).
Ai
lavori hanno partecipato il Cnf, la Cassa Forense, il Coordinamento degli Ordini,
numerosi Presidenti degli Ordini forensi di tutta Italia e diverse associazioni
di categoria. All'assise erano anche presenti i rappresentanti di diverse forze
politiche, tra questi per il forum giustizia del Pd, Sandro Favi e Filippo
Marciante, per il partito dei Socialisti Italiani, l’onorevole Marco Di Lello.
“Questa
norma è un pasticcio - attacca Mirella Casiello - non solo perché contraddice i
principi che ispirano la professione forense ma anche perché, così come è stata
formulata, non prevede alcuna limitazione alla presenza di soci di mero
capitale alle società di avvocati e soprattutto non affronta i problemi legati
alla fiscalità e alla previdenza di queste società ‘ibride’ ”.
“Mi
sia permessa un'ulteriore valutazione - prosegue la Presidente OUA -
così com'è stata formulata, la norma rischia di compromettere le garanzie di
rispetto dei principi di equa previdenza, solidarietà generazionale e
imparzialità fiscale per i soggetti operanti, tutti principi osservati
dall’Avvocatura.
“Sulla
base di queste considerazioni - conclude Casiello – si chiede al Governo di
stralciare la norma dal Ddl Concorrenza per riportare la discussione nell'alveo
del Ministero di Giustizia competente. Gli interventi sulla materia non possono
essere adottati senza consultare tutte le componenti dell'Avvocatura che sono,
lo ribadiamo, sempre disponibili al confronto”.
Roma,
16 aprile 2015
mercoledì 15 aprile 2015
Paga mutuo e “sopravvive”, no mantenimento a moglie
Lui
è un maresciallo della Finanza e guadagna poco più di duemila euro al mese.
Lei, invece, lavora come operatrice in un call center. Lui abita nella casa
coniugale. Lei paga un affitto di 900 euro al mese ed è collocataria dei figli.
Chiara la disparità economica tra i due ex coniugi che dovrebbe far sorgere
automaticamente il diritto al mantenimento per l’ex moglie.
Ma
questo solo sulla carta.
L’uomo,
infatti, paga il mutuo sulla casa comune per oltre 600 euro, versa un assegno
di mantenimento mensile ai figli pari a 527 euro e rimborsa mensilmente 140
euro per un finanziamento precedentemente contratto.
Facendo
due conti, dunque, l’assegno per la moglie, fissato dalla Corte d’appello in
400 euro mensili, non è poi così scontato, atteso che all’uomo rimarrebbero per
vivere circa 300 euro al mese!
È
questo il ragionamento seguito dalla Cassazione con sentenza n. 7053 dell’8
aprile 2015, la quale, bacchettando i giudici di merito ha ritenuto fondate le
doglianze dell’uomo e cassato la sentenza d’appello con rinvio per un nuovo
giudizio.
In
particolare, hanno affermato i giudici della sesta sezione civile, ha errato la
corte nell’omettere di considerare gli oneri economici sostenuti dal
ricorrente, giustificando il riconoscimento dell’assegno soltanto sulla
valutazione della situazione economica dei coniugi, senza tenere conto delle
prove documentali prodotte dall’ex marito che dimostravano che il rispettivo
reddito netto era gravato da spese tali (e, in primis, l’accollo totale del
mutuo dell’appartamento acquistato in comproprietà con la moglie) da risultare
insufficiente a far fronte alle esigenze della vita quotidiana.
È
vero, dunque, che la disparità della situazione economica tra i due coniugi è
uno dei fattori determinanti per far maturare il diritto all’assegno di
mantenimento a favore di quello più debole, ma è anche vero, ha concluso la S.C., che nel porre a
confronto entrambe le posizioni reddituali, è doverosa la valutazione, da parte
del giudice, dell’incidenza degli esborsi sulla complessiva situazione
patrimoniale, solo all’esito della quale potrà stabilirsi se ed in quale misura
sorga il diritto alla corresponsione dell’assegno.
Marina Crisafi (da
studiocataldi.it del 10.4.2015)
lunedì 13 aprile 2015
Cartella Equitalia nulla se gli interessi non sono chiari
Comm.
Trib. Prov. Como, sez. III, sent. 4.9.2014 n° 409
È
illegittima la cartella esattoriale di Equitalia se il calcolo degli interessi
non è chiaro.
A
tali conclusioni è giunta una recente pronuncia della Commissione Tributaria
Provinciale di Como (sentenza n. 409/03/14, depositata il 4/09/2014), dove si
chiarisce che “… nonostante la ingente esposizione di interessi e sanzioni
pecuniarie afferente al debito tributario, alcun dettaglio viene fornito circa
il calcolo di detti accessori (durata del ritardo e tasso di interessi), il che
impedisce al contribuente di verificare la correttezza del relativo calcolo, e
quindi, comporta la nullità della cartella”.
I
Giudici di Como, dunque, recepiscono in pieno i dettami della Suprema Corte,
secondo la quale è illegittimo l’atto tributario laddove non consente al
contribuente di poter operare qualsivoglia controllo in merito all’operato
della Amministrazione Finanziaria (sent. Corte Cassazione n. 8651/2009).
Emerge,
quindi, un principio fondamentale secondo cui non esiste una presunzione di
legittimità delle somme pretese dal Fisco, ciò significa che il contribuente
non deve prendere per verità assoluta quanto gli viene richiesto
dall’Amministrazione finanziaria ma anzi deve essere messo nelle condizioni di
verificare ogni singolo centesimo richiesto.
Alla
luce delle predette pronunce, ci si augura che il concessionario della
riscossione possa rendere più chiari gli atti che invia al contribuente, nel
pieno rispetto dei principi espressi dallo Statuto dei Diritti del Contribuente
(si veda articolo 7 della Legge n. 212/2000).
(Da Altalex del 24.2.
2015. Nota di Matteo Sances)
domenica 12 aprile 2015
LE “CASELLE CORRISPONDENZA” SPOSTATE IN BIBLIOTECA
Il Segretario dell’Ordine Avv. S. Walter Toro informa che il servizio di
“Corrispondenza tra Avvocati”, al fine di garantirne la maggiore efficienza e
fruibilità, è stato trasferito dai locali di Segreteria di Presidenza alla
Biblioteca “Nino Magnano di San Lio” dell’ Ordine Forense di Catania.
venerdì 10 aprile 2015
OGGI FIACCOLATA PER LA TRAGEDIA DI MILANO
In
seguito al tragico episodio avvenuto ieri al Tribunale di Milano, che
ha visto coinvolti Avvocati e Magistrati, il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Catania, unitamente all’ANM di Catania, ha
organizzato una fiaccolata per commemorare le vittime e per
sensibilizzare la società civile sulle criticità dell’amministrazione
della giustizia. La fiaccolata si terrà questa sera alle ore 19,30 nel
piazzale del Tribunale. Tutti gli Avvocati sono invitati ad intervenire
per rendere la propria partecipata testimonianza.
giovedì 9 aprile 2015
STRAGE TRIBUNALE MILANO, LA SOLIDARIETÀ DELL’OUA
Mirella Casiello, presidente OUA: “Il
tribunale ormai trincea del disagio sociale e della follia assassina. Gli
operatori della giustizia, avvocati e magistrati, principali vittime di questa
situazione. Grande preoccupazione per il nodo sicurezza”
Il
vice presidente dell’Oua, Pietro Faranda, milanese, su queste tragiche ore al
Palazzo di Giustizia: «Grande dolore per le vittime di questa strage: il
giudice Ferdinando Ciampi, il collega, avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani,
e gli altri quattro cittadini coinvolti, di cui due in ospedale in gravissime
condizioni. Un giorno terribile che speriamo faccia riflettere tutti».
«Il
tragico episodio di Milano – sottolinea Mirella Casiello, presidente Oua -
dimostra come i tribunali, che da sempre sono la “prima linea” della lotta alla
criminalità, siano diventati anche la trincea simbolica del disagio sociale e,
in alcuni casi, della follia assassina. Le conseguenze di questa grave
situazione ricadono sugli avvocati e i magistrati e sul concetto stesso di
giustizia nel nostro Paese».
«Rimane,
comunque, alta la preoccupazione per il nodo sicurezza in un tribunale
importante come quello milanese – conclude Casiello –. Abbiamo, infine, rivolto
la nostra solidarietà oltre che a tutti i familiari delle vittime della strage,
anche al presidente dell’ordine forense meneghino, Remo Danovi e al presidente
f.f. del Tribunale di Milano».
CS OUA 9.4.2015
mercoledì 8 aprile 2015
Il processo civile telematico verso il caos
De Tilla (Anai): abbiamo un universo
normativo a puzzle indecifrabile
normativo a puzzle indecifrabile
Doveva
essere il toccasana per snellire i processi e invece, di fatto, gli avvocati
sono risucchiati nel gorgo del processo telematico. A denunciare la complessa
situazione che sta vivendo la categoria con l'entrata in vigore del processo
civile telematico è l’Anai, l’associazione nazionale degli avvocati italiani.
«Vi sono gravi inconvenienti per la difettosa informatizzazione dell’apparato
giudiziario e per la discordanza di prassi territoriali, si incrementano
notifiche, comunicazioni, depositi, restano quasi ovunque da depositare le
copie cartacee degli atti» denuncia il presidente Anai Maurizio De Tilla. Il
presidente Anai elenca alcuni disservizi: «Alcuni uffici non accettano più atti
cartacei, altri richiedono depositi con modalità tradizionali, magari
accompagnati da supporti, come dischi o chiavette, sui quali caricare il
materiale. Sussistono inoltre disparità di decisioni sulla portata ed
estensione del processo telematico. Ed infatti alcuni giudici ritengono che sia
possibile depositare in via telematica anche gli atti introduttivi della lite.
Cosa succede, poi, se in alcuni uffici mancano gli strumenti informatici per
riceverli?È da considerare nullo l’atto depositato in un formato diverso da
quello previsto? È possibile una rimessione in termini? L'attuazione è resa ancora più complessa -
continua De Tilla - dalle “specifiche tecniche” che impongono che l’atto da
depositare debba essere un file pdf “nativo digitale” ottenuto trasformando
(tramite la funzionalità del pc) un documento peritale. Si consideri che le
decisioni dei giudici, in modo pressoché unanime, hanno stabilito la nullità
degli atti in formati diversi. E ciò anche se la normativa sul processo
telematico non prevede la sanzione della nullità per il mancato rispetto dei
formati. L’avvocatura ha, opportunamente, chiesto protocolli armonizzati o un
unico provvedimento nazionale. Ci sono alcuni tribunali nei quali il P.c.t. non
funziona. In altri tribunali sussistono difficoltà di collegamento al sistema
giustizia in determinati orari. Spesso vi è ritardo nell’accettazione dell’atto
da parte del personale di cancelleria. Per i depositi di decreti ingiuntivi fra
la consegna e l’accettazione a volte decorre anche un mese. L’aggiornamento
software dei tribunali preclude, nel giorno previsto per tale attività, l’invio
e il conseguente deposito degli atti. Non esiste il registro storico degli
invii in caso di sospensione del sistema. I documenti e gli atti depositati
telematicamente nei procedimenti avanti il tribunale non vengono acquisiti
dalle Corti di Appello (salvo poche eccezioni). Siamo in presenza di un
universo normativo a puzzle, spesso indecifrabile, contraddittorio, di
difficile apprensione e consultazione.
Altra anomalia: Ad esempio, il decreto ingiuntivo si presenta in via
telematica ma l’opposizione è cartacea. La citazione, la comparsa di
costituzione sono cartacee, le memorie istruttorie e finali sono telematiche.
La sentenza è telematica, ma l’appello è cartaceo. È cartaceo anche il ricorso
per cassazione. Occorre stoppare tutte
queste anomalie - ha concluso De Tilla - fermiamo il caos del Processo Civile
Telematico e uniformiamo le regole su tutto il territorio nazionale!».
(Da Mondoprofessionisti
del 7.4.2015)
Rumori molesti dei vicini e normale tollerabilità
Cass. Civ. sez. II, sent. n. 6786 del 2.4.2015
Una
tirata di orecchie dalla Corte di Cassazione per i giudici di merito che nel
caso di specie, a seguito di accertamenti disposti per lamentata violazione
dell'art. 844 del codice civile (rumori ed immissioni intollerabili), avevano
negato la rimozione degli apparati di condizionamento d'aria che una gelateria,
sita al piano terra di un complesso condominiale, aveva provveduto ad
installare.
Gli
interessati ricorrevano in Cassazione lamentando che il giudicante non aveva
preso in considerazione alcuni elementi di fatto inerenti alla domanda,
debitamente allegati.
La
norma sopra citata dispone che “il proprietario di un fondo non può impedire le
immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e
simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale
tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”.
E'
fondamentale dunque, in sede processuale, delineare questa soglia di normale
tollerabilità, onde valutare se effettivamente sia stata superata.
La
proprietà, rimarca la Corte,
è qui tutelata nella sua interezza, “con riferimento alle multiformi esigenze
di vita e di piena fruibilità del bene e non dunque solo alla tutela della
salute in quanto tale”.
L'interpretazione
del concetto di normale tollerabilità deve avvenire in senso ampio, pur
mantenendo un collegamento alla norma costituzionale che provvede alla tutela
della salute.
Accertato
il mutamento della “normale qualità della vita” (tenuto conto degli elementi
probatori non esaminati nei gradi di merito) la Suprema corte ha ritenuto
fondate le doglianze del ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
Licia Albertazzi (da
studiocataldi.it del 4.4.2015)
lunedì 6 aprile 2015
Non coerenza studi di settore non basta per accertamento
Comm. Tributaria Reg. Milano sez. Brescia,
sent. 10.10.2014 n° 5136/64/14
Non
basta che il contribuente non risulti congruo e coerente per giustificare
l’accertamento fiscale.
Ciò
è quanto emerge da una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale
di Milano – sezione staccata di Brescia (sentenza n. 5136/64/14), secondo la
quale l’Agenzia delle Entrate non può accertare il reddito del contribuente
basandosi solo sull’incongruità dallo studio di settore.
Il
motivo di questa pronuncia deriva dal fatto che, secondo i giudici lombardi, la
predetta rettifica rientra tra quegli accertamenti presuntivi che richiedono
necessariamente la presenza di INCONGRUENZE tali da sconfessare la contabilità
aziendale (cd. “gravi incongruenze”).
Proprio
su questo punto i giudici chiariscono che “il Legislatore … oltre ad inquadrare
gli accertamenti determinati degli studi di settore tra quelli basati su
presunzioni semplici, ha ulteriormente richiesto, per legittimare
l’accertamento, che vi siano <<gravi incongruenze>> tra i
ricavi/compensi dichiarati e quelli derivanti dagli stessi studi. Sono tali
incongruenze, quindi, a conferire allo scostamento risultante dall’applicazione
degli studi di settore i requisiti di gravità, precisione e concordanza, propri
delle presunzioni semplici. Va inoltre osservato che secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente lo scostamento dagli studi di settore non
costituisce che una presunzione semplice e, come tale, non può giustificare la
rettifica del reddito d’impresa se non è supportato da ulteriori elementi
indiziari (Cass. SU 18/12/2009, sent. n.26635, 26636, 26637, 26638 e, da
ultimo, sez. trib. 6/07/2010, ordinanza n.15905)”.
Nel
caso in questione, invece, l’Ufficio delle imposte non era stato in grado di
evidenziare alcuna grave incongruenza (la contabilità del contribuente ad
esempio risultava formalmente corretta) ma aveva provveduto comunque ad
emettere l’accertamento fiscale.
Per
tali motivi, dunque, i giudici hanno dichiarato l’accertamento illegittimo.
(Da Altalex del 25.2.2015.
Nota di Matteo Sances)
sabato 4 aprile 2015
“Caro Cassa”, in 5mila lasciano la professione
Restare
o abbandonare per non pagare i contributi? È la scelta che circa 50mila
avvocati, destinatari dell’obbligo di formalizzare l’iscrizione alla cassa
previdenza pur avendo un reddito minimo, dovranno compiere entro la fine di
giugno, a pena di cancellazione dall’albo.
Il
termine è quello dei 90 giorni successivi al ricevimento degli “avvisi” inviati
dalla cassa forense, tramite posta certificata, agli avvocati in regola con
l’albo ma non con la previdenza di optare per l’iscrizione all’ente o per le
liste Inps.
In
cinquemila hanno già gettato la spugna, secondo quanto dichiarato dallo stesso
presidente della cassa, Nunzio Luciano in un’intervista al Sole24ore
(“Intervista a Nunzio Luciano: «Opzione per la Cassa degli avvocati con reddito minimo»”). Ma
tale percentuale, vista la platea di 50mila non preoccupa l’ente previdenziale
che parla di “scommessa vinta” anche se le defezioni dovessero aumentare fino
alla fine di giugno.
L’obbligo
di iscrizione per gli avvocati all’ente previdenziale e del relativo pagamento
dei contributi, indipendentemente dalla capacità reddituale, si ricorda, è
stato fissato, con l’entrata in vigore del relativo regolamento attuativo in
vigore dal 21 agosto 2014, dall’art. 21, commi 8 e 9, della riforma forense (l.
n. 247/2012).
La
norma prevede, infatti, che l’iscrizione all’albo professionale comporti
l’iscrizione contestuale obbligatoria alla cassa nazionale di previdenza
forense e della corresponsione dei contributi previdenziali, a prescindere dal
reddito, a pena di cancellazione dall’albo stesso.
Per
chi è in possesso di requisiti minimi di reddito (inferiore a 10.300 euro
annui), il regolamento prevede pagamenti agevolati, pari a 700 euro l’anno
quale contributo soggettivo, in luogo dei 2.800 ordinari, un quarto cioè della
contribuzione minima.
Ma,
per contro, anche il trattamento previdenziale sarà proporzionale a quanto
versato, seppur è prevista la copertura nei casi di malattia grave o calamità.
Previste
anche rateizzazioni dei contributi e misure di microcredito, oltre al
monitoraggio dei fondi europei e a iniziative sul welfare.
Ma
a quanto pare tutto questo non basta e il prezzo da pagare è troppo alto
(considerato che alle quote previdenziali va aggiunta anche quella per l’albo
richiesta regolarmente dall’ordine), per quei 5.000 (salvo aumenti) costretti a
rinunciare ad esercitare la professione.
Marina Crisafi (da
studiocataldi.it del 2.4.2015)
giovedì 2 aprile 2015
Anche con pistola giocattolo la minaccia è aggravata
Cass.
sez. V Pen., sent. n. 13915 dep. 1°.4.2015
In
tema di minaccia, ricorre l’aggravante dell’arma anche nel caso di una pistola
giocattolo, in quanto qualsiasi oggetto che abbia all’apparenza le caratteristiche
intrinseche di un’arma può provocare nel soggetto passivo un effetto
intimidatorio più intenso.
Lo
ha ribadito la Corte
di Cassazione nella sentenza n. 13915, depositata il 1° aprile 2015.
(Da
dirittoegiustizia.it del 2.4.2015)
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