sabato 14 aprile 2012

Avvocati sanzionati per un box pubblicitario

CNF, decisione 29.10.2011

La decisione 29 ottobre 2011 del CFN smonta la tesi – largamente diffusa, benchè infondata – secondo cui le riforme liberalizzatrici consentirebbero ai professionisti in genere (e in particolare agli avvocati) l’assoluta libertà di pubblicizzare l’attività professionale.
E’ noto che la visione tradizionale risalente al secolo scorso, in base alla quale ogni condizionamento pubblicitario è deontologicamente deprecabile e sanzionabile[i], è superata dagli eventi.
Ricordiamo, in sintesi, che le regole deontologiche sono passate dal “divieto di pubblicità” previsto nel previgente art. 17 del Codice Deontologico, considerato baluardo della dignità professionale, all’attuale norma che consente all’avvocato di “dare informazioni sulla propria attività professionale” in vario modo, con verifica in sede disciplinare della correttezza dei metodi scelti.
La regola deontologica distingue la pubblicità dalla informazione, e lo scopo è quello di evitare le pratiche non rispettose del decoro e della dignità.
In presenza di regole legislative specificamente rivolte alla pubblicità dei professionisti, occorre quindi valutare se i canoni deontologici siano un residuo del passato (e risultino, come tali, illegittimi per violazione della legge primaria) ovvero se esplicitino ciò che già il legislatore aveva indicato.
La prima “spallata” all’orientamento tradizionale era contenuta nel ben noto “decreto Bersani”, ancora vigente (decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in Legge 4 agosto 2006 n. 248), che all’art. 2 così prevede:
1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonchè al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:
a) ... (omissis);
b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine;
c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità.
Più recentemente, la c.d. ''Manovra bis'' (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), all’art. 3, lettera g) ha così stabilito:
la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie.
La disciplina della comunicazione pubblicitaria nell’attività forense in Italia ci induce quindi a dimenticare la posizione tradizionale di divieto assoluto di utilizzo del mezzo pubblicitario, ma non comporta (sotto questo profilo) l’assimilazione della professione all’attività di impresa.
Le recenti norme di legge sopra riportate ci dicono chiaramente non solo che (come spesso si ripete) è vietata la pubblicità comparativa, ma che è anche vietata la pubblicità nel senso tradizionale.
Infatti la pubblicità consiste nell’esaltazione di un nome, di un marchio, anche senza evidenziare le sue caratteristiche: basta guardarsi intorno, nelle nostre città, per rendersene conto.
Tutto questo non è consentito a un avvocato: sarebbe certamente illecito un enorme cartellone pubblicitario con la sola scritta “Studio legale Ciavola”, perchè quella consentita non è la pubblicità in genere, ma solo quella che informi su: l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi.
La decisione adottata dal CNF e qui commentata appare quindi corretta, se è vero in punto di fatto (v. motivazione) che “il messaggio pubblicitario inserito nel box ... era connotato da slogan sull'attività svolta dai ricorrenti, ai quali si accompagnava una grafica tale da porre un’evidente enfasi sul dato economico e su altre informazioni rappresentate in modo da costituire una indebita offerta di servizi e/o prestazioni professionali dirette all'indistinto e scarsamente competente pubblico dei lettori. I contenuti proposti con l'inserto pubblicitario apparivano equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo consentito”.
Ed ancora:
“la pubblicità posta in essere era da considerarsi impropria e quindi operata in violazione delle norme deontologiche in relazione al contesto in cui appariva e al contenuto, da ritenersi accattivante, per il messaggio circa una competitività sui prezzi nonché per la dimensione variabile dei caratteri”.
Anche quest’ultimo passo è decisivo: il messaggio promozionale classico è gridato, evidenziato, scritto a caratteri enormi, ma tutto ciò non è informazione bensì il contrario, risultando tale messaggio “volto a persuadere il cliente, eccedendosi però l'ambito informativo previsto dalla norma deontologica”.
Inoltre – questo è l’aspetto decisivo, con riferimento alle molteplici pubblicità che leggiamo su internet o sulla stampa – le norme sopra richiamate si riferiscono espressamente a professionisti singoli, ovvero associati, ma sempre fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati.
Tutto ciò giustifica la previsione dell’attuale art. 17 bis del codice deontologico forense:
“L'avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione tempestiva al Consiglio dell'Ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espresso.
Il professionista è responsabile del contenuto del sito e in esso deve indicare i dati previsti dal primo comma.
Il sito non può contenere riferimenti commerciali e/o pubblicitari mediante l'indicazione diretta o tramite banner o pop-up di alcun tipo”.
Insomma quel che sembra emergere dalla normativa vigente è la necessità che l’avvocato si identifichi con il proprio nome, anche usando un logo come afferma il codice deontologico, ma sempre spendendo la propria fama (se c’è), i propri titoli, e anche i propri prezzi, se competitivi.
Da ciò discende il persistente e legittimo divieto, ampiamente previsto e ricavabile anche dalle recenti norme liberalizzatrici, di propagandare servizi legali in modo generico e senza nomi (il nostro staff di esperti avvocati; un esercito di avvocati; ecc.); nonchè di propagandare, daa dignità professionale, i legali a prezzi scontatissimi, non tanto per la viltà del prezzo (pareri a 20 euro, ma solo per oggi), quanto perchè l’avvocato resta anonimo nella fase dell’offerta e finisce per violare anche l’art. 19 del codice deontologico, utilizzando un agente che ovviamente incasserà una percentuale del compenso.
Ed allora, è bene ricordare che l’orientamento del secolo scorso, già definito come superato, può ancora emergere come utile parametro per verificare la rispondenza delle diverse condotte ai canoni deontologici, affermando ad esempio che:
non è consentito vantare specializzazioni inesistenti nè titoli rilasciati da privati per i quali non vi è garanzia pubblica di veridicità; queste sono informazioni fuorvianti ed equivoche circa le effettive capacità professionali del professionista[ii];
non sono consentite informazioni false[iii];
è ancora vigente il divieto di accaparramento di clientela (art. 19 Codice deontologico), soprattutto se avviene con mezzi contrari ai principi deontologici[iv].
Quanto fin qui esposto è confermato dalla Cassazione anche in sentenze molto recenti, sia sotto il piano deontologico che, addirittura, sotto il profilo penale.
Per il primo aspetto ricordiamo Cass., sez. unite, sentenza 18 novembre 2010, n. 23287:
“l’organo professionale (prima ancora di effettuare una valutazione dei fatti storici) concretizza la norma al caso specifico, individuando un precetto per esso.
Il precetto della norma generale di cui all’art. 38 del R.d.l. n. 1578/1933, è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.
Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure - come ogni precetto - ancora in astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del decoro e della dignità professionale”.
“È vero infatti, che l’art. 2 del d.l. n. 223/2006, conv. con l. n. 248/2006, ha abrogato le disposizioni legislative che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa.
Sennonché diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e il decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare di cui all’art. 38, c. 1, r.d.l. n. 1578/1933”.
Sotto il profilo penale, Cass. sez. unite penali, 23 marzo 2012, n. 11545 ha individuato un’interpretazione estensiva dell’art. 348 cod. pen., enunciando il seguente principio di diritto: “Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell'art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
Pertanto lanciare un messaggio pubblicitario equivoco, ridondante, anonimo per quanto riguarda i nomi dei professionisti, e riferito a una sigla o ad una società che presta servizi di vario genere (vi assicuriamo sconti su tutto) può costituire, a parere di chi scrive, un illecito non solo deontologico ma anche penale, poichè l’attività protetta chiesta da un ignaro cittadino che crede di rivolgersi a un avvocato finisce per essere svolta (e il compenso percepito, almeno in parte) da chi non ha il titolo, o lo possiede ma lo sfrutta con metodi deontologicamente scorretti.

Antoni Ciavola (da Altalex del 4.4.2012)

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[i] Esempio significativo è la sentenza CNF 23 aprile 1991, n. 56: “il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto della Avvocatura italiana, che nel corso di decenni ha sempre confermato il rifiuto di forme di emulazione diverse da una dignitosa gara di meriti dimostrati attraverso le opere e lo studio”.

[ii] C.N.F. 23 novembre 2000, n. 176.

[iii] C.N.F. 25 febbraio 1972.

[iv] C.N.F., 19 ottobre 2001, n. 217.