martedì 30 settembre 2014

ELEZIONI AGA IL 25 OTTOBRE



In applicazione dell'art. 2 del regolamento elettorale dell'AGA, col presente avviso si annuncia che le elezioni per il rinnovo del consiglio direttivo -biennio 2014/2016- si terranno, presso la sede dell’Ufficio del Giudice di Pace di Giarre, Sabato 25 Ottobre 2014, dalle ore 9 alle ore 11.
Chi volesse candidarsi, purchè in regola con l'iscrizione dello scorso anno, deve comunicarlo per iscritto al Presidente uscente Avv. Fiumanò entro e non oltre il 15.10.2014 (art. 4 Reg. elett.).
Per ulteriori chiarimenti ed informazioni si rimanda al Regolamento elettorale approvato il 17.4.2008, visionabile nella sezione "Documenti" del sito www.agagiarre.it.

“Lei non sa chi sono io” è reato di minaccia

Irrilevante l'indeterminatezza del male minacciato

Perché si possa integrare il reato di minaccia è sufficiente la semplice attitudine ad intimorire anche se il male minacciato risulta generico come nel caso in cui ci si limiti a dire "tu non sai chi sono io", "te la farò pagare".

Anche una minaccia generica come questa risulta idonea a determinare un turbamento nella vittima perché, spiega la Corte, "l’integrazione del reato di minaccia richiede che si abbia una limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato alla vittima, mentre non è necessario che uno stato di intimidazione si verifichi in concreto, essendo sufficiente la mera attitudine della condotta ad intimorire". Secondo la cassazione risulta anche "irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente".

La vicenda presa in esame dai giudici di Piazza Cavour riguarda una lite intercorsa tra due donne per via di un parcheggio.

Durante la lite l'imputata aveva detto alla persona offesa che non aveva capito con chi aveva a che fare e che glie l'avrebbe fatta pagare.

 Aveva anche aggiunto che non gli conveniva mettersi contro di lei avendo un fidanzato avvocato.

L'imputata aveva tentato di difendersi mettendo in risalto il carattere generico delle parole pronunciate che, a suo dire, non sarebbero idonee a determinare nel soggetto passivo un qualunque stato di timore.

Una tesi che non ha fatto breccia nei giudici di Piazza Cavour secondo i quali neppure il fatto che le due donne si siano lasciate andare ad intemperanze verbali reciproche può fa venir meno l’autonoma rilevanza di espressioni intimidatorie.


(Da studiocataldi.it del 24.9.2014)

domenica 28 settembre 2014

martedì 23 settembre 2014

L’espressione “vaffa” è reato di ingiuria

Rumori molesti in condominio, 
tra due inquilini volano parole grosse e offese.
La Cassazione conferma: 
il “vaffa” è reato di ingiuria da Codice penale

Dagli studi condotti sui comportamenti umani è stato rilevato che siano simili a quelli degli animali con la differenza che l’ essere umano impara dagli errori usando la ragione.

Tuttavia, a volte accade che gli impulsi primordiali hanno il sopravvento con conseguenze catastrofiche per chi ne viene a contatto.

E’ quello che sarà accaduto tra due inquilini che in seguito al rimprovero verbale di uno per rumori molesti proveniente dall’appartamento dell’ altro, quest’ ultimo proferiva frasi ingiuriose.

Nel nostro ordinamento, il reato di ingiuria trova la sua disciplina nell’art. 594 c.p. nel quale si legge: “chiunque offende l’ onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516”.

Esso si colloca tra i diritti della personalità, quali diritti opponibili erga omnes, indisponibili, non patrimoniali, e imprescrittibili.

Ai fini della configurabilità del reato occorre che sussistano sia l’elemento oggettivo, costituita dall’offesa all’onore o al decoro di una persona, sia l’elemento soggettivo costituito dalla sussistenza del dolo generico, inteso come volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza dell’ attitudine offensiva delle parole usate.

L’onore si identifica con il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale, la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi.

Cosi anche il decoro, inteso come lo stato individuale esteriore risultante dal riguardo elementare che gli uomini sono soliti osservare reciprocamente verso la personalità morale di ciascuno di essi.

Ciò posto, recentemente la Cassazione con sentenza n. 35669 del 13 agosto 2014 ha avuto modo di ribadire che: “l’espressione utilizzata non è soltanto indice di cattiva educazione e di uno sfogo dovuto ad una pretesa invadenza dell’ offeso, ma anche del disprezzo che si nutre nei confronti dell’ interlocutore, precisando, pur sempre, tuttavia, che spetta ai giudici di merito, tenere doverosamente conto del contesto nei quali l’ espressione è stata pronunciata”.

La ratio giustificatrice che ha portato la Suprema Corte a confermare il giudizio di secondo grado, risiede nel fatto che i rapporti di vicinato devono essere improntati ad un maggiore rispetto reciproco tra le persone, che al contrario porterebbe a un impossibilità di convivenza, che, invece, è necessitata dalla quotidiana relazione nascente dal fatto abitativo, che deve essere garantita (Sez. V, 29 /10/2009 , n. 3931).


(Da leggioggi.it del 2.9.2014)

Matrimonio nullo se lui è un 'mammone'

Cass. Civ., sez. I, sent. n. 19691 del 18.9.2014

Piuttosto spesso la Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi dei figli bamboccioni.

A quanto pare però ci sono anche quelli che pur avendo deciso di convolare a nozze non riescono proprio fare a meno della propria mamma.

E in un caso affrontato dai giudici di piazza Cavour questo legame simbiotico con la madre ha comportato la nullità del matrimonio.

La Corte d'appello si era occupata di una richiesta di delibazione di una sentenza ecclesiastica che aveva considerato rilevante l'accertamento di una patologia a carico di uno dei coniugi (il legame morboso con la madre) ed aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario.

Secondo i giudici ecclesiastici il marito aveva sviluppato una dipendenza dalla figura materna tale da impedirgli di adempiere a seppur minime manifestazioni di affetto verso la moglie - necessarie a preservare l'equilibrio psicofisico della coppia.

Ciò integrerebbe un vera e propria patologia (di cui il soggetto stesso, sino alle prime manifestazioni, ignorava l'esistenza). Legittima dunque la richiesta di dichiarare la nullità del matrimonio.

Nella parte motiva della sentenza, la Corte di Cassazione in ogni caso precisa che il giudice italiano (nella specie, la Corte d'appello territorialmente competente) nel decidere sulla delibazione non può sindacare nel merito le valutazioni operate dal tribunale ecclesiastico.

Altra particolarità del caso è che la nullità del matrimonio non era stata chiesta dalla ex consorte ma dallo stesso marito "mammone".

In merito la Corte di Cassazione chiarisce che non c'è nell'ordinamento nazionale "un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato" e quindi sia lui che lei possono chiedere che sia dichiarata la nullità.


Licia Albertazzi (da studiocataldi.it)

lunedì 22 settembre 2014

Omesso versamento Iva: prime assoluzioni

Trib. Lecce, sez. GIP, sent. 8.7.2014 n° 436

Non è più reato il mancato versamento dell’Iva per importi superiori a 50.000,00 euro e fino a 103.291,38 euro.

A tali conclusioni è giunto il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lecce (GIP), Dott.ssa Simona Panzera, la quale, con sentenza 8 luglio 2014, n. 436, ha stabilito che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale del 7 aprile scorso – sentenza che ha dichiarato incostituzionale la predetta disposizione – il fatto non è più previsto come reato.

Il Giudice, in particolare, ha chiarito espressamente che “… la condotta contestata, ossia il mancato versamento nei termini di legge dell’acconto IVA relativo all’anno d’imposta 2007 per un ammontare pari ad euro 83.131,00 non risulta più punibile ai sensi dell’art. 10 ter Dl.vo n. 74/2000 a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 80/2014 del 7/04/2014.

Invero, con la citata sentenza la Corte ha dichiarato, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, la illegittimità costituzionale della norma incriminatrice di cui all’art. 10 ter Dl.vo n. 74/2000 nella parte in cui punisce l’omesso versamento dell’IVA per importi non superiori ad euro 103.291, 38. Tanto premesso, le delineate risultanze processuali ostano all’apertura della fase dibattimentale ed impongono che nei confronti dell’odierno imputato venga pronunziata, ai sensi dell’art. 425 cpp sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato…”

Il GIP di Lecce, dunque, ha applicato correttamente i dettami forniti dalla Corte Costituzionale che ha giustamente dichiarato incostituzionale la norma penale/tributaria.

In effetti, come appunto hanno rilevato i giudici della Corte Costituzionale, la strategia politico-criminale del decreto legislativo n. 74/2000 era quella di focalizzare l'intervento repressivo soprattutto sulla fase dell'autoaccertamento del debito di imposta, ossia della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

È avvenuto, quindi, che fino al 17 settembre 2011 (data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal Dl n. 138) si puniva così l'omesso versamento dell'Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo di imposta, a 50.000 euro mentre non risultava reato la dichiarazione infedele e l'omessa dichiarazione dei redditi (in pratica veniva punito il povero contribuente che dichiarava il debito Iva ma non riusciva a pagarlo diversamente dal vero evasore che invece non presentava alcuna dichiarazione al Fisco oppure presentava la dichiarazione indicando dati non corretti).

Da ciò, pertanto, è derivata la conseguenza «paradossale» evidenziata dai giudici della Corte Costituzionale.

Ci si augura dunque che tutti i Tribunali seguano l’orientamento del Giudice di Lecce recependo velocemente tali dettami.


(Da Altalex dell’8.9.2014. Nota di Matteo Sances)

giovedì 18 settembre 2014

Spaccio di lieve entità, regola della legge più favorevole

Con la sentenza n. 38137 del 17 settembre 2014 la Cassazione, dopo aver preso atto del nuovo schema normativo sulla distinzione fra droghe leggere e pesanti, risultante anche a seguito della sentenza costituzionale n. 32/2014, ha annullato senza rinvio il patteggiamento del pusher.
E ciò, sottolineando la necessità di una nuova quantificazione della pena che tenga conto del fatto che la fattispecie di spaccio di lieve entità è divenuta reato autonomo da mera circostanza attenuante, con inevitabili ricadute sul computo della pena specie in caso di continuazione.

L’annullamento del precedente patteggiamento, continua la Corte, scatta perché nella specie di fronte alla volontà abdicativa non può darsi per presunta la conoscenza della novella o della pronuncia di incostituzionalità favorevole dal momento che essa si è formalizzata solo dopo che la dichiarazione dell’imputato è pervenuta in cancelleria.

Quindi, nel caso di specie, poiché la dichiarazione di rinuncia risaliva ad un momento antecedente rispetto alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza ‘demolitoria’ della Corte costituzionale che, ricordiamolo, ha dichiarato l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi nella parte in cui equiparava droghe leggere e pesanti, l’imputato ha beneficiato della normativa più favorevole, e la pena concordata sulla base dei previgenti limiti edittali non ha valore di legge.

La questione torna al Tribunale per consentire una nuova quantificazione della pena.


Lucia Nacciarone (da diritto.it del 18.9.2014)

mercoledì 17 settembre 2014

Minore cade da giostra, Comune non responsabile

Cass. Civ. Sez. III, sent. 29.5.2014, n. 18167

Il 29 maggio 2014, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla questione riguardante la responsabilità del Comune in seguito alla caduta di un minore da una giostra sita all’interno di un giardino.

Nel caso in esame, gli attori chiedevano al Tribunale di Lanciano la condanna del Comune al risarcimento dei danni conseguenti ad una caduta del figlio minore mentre stava giocando su un cavallo a dondolo in un parco comunale, riportando danni permanenti al volto. Il Tribunale rigettava la domanda compensando le spese.

La Corte d’Appello dell’Aquila respingeva l’appello dei genitori, confermando la sentenza impugnata e condannando gli appellanti alle spese.

Pur dovendosi applicare l’articolo 2051 del codice civile (danno cagionato da cosa in custodia), prima il Tribunale, poi la Corte avevano rilevato che “le giostre erano state installate di recente ed erano pienamente conformi alla normativa in tema di sicurezza, tanto che non rappresentavano alcun potenziale pericolo per l’incolumità fisica dei bambini”.

Nel caso di specie, secondo i giudici, l’incidente era da ricondursi all’insufficiente attenzione da parte della madre del piccolo, sicché il danno non poteva essere ricondotto a responsabilità del Comune.

Gli attori, quindi, hanno proposto ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila, seguito da un controricorso del Comune.

Ricordiamo che la Corte Suprema si è pronunciata svariate volte su casi simili. In proposito sono da citare la Sentenza del 6 agosto 1997, n. 7276, che riguardava il caso di un minore caduto da un’altalena in un parco comunale, e la recentissima Sentenza del 26 maggio 2014, n. 11657, relativa alla caduta da uno scivolo all’interno di un giardino comunale in ora notturna.

Nei casi richiamati, la Cassazione ha affermato che l’utilizzo delle strutture esistenti in un parco giochi non si connota, di per se, per una particolare pericolosità, se non quella che normalmente deriva da simili attrezzature, le quali presuppongono, comunque, una qualche vigilanza da parte degli adulti.

Dunque, la Corte sottolinea che un genitore, o comunque un adulto, che accompagna un bambino in un parco giochi deve tener presenti i rischi che ciò comporta, non potendo poi invocare come fonte dell’altrui responsabilità l’esistenza di una situazione di pericolo che egli era tenuto doverosamente a calcolare.

In forza delle suddette motivazioni, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso, in quanto non sussiste alcuna violazione di legge nella sentenza impugnata, e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.


Francesca Russo (da filodiritto.com del 12.9.2014)

martedì 16 settembre 2014

Maleducati su Facebook, reato di molestie

Con quella bocca può dire ciò che vuole" recitava la giovane Virna Lisi nel Carosello del 1958 che pubblicizzava il dentifricio Chlorodont. Ma se a Virna Lisi veniva concessa questa licenza ciò non significa che il solo fatto di avere una bocca ci autorizzi a dire di tutto.
Le parole che offendono, in modo più o meno esplicito,  non possono essere mai giustificate quindi non ci si può difendere dicendo :"e' colpa sua se va in giro così..." .

Bisogna dunque fare attenzione ai commenti che si fanno sulle bacheche altrui di Facebook ,perché anche esprimere un parere negativo sull'abbigliamento di una ragazza, ad esempio dicendole: ma come ti vesti? Vai in giro vestita così ? potrebbe costare una condanna per il reato di molestie di cui all'articolo 660 del codice penale.

Ve precisato che nei casi più gravi di turpiloquio , offese esplicite o velate possono configurarsi altre ipotesi di reato come l'ingiuria( se l'insulto viene fatto solo in presenza della persona offesa, ad esempio in una conversazione in chat) si ha invece diffamazione se l'offesa alla persona viene fatta davanti a più persone ad esempio proprio su una bacheca Facebook o in altri contesti pubblici.

È vero, viviamo in una società in cui il pettegolezzo sembra dilagare molto di più che in passato, forse proprio per la complicità dei social network che se da un lato hanno avuto il merito di far conoscere o far ritrovare persone lontanissime, dall'altro sono diventati una immensa vetrina attraverso la quale tutti possono accedere alla vita privata degli altri.

Il caso di cui si è occupato la Cassazione (sentenza  n. 37596 del 12 settembre 2014) riguarda proprio un commento apparso sulla bacheca di Facebook di una ragazza.

La donna aveva postato una sua foto che la ritraeva con una evidente scollatura e ciò aveva dato adito a un pesante commento da parte di un uomo che oltretutto si era nascosto dietro l'anonimato di un nickname.

Con questa pronuncia la Prima sezione penale della corte di cassazione ha ricordato che Facebook deve essere considerato "luogo aperto al pubblico" proprio perché l'accesso è consentito a chiunque utilizzi la rete. Ne discende che, in casi del genere, può configurarsi il reato previsto e punito dall'articolo 660 del codice penale.

Insomma, spiega la Corte,  Facebook è una vera e propria "piazza virtuale" che consente "un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare".

A questo punto siamo tutti avvertiti.

Meglio tenere a freno la lingua perché non dobbiamo dimenticare che le parole, a volte, possono ferire più di uno schiaffo.


Barbara Pirelli (da studiocataldi.it)

lunedì 15 settembre 2014

Semplificazione per separazione e divorzio

Via libera alla "negoziazione assistita"

Il decreto legge in materia di Giustizia approvato più di due settimane fa dal Consiglio dei Ministri, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e, per alcune parti, è già operativo. Una di queste, prevede la semplificazione delle procedure di separazione e divorzio, grazie al ricorso a quella che è stata definita “negoziazione assistita”.

In sostanza, la coppia che decide di separarsi o divorziare consensualmente, lo potrà fare senza alcuna necessità di rivolgersi al Tribunale, dato che sarà sufficiente sottoscrivere il relativo accordo, firmato anche  dall’avvocato, e poi trasmetterlo in copia autentica, nel termine di 10 giorni, all’ufficiale delle stato civile del comune dove è stato iscritto il matrimonio, oppure “trascritto” in caso di matrimonio concordatario. Sarà, anzi, possibile rivolgersi direttamente all’ufficiale dello stato civile, anche senza l’intervento del legale. Ne dà notizia il Corriere della Sera.

Qualcuno ha subito definito la modifica una sorta di “rivoluzione”, sottolineando che si potrà così evitare di ricorrere al divorzio ottenuto all’estero, grazie ad una Direttiva UE del 2001, che rende possibile la convalida del provvedimento ottenuto in uno Stato membro, dopo avere ottenuto la residenza nello stesso. In realtà, gli esperti del settore -come il noto “matrimonialista” Cesare Rimini- fanno notare che se si vuol proprio parlare di rivoluzione, lo si può fare da un punto di vista più concettuale, o meglio “ideologico”, in relazione alle storiche “spaccature” trasversali provocate dalle battaglie per la legge sul divorzio e poi sul referendum per abrogarla.

In pratica, la nuova normativa semplifica “quello che è già abbastanza facile”, perché le procedure consensuali godono già adesso di una corsia preferenziale in quasi tutti i tribunali del Paese. Mentre, invece, non cambia nulla quando manca il completo accordo dei coniugi, rendendo così indispensabile il ricorso alla separazione o al divorzio “giudiziale”, con conseguente allungamento dei tempi.

Non cambia nulla nemmeno in relazione ai tempi necessari per richiedere il divorzio (tre anni dalla separazione); almeno fino a quando il Senato non avrà approvato (sempre che lo faccia senza modifiche) il provvedimento già passato in prima lettura alla Camera dei Deputati. Una volta approvata in via definitiva, basteranno sei mesi dalla separazione consensuale ed un anno da quella giudiziale, per ottenere il divorzio.

Va peraltro sottolineato che questa semplificazione nelle procedure, già entrata in vigore con il decreto legge pubblicato venerdì 12 settembre sulla G.U., non riguarda i casi in cui ci siano figli minori; oppure anche maggiorenni, se affetti da gravi handicap o non autosufficienti economicamente.

In conclusione, il c.d. “divorzio fai da te”, facilita, semplifica, velocizza e rende certamente più economica la separazione ed il divorzio; ma solo in caso di accordo consensuale dei coniugi ed in assenza di figli minori o anche per i maggiorenni, nei casi specifici  appena citati.

In pratica, non è una rivoluzione; ma è certamente una modifica che -anche se limitata ai casi indicati- va certamente nella direzione voluta da chi auspica una  “semplificazione” delle procedure, dei tempi e dei costi della giustizia civile.


Moreno Morando (da ilquotidianodellapa.it del 14.9.2014)

Contumace il convenuto costituitosi solo in via telematica



Trib. Padova, ord. 1.9.2014

Il Tribunale di Padova, con ordinanza 28 agosto-1° settembre 2014, ha dichiarato inammissibile il deposito telematico della comparsa di costituzione e risposta non essendo tale tipologia di atto presente tra quelli indicati nel decreto ex art. 35, DM 44/11, con conseguente dichiarazione di contumacia della parte così costituitasi.
Le motivazioni poste dal Giudicante a supporto della decisione adottata non appaiono assolutamente condivisibili.
Il Giudice, correttamente, osserva che:
    il procedimento era stato iscritto a ruolo dopo il 30 giugno 2014 applicandosi quindi le novità introdotte dal DL 90/14 convertito nella L. 114/14;
    tra gli atti che l’art. 16 bis del DL 179/12 impone di depositare esclusivamente in via telematica non vi sono gli atti introduttivi del giudizio essendo obbligatorio, invece, il deposito telematico dei soli atti endoprocedimentali;
    il DL 179/12 nulla prevede circa il deposito degli atti introduttivi delle parti;
    sancire l’obbligo del deposito telematico di alcuni atti non significa vietare l’utilizzo di quel medesimo canale comunicativo anche per altri atti ma solo statuire che, alcuni atti, nei procedimenti iniziati dopo il 30 giugno 2014 devono essere depositati attraverso modalità telematica;
    vigendo nel nostro sistema processuale il principio della libertà delle forme, laddove non diversamente stabilito, l’obbligo di utilizzare un certo strumento di deposito non può equivalere, nel silenzio della legge, a statuire il divieto di utilizzo di quel medesimo strumento per gli atti introduttivi, laddove invece per gli atti endoprocedimentali è addirittura obbligatorio con ciò essendo evidente come il deposito telematico sia reputato idoneo dal legislatore a raggiungere lo scopo perseguito dalla norma, ovvero consentire alla parte di depositare l’atto processuale nel rispetto del principio del contraddittorio.
Il ragionamento del Giudicante, così come sopra descritto è, fino a questo momento, assolutamente condivisibile e, ad avviso di chi scrive, poteva essere sufficiente per affermare l’ammissibilità del deposito telematico della comparsa di costituzione e risposta.
Ritiene invece, al fine di decidere se il deposito degli atti introduttivi possa avvenire per via telematica, di dover prendere in esame l’art. 35 del DM 44/11 nonché gli artt. 166 e 167 c.p.c.
E’ da questo momento in poi che, quanto osservato dal Giudice, appare assolutamente privo di qualsiasi fondamento giuridico.
Ritiene infatti il Giudicante, richiamando l’art. 35 del DM 44/11, che tale norma, oltre a disporre al comma 1 che “l'attivazione della trasmissione dei documenti informatici da parte dei soggetti abilitati esterni e' preceduta da un decreto dirigenziale che accerta l'installazione e l'idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio” conferisca al Direttore del DGSIA (la Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati) anche il potere, di indicare espressamente la tipologia degli atti per i quali sia possibile procedere al deposito telematico se è vero come è vero che, nel richiamare il decreto ex art. 35, DM 44/11 rilasciato al Tribunale di Padova, non esita a mettere in evidenza come gli atti “autorizzati” ad essere depositati telematicamente e quindi, a suo dire, aventi il cd. “valore legale” siano solo: comparse conclusionali e memorie di replica, memorie autorizzate dal Giudice, memorie ex art. 183 comma 6° c.p.c. per i procedimenti contenziosi civili e del lavoro.
Sul punto è fondamentale evidenziare come ad oggi, nel nostro ordinamento, non sia possibile rinvenire norma alcuna – legislativa o regolamentare – che attribuisca alla DGSIA il potere di stabilire e indicare quali atti a “valore legale” siano validamente depositabili in via telematica, limitandosi le norme (in particolare l'art. 35 del DM 44/2011) a indicare che a tale organo spetti esclusivamente di accertare e dichiarare “l'installazione e l'idoneità' delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità' dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio".
Riassumendo, nel nostro ordinamento giuridico:
    non esiste norma che conferisca a DGSIA il potere di indicare quali siano gli atti da depositarsi telematicamente e,
    non esiste norma che preveda e riconosca giuridicamente quello che, impropriamente, viene definito “valore legale”.
Il Giudicante, erroneamente, ritiene invece di avvalersi di questo elemento di valutazione per poter dichiarare non legittimo l’invio telematico della comparsa di costituzione e risposta poiché avvenuto mediante uno strumento di comunicazione privo di valore legale con conseguente declaratoria di inammissibilità della comparsa di costituzione per non essere questo specifico atto processuale ricompreso nel decreto di cui all’art. 35, DM 44/11.
Si omette ogni commento in merito al fatto che, ad avviso del Giudice di Padova, sarebbe altresì privo di valore legale anche lo strumento di comunicazione evidenziando, sul punto, solo che di tale mezzo è proprio DGSIA ad attestarne, con decreto dirigenziale, l’installazione e l’idoneità.
Ad avviso del Giudice, mancando presso il Tribunale di Padova, l’autorizzazione ex art. 35, DM 44/11 per il deposito telematico della comparsa di costituzione e risposta lo stesso, ai fini della sua ammissibilità, deve essere considerato, per analogia, a quello del deposito cartaceo inviato a mezzo posta essendo la mail certificata, così come la raccomandata, due mezzi di comunicazione e, conseguentemente, valutarne la legittimità applicando la disciplina generale sulla costituzione delle parti così come disposta dagli artt. 166 e 167 c.p.c. nel giudizio ordinario di cognizione.
A tal proposito il Giudice osserva che:
    1) in tali articoli nessun riferimento viene fatto al PCT;
    2) il deposito cartaceo in cancelleria, consentendo a quest’ultima il controllo dei documenti offerti in comunicazione, sarebbe posto anche e soprattutto a garanzia della regolarità del contraddittorio in assenza del quale non potrebbe darsi corso al procedimento essendo il contraddittorio direttamente tutelato dal secondo comma dell’art. 111 della Costituzione.
Nel rilevare ciò il Giudicante equiparando, in sostanza, il deposito effettuato tramite servizio postale con quello effettuato tramite PCT, dimentica che, in quest’ultimo, si ha un duplice controllo: il primo, effettuato automaticamente dal software del Ministero della Giustizia a seguito del quale viene inviata al mittente una PEC contenente i relativi esiti e, il secondo, da parte della cancelleria la quale, dopo averlo effettuato, accetta definitivamente l’atto inviato telematicamente comunicando al mittente il perfezionamento del deposito; a ciò si aggiunga che, quanto depositato telematicamente è, dopo l’accettazione del cancelliere, immediatamente visibile alle altre parti costituite mediante il sistema “Polisweb” con il vantaggio che le stesse parti possono effettuare tutti i controlli in relazione a quanto depositato dalla controparte senza doversi recare fisicamente in cancelleria e quindi con modalità più agevole e rapida rispetto al deposito tradizionale.
Per quanto sopra evidenziato appare, da una parte, non appropriato il riferimento del Giudicante alla sentenza della Corte di Cassazione 21 maggio 2013, n. 12391 e, dall’altra, non si comprende il motivo per il quale non abbia, il medesimo, tenuto nella dovuta considerazione quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione Civile, SS.UU., sentenza 4 marzo 2009, n. 5160 la quale, evidenziava che:
    il principio di libertà delle forme deriva dalla circostanza che tutte le forme degli atti del processo sono previste non per la realizzazione di un fine proprio ed autonomo, ma allo scopo del raggiungimento di un certo risultato, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza della prescrizione formale sarebbe comunque irrilevante ove l’atto viziato raggiunga ugualmente lo scopo cui era destinato;
    le norme che prevedono il deposito degli atti in cancelleria non ne specificano anche il modo e comunque non è, in particolare, richiesto espressamente il contatto personale tra il depositante e cancelliere;
    il ricorso al mezzo postale non pregiudica le esigenze di controllo e semmai risponde ad esigenze di maggiore certezza, tanto da essere utilizzato anche per le notificazioni, dovendosi comunque, in ultima analisi, darsi rilievo all’intervenuto raggiungimento dello scopo, avendo il cancelliere ricevuto il fascicolo e avendo valutato regolare il suo contenuto e il suo deposito.
Pertanto, la Suprema Corte esclude categoricamente che si sia in presenza di una difformità dallo schema formale tale da far ritenere l’atto inesistente e del tutto improduttivo di effetti giuridici, se alla fine del procedimento, pur difforme dallo schema di legge, il plico perviene al cancelliere, che ben può compiere tutte le attività necessarie ai fini del controllo della ritualità della documentazione; al riguardo si osserva anche che il deposito in cancelleria può essere effettuato anche da parte di un soggetto diverso dal procuratore della parte, e che lo strumento del deposito a mezzo posta non è sconosciuto al processo civile.
Le stesse considerazioni così come enunciate dalla Suprema Corte a SS.UU. con la sentenza 4 marzo 2009, n. 5160, non possono non estendersi anche al deposito effettuato tramite PCT, ove per assurdo, si condivida il ragionamento del Giudice del Tribunale di Padova per il quale, l’art. 35 del DM 44/11, oltre a disporre al comma 1 che “l'attivazione della trasmissione dei documenti informatici da parte dei soggetti abilitati esterni e' preceduta da un decreto dirigenziale che accerta l'installazione e l'idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio” conferisce al Direttore del anche il potere, di indicare espressamente la tipologia degli atti per i quali sia possibile procedere al deposito telematico.
E’ palese come l’ordinanza del 28 agosto 2014 del Tribunale di Padova, dichiari l’inammissibilità del deposito telematico della comparsa di costituzione sull’erroneo presupposto che l’art. 35 del DM 44/11, conferisca al Direttore del DGSIA anche il potere (inesistente sotto il profilo normativo) di indicare espressamente la tipologia degli atti per i quali sia possibile procedere al deposito telematico e ciò nonostante che:
    esiste nel nostro ordinamento il principio di libertà della forma la quale non risulta essere configurata come fine a se stessa ma quale strumento indispensabile per consentire all’atto di raggiungere il suo scopo;
    l’art. 35 del DM 44/11 nulla preveda circa l’individuazione degli atti da depositare telematicamente;
    il deposito telematico della comparsa di costituzione sia giunto in cancelleria;
    i controlli automatici abbiano dato esito positivo;
    l’atto sia stato definitivamente accettato dal cancelliere;
    l’atto e i documenti allegati fossero disponibili nel fascicolo informatico del procedimento per la visione (e per qualsiasi tipo di controllo) alle altre parti costituite tramite il sistema Polisweb;
    l’atto così depositato abbia, comunque, sicuramente raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c. comma 3).
Proprio per evitare decisioni (come quella del caso in esame) “fondate” attraverso l’utilizzo di prassi applicative dell’art. 35 DM 44/11, dalle conseguenze estremamente pericolose sia in termini deontologici che di responsabilità professionale, l’Avvocatura in generale ed in particolare il gruppo di lavoro della F.I.I.F./CNF (Fondazione Italiana per l’Innovazione Forense), a conclusione dell’attività di analisi e commento al Decreto Legge 24 giugno 2014, n. 90 recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari” ed a completamento di quanto evidenziato e consegnato quale documentazione in sede di Tavolo permanente per l’attuazione del Processo Civile Telematico, aveva proposto di estendere, espressamente, la facoltatività del deposito telematico a tutte le tipologie di atti processuali, anche al fine di consentire alle sedi virtuose di perseguire l’obiettivo di rendere interamente informatico il fascicolo processuale, posto che la funzionalità dei servizi informatici risulta garantita dalla circostanza che su tutto il territorio nazionale è vigente l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti di cui al DL 179/12.

(Da Altalex dell’8.9.2014. Nota di Maurizio Reale)

mercoledì 10 settembre 2014

WORK IN PROGRESS...

Nuovo logo, sito rinnovato, elezioni, AGA Card, profilo Facebook, corsi di formazione... 
In attesa di "riappropriarci" dell'adeguata sede, non stiamo con le mani in mano.
Le iniziative e le attività che stiamo vagliando, come avete letto, sono molteplici, per un'AGA sempre più a misura d'avvocato, soprattutto in questi tempi difficili...
Stay tuned!

Wikipedia non risponde dei contenuti caricati dagli utenti

Trib. Roma Sez. I Civ. Sent. 9.7.2014, n. 4986

In data 9 luglio 2014 il Tribunale di Roma ha stabilito che l’enciclopedia telematica Wikipedia non è legalmente responsabile dei contenuti caricati liberamente dagli utenti.

Nel caso in esame, Antonio Angelucci e il figlio Giampaolo imputavano a Wikimedia Italia di aver diffuso affermazioni false e lesive della loro reputazione, chiedendo il risarcimento dei danni. In particolare, le affermazioni ritenute diffamatorie, presenti in alcune voci dell’enciclopedia, riguardavano il coinvolgimento nella cosiddetta “Sanitopoli d’Abruzzo”.

Wikimedia ha contestato la fondatezza della domanda proposta dagli attori in quanto ritiene che le notizie presenti sul sito corrispondono al vero e, allo stesso tempo, l’enciclopedia telematica non è responsabile dei contenuti caricati dagli utenti.

Il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda degli attori e compensato le spese di lite. Vediamo perché.

Innanzitutto il Tribunale ha ritenuto che la Wikimedia Foundation inc. è da considerarsi un semplice hosting provider, che si limita ad ospitare sui propri server i contenuti creati da milioni di utenti ma non risponde di eventuali illeciti degli stessi, a differenza dei content provider. In quest’ultimi, infatti, l’esenzione di responsabilità cade.

Inoltre, il Tribunale distingue la posizione dell’hosting provider rispetto a quella prevista dall’articolo 11 della legge n. 47/1948 in tema di reati commessi col mezzo della stampa: “A differenza di quanto avviene in materia di pubblicazione a mezzo di stampa non vi è alcun rapporto negoziale tra l’autore dello scritto e l’hosting provider e posto che l’enorme quantità di dati che vengono immessi dagli utenti presupporrebbe una forma di responsabilità oggettiva che, allo stato, non trova riscontro in alcuna norma positiva”.

A tal proposito, la convenuta documenta l’esistenza di una pagina indicata come “Disclaimer generale” in cui gli utenti sono avvisati che per la natura “aperta” dei contenuti dell’enciclopedia, non può essere garantita la validità delle informazioni pubblicate.

Secondo il Tribunale di Roma, non è compito di Wikipedia garantire che non vengano commessi illeciti lesivi dell’altrui reputazione. Infatti l’hosting provider offre un servizio basato sulla libertà degli utenti di compilare le voci dell’enciclopedia. È proprio questa libertà che  esclude l’obbligo di garanzia, e trova il suo bilanciamento nella possibilità data a chiunque ravvisi un errore in una pagina di Wikipedia di modificarne i contenuti e di chiederne la cancellazione.

In questo senso, dunque, il giudice ha ritenuto che gli Angelucci avrebbero potuto modificare la voce da sé o chiederne la rimozione, oppure, se trovato il contenuto diffamatorio chiedere a Wikimedia di identificare l’autore per poi querelarlo.


(Da filodiritto.com dell’8.9.2014)

lunedì 8 settembre 2014

Licenziato per uso imprudente di FB ed Internet

Trib. Lav. Milano, ordinanza 1.8.2014

Con ordinanza del 1° agosto 2014, il Giudice del Lavoro di Milano ha rigettato il ricorso di un dipendente licenziato dalla propria azienda per ragioni connesse all'uso di Facebook e di Internet sul luogo di lavoro (Trib. Milano, Sezione lavoro, R.G. n. 6847/2014, Dr.ssa Colosimo).

I fatti: alla fine del 2013, un'azienda lombarda aveva formalmente contestato a un proprio dipendente di avere, in orario di lavoro, scattato foto all'interno di una propria unità produttiva, ritraenti il dipendente stesso con alcuni colleghi, e averle pubblicate in Facebook accompagnandole con commenti molto poco lusinghieri nei confronti del datore di lavoro. Non basta: secondo l'azienda, dalla cronologia di navigazione di un p.c. nella disponibilità del medesimo dipendente risultavano diversi accessi a siti di carattere pornografico in giorno e orario di lavoro.

Su queste basi, l'azienda aveva intimato il licenziamento per violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede nell'esecuzione della prestazione lavorativa, rottura del rapporto fiduciario e lesione dell'immagine aziendale.

Il dipendente ha impugnato il licenziamento negando la riconducibilità a sé delle condotte contestate. Egli ha ipotizzato che terzi si fossero impossessati delle sue credenziali dell'account Facebook e avessero pubblicato in sua vece le foto e i relativi commenti denigratori; quanto all'uso del p.c. aziendale per la navigazione di siti porno, ha osservato di non essere l'unico dipendente ad avere accesso al computer in questione. Tuttavia, nel corso del giudizio, entrambe le tesi difensive sono crollate, e il Giudice ha ritenuto sufficientemente provato che tutte le condotte contestate fossero attribuibili al ricorrente.

Su queste premesse, il Giudice ha concluso, di fatto facendo proprie le tesi dell'azienda, che le condotte in questione concretassero "un'evidente violazione dei più elementari doveri di diligenza, lealtà e correttezza", e, con particolare riferimento alle espressioni ingiuriose nei confronti dell'azienda contenute in un profilo Facebook pubblico, che esse determinassero una lesione dell'immagine aziendale; la navigazione su siti pornografici in orario di lavoro è stata inoltre ritenuta dal Giudice comportamento del tutto idoneo, "anche di per sé solo considerato", a determinare un'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, anche perché realizzato durante l'orario di lavoro, con conseguente interruzione della prestazione.

Dalla lettura della sentenza emerge che il dipendente non abbia neppure tentato - con riferimento al controllo da parte del datore di lavoro della cronologia di navigazione in Rete da una postazione lavorativa - una difesa fondata sull'eventuale inosservanza delle misure prescritte, a tutela della privacy dei lavoratori, dal provvedimento del Garante della Privacy n. 13 del 1 marzo 2007, riguardante l'uso di Internet e della posta elettronica nel contesto lavorativo.

Quel provvedimento prescrive, ad esempio, ai datori di lavoro di specificare dettagliatamente le modalità consentite di utilizzo della posta elettronica e della rete Internet da parte dei dipendenti e detta linee-guida circa l'utilizzo di filtri o sistemi che impediscano in radice la navigazione di determinati siti. Esso vieta, inoltre, di effettuare controlli a distanza di lavoratori svolti, tra l'altro, mediante "la riproduzione e l'eventuale memorizzazione sistematica delle pagine web visualizzate dal lavoratore".

A chi scrive non è dato sapere se non sussistessero i presupposti di fatto per usare simili difese. E' comunque probabile che, anche se impiegate con successo, queste non avrebbero potuto mutare l'esito del giudizio, essendo ragionevolmente sufficienti a giustificare il licenziamento le condotte contestate relative all'uso improprio di Facebook.

Quel che è certo è che il Giudice milanese ha concluso per il rigetto integrale del ricorso del dipendente, confermando il licenziamento, e la condanna di questi alla rifusione delle spese.


(Da ilsole24ore.com dell’8.9.2014)

Attenti al termine procedurale ''a ritroso''

Cass. Civ., sez. III, sent. 30.6.2014 n° 14767

Nel calcolo dei termini procedurali a ritroso, quando la scadenza cade in un giorno festivo, occorre tornare “indietro” nel calendario al primo giorno non festivo. Questo il dictum della sentenza 30 giugno 2014, n. 14767 pronunziata dalla Corte di Cassazione, dove si è deciso un ricorso, articolato in otto motivi e rigettato in toto, formulato su una decisione del Tribunale di Lucca che statuiva la condanna alla restituzione di una somma di denaro corrisposta ad un C.t.u., eccedente rispetto all’ammontare liquidato in sede giudiziale. Tra i numerosi argomenti giuridici trattati, merita di essere segnalato quello relativo al computo dei termini procedurali, nella particolare ipotesi ove il calcolo debba essere svolto a ritroso nel tempo. Ciò si verifica, ad esempio, quando la legge stabilisce un determinato termine per il deposito di atti “prima” della data dell’udienza. Prendendo a riferimento il termine per il deposito delle memorie in sede di giudizio di legittimità, statuito all'art. 378 c.p.c. in 5 giorni “non liberi”, la Cassazione ha constatato che tale termine si connota per essere “a ritroso”: la legge considera il giorno dell’udienza quale momento iniziale del conteggio (quindi, il dies a quo) e il quinto giorno quale momento finale (dies ad quem).

La Corte, richiamando alcuni precedenti, ha chiarito le modalità di applicazione, in relazione ai termini che si computano “a decorrenza successiva” nonché a quelli che si calcolano “a ritroso”, delle regole poste dall’art. 155 c.p.c., comma IV, statuente la proroga al primo giorno non festivo del termine scadente in giorno festivo, e del comma V del medesimo articolo, che dispone la proroga, al primo giorno non festivo, del termine scadente nella giornata di sabato.

Nel caso di specie l’udienza era fissata al 28 febbraio, quindi il termine a ritroso, ex art. 378 c.p.c., è scaduto il precedente venerdì 21: escluso il dies a quo (28), il quinto giorno (dies ad quem) cadeva di domenica (23), con proroga pertanto, ex IV comma dell’art. 155 c.p.c., al sabato 22, nonché ex V comma dell’art. 155 c.p.c., al suindicato venerdì 21.

Sulla base di tale criterio di calcolo, la memoria ex art. 378 c.p.c., depositata dal ricorrente in data 24 febbraio, è stata dichiarata inammissibile poiché tardiva: il deposito è avvenuto oltre il termine, con abbreviazione pertanto dell’intervallo stabilito dalla legge e costituente il lasso di tempo minimo garantito al giudice e alla controparte per esaminare l’atto. Tale condotta integra altresì violazione del diritto di difesa contemplato all’art. 24 Cost. (Cass. 4/01/2011, n. 182).


(Da Altalex del 4.9.2014. Nota di Laura Biarella)

martedì 2 settembre 2014

Gratuito patrocinio: elevato limite reddito per ammissione

È stato pubblicato lo scorso 23 luglio (G.U. n. 169) il decreto del Ministero della Giustizia 01/04/2014 di aggiornamento del limite di reddito annuo per poter accedere al patrocinio a spese dello Stato.
Come previsto dall'art. 77 del Testo Unico delle spese di Giustizia (d.p.r. n. 115/2002), l'adeguamento dei limiti di reddito per l'ammissione al beneficio del gratuito patrocinio avviene con cadenza biennale sulla base delle variazioni degli indici dei prezzi al consumo stabiliti dall'Istat.

Rilevato che, rispetto allo scorso aggiornamento biennale, dai dati accertati dall'istituto risulta una variazione in aumento pari al 5,6%, il limite di reddito è stato elevato dai precedenti 10.766,33 euro agli attuali 11.369,24 euro, che rimarranno validi fino al 2016.

Ai fini del computo, il reddito considerato è sempre quello imponibile, come risulta dall'ultima dichiarazione.

Qualora l'interessato conviva con il coniuge o con altri familiari, il reddito da considerare ai fini dell'ammissione al beneficio, è quello risultante dalla somma dei redditi dell'intero nucleo familiare (art. 76, comma 2, d.p.r. n. 115/2002). Si computa, invece, solo il reddito dell'istante nelle cause che hanno per oggetto diritti della personalità ed in quelle in cui vi è conflitto di interessi con gli altri componenti del nucleo familiare.

Rimane invariata la disposizione di cui all'art. 92 T.U. che prevede l'elevazione del limite reddituale di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi, per il patrocinio in ambito penale (v. Guida Gratuito Patrocinio e Fac-simile Istanza).


(Da studiocataldi.it)

lunedì 1 settembre 2014

CASSA FORENSE, 90 GIORNI PER CANCELLARSI DALL'ALBO

50mila legali non iscritti alla Cassa Forense perché hanno un reddito inferiore ai 10.300 euro, avranno 90 giorni di tempo per cancellarsi dall'albo professionale. Altrimenti per loro scatterà l'iscrizione retroattiva a partire dal 1° gennaio 2014. Sono questi i primi effetti della pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del Regolamento attuativo dell'articolo 21 della legge 247/2012 che detta le condizioni agevolate per l'iscrizione dei professionisti legali iscritti all'Albo professionale.  Il nuovo regolamento obbliga infatti, anche a chi ha un reddito inferiore alla soglia di 10.300 euro, di versare alla Cassa Forense un contributo minimo soggettivo dimezzato, circa 700 euro all'anno (più 150 di contributo di maternità) nei primi sei anni; contributo che poi sale a 1.400 euro per i successivi due anni. In tutto 8 anni di regime avegolato a cui tuttavia verranno riconosciuti solo sei mesi di anzianità contributiva ai fini previdenziali. Una volta terminato il periodo agevolato gli iscritti dovranno versare alla cassa almeno 3.600 euro all’anno (2780 euro di contributo minimo soggettivo, 700 euro di contributo integrativo e 150 per la maternità). Ammessa comunque la possibilità di versare contributi aggiuntivi, qualora le condizioni economiche lo permettano, per recuperare la contribuzione annuale dimezzata versata durante il periodo "agevolato". Il Regolamento riguarda anche i professionisti che hanno il titolo di avvocato ma svolgono altre attività: i commercialisti come i consulenti del lavoro non potranno più scegliere tra una cassa o l'altra, ma manterranno la doppia iscrizione versando a ciascun istituto i relativi redditi. Il presidente della Cassa Forense Nunzio Luciano ha precisato che a brevissimo partiranno le lettere per chiedere di esercitare l'opzione. “Chi non vuole entrare – sottolinea Luciano – avrà 90 giorni per comunicarci l'intenzione di cancellarsi anche dall'albo; in assenza procederemo con l'iscrizione d'ufficio. Naturalmente faremo delle verifiche per appurare che la rinuncia all'albo ci sia stata. Procederemo poi a recuperare i crediti per chi, pur iscritto alla cassa, non verserà i contributi”. Le condizioni agevolate offrono una possibilità di salvezza anche a 30mila legali già iscritti alla Cassa ma a rischio cancellazione perché non raggiungono il reddito previsto.

(Da Mondoprofessionisti dell’1.9.2014)

Vietato spiare la moglie: illecita prova tradimento 'registrata'

Il marito non può spiare la moglie dentro casa con l'uso del registratore. E' illecita la prova dell'adulterio "acquisita" in questo modo.
Con sentenza n. 35681/2014, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di Pace di Senorbì del 10/05/2013 che condannava C. per aver diffamato la moglie adultera.

Il ricorso proposto alla Suprema Corte faceva leva sulla presunta mancata considerazione da parte del G. d. P. dello stato d'ira dell'imputato - il quale aveva appena scoperto il tradimento della moglie per mezzo di un dispositivo di registrazione da lui stesso installato nella cucina dell'abitazione coniugale.

Ma gli Ermellini hanno rigettato il ricorso sulla base dei principi - già espressi in passato - della "inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti di legge" (art. 191 codice procedura penale) e, soprattutto, dell'inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge o familiare convivente (cfr. sentenza n. 12698/2003).

Pertanto, non solo C. non può trovare nella prova del tradimento subito - e nel conseguente stato d'ira - una scriminante al reato di diffamazione perpetrato in danno della moglie, ma la sua condotta di "acquisizione della prova" lo renderebbe addirittura querelabile per il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis c.p.!


(Da studiocataldi.it)

GIUDICE DI PACE E UTC VICINI AL TRASLOCO

Rimane subordinato al "disco verde" del ministero della Giustizia il trasloco di numerosi uffici comunali, tra cui i locali del Giudice di pace e quelli dell'Ufficio tecnico nell'ex Tribunale di corso Europa a Giarre.
Come conferma il sindaco Roberto Bonaccorsi, l'amministrazione, che ha ricevuto di recente il parere favorevole alla nuova destinazione d'uso del presidente del Tribunale di Catania, Bruno Di Marco, attende ora il via libera definitivo da parte del Ministero per procedere alle operazioni di trasloco.

«Si tratta dell'ultimo anello burocratico - afferma il primo cittadino giarrese - dopo il quale si potrà eseguire il trasloco che abbiamo già pianificato da tempo, avendo peraltro perfezionato la planimetria degli uffici, che saranno allocati nell'ex sede giudiziaria chiusa all'utenza lo scorso anno, con l'entrata in vigore della riforma della geografia giudiziaria».

Resta inteso - e ciò è stato ribadito anche nell'ultimo incontro avvenuto di recente tra il sindaco Bonaccorsi e il presidente del Tribunale di Catania, Di Marco - che gli uffici comunali che saranno trasferiti nello stabile di corso Europa, dovranno svolgere sul territorio compiti istituzionali e di pubblica utilità.

Il cespite rimane sempre nella disponibilità del Ministero, nel caso in cui dovesse riprendere la propria funzione originaria.

Una volta ottenuto il nulla osta dal ministro di Grazia e Giustizia - rinviato il trasloco previsto per settembre, non è dato sapere quando e quali saranno le eventuali prescrizioni - nei locali dell'ex palazzo giudiziario saranno collocati gli uffici tecnici della III Area Lavori pubblici e della IV Area Servizi Tecnici.

Al piano terra dello stabile - dove originariamente erano state allestite le tre aule giudiziarie - saranno sistemati gli uffici e le aule giudiziarie del Giudice di Pace, che al momento si trova ad operare nella sede di via Vittorio Veneto.

Inoltre è prevista l'assegnazione di un locale apposito da riservare agli avvocati giarresi, per lo svolgimento delle attività professionali e didattiche. Altri locali dell'ex Tribunale, così come anticipato nei mesi scorsi dal sindaco Roberto Bonaccorsi, saranno assegnati alla Protezione civile comunale per l'attivazione del Com, il Centro Operativo Misto, attualmente in funzione nella piccola struttura annessa allo stadio di atletica, i cui locali, da accertamenti tecnici della Prefettura di Catania, risultano non idonei per lo svolgimento dei compiti istituzionali e operativi assegnati in caso di calamità.

Infine, nei locali sotterranei dell'ex palazzo di Giustizia, sarà invece definitivamente sistemato l'archivio generale del Tribunale, del Giudice di Pace e forse anche di quello notarile.


Mario Previtera (da La Sicilia del 23.8.2014)

Infedeltà non basta per addebito separazione

Cass. Civ., sez. I, sent. n. 16172 del 15.7.2014

Ancora una volta la corte di cassazione torna ad occuparsi del tradimento e delle sue eventuali conseguenze in merito alla pronuncia sull'addebito della separazione.

Nel caso preso in esame dalla Corte, I giudici di merito avevano addebitato a una ex moglie La colpa della separazione proprio perché il suo ex marito aveva scoperto che lei lo tradiva.

Nel ricorso per cassazione della donna faceva notare come giudici di merito avessero omesso di Accertare la sussistenza del nesso causale tra il tradimento e la crisi del matrimonio.

Diverse volte la Corte ha evidenziato che il tradimento non basta A poter giustificare una pronuncia di addebito della separazione.

È necessario infatti verificare se tradimento sia stato la causa della crisi matrimoniale piuttosto che il suo effetto.

Se il tradimento è intervenuto quando la crisi della coppia era già in atto esso non può considerarsi ragione di addebito.

La Cassazione nella parte motiva della sentenza richiama un principio di diritto precedentemente enunciato con sentenza 2059/2012: "grava sulla parte che richieda, per l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà, l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza".

Al contempo "è onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell'infedeltà nella determinazione dell'intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata infedeltà".

Non è dunque sufficiente provare l'infedeltà per l'addebito della separazione.

E' necessario che venga accertato che la crisi matrimoniale si è verificata proprio a causa di questa, e non che la stessa fosse proprio l'effetto di una crisi già verificatasi in epoca antecedente al tradimento. 


Licia Albertazzi (da studiocataldi.it del 17.8.2014)

L’avvocato ha mal di schiena? L’udienza va rinviata

Il legittimo impedimento del difensore che presenta certificato medico dà diritto al rinvio dell'udienza anche senza esplicita richiesta.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione (sesta sezione penale), con sentenza n. 32699 del 23 luglio scorso, ritenendo illegittimo il rigetto dell'istanza di rinvio da parte della Corte d'Appello, a seguito di presentazione da parte del legale di certificato medico attestante l'impossibilità a deambulare per un determinato periodo di tempo a causa di una lombosciatalgia.

Al contrario di quanto affermato dalla Corte territoriale, per gli Ermellini è chiaro, infatti, che, pur non avendo il legale chiesto esplicitamente un rinvio, "dalla presentazione di un certificato medico, corredato da missiva di accompagnamento in cui si rappresenti l'impossibilità del difensore di presenziare all'udienza per motivi di salute" debba dedursi una richiesta di rinvio.

Quanto alla mancata presentazione di documentazione circa l'impossibilità di trovare un sostituto, sostenuta dalla Corte d'Appello, la S.C. ha rilevato, invece, che l'art. 420-ter, ultimo comma, c.p.p. esclude il rinvio laddove il difensore impedito designi un proprio sostituto, ma non pone a carico dello stesso alcun obbligo, per cui, trattandosi di una mera facoltà, l'avvocato non è tenuto a fornire documentazione circa l'impossibilità di farsi sostituire. 

Né può avere rilievo, ha sottolineato, infine, la Cassazione il fatto che, nel caso di specie, l'imputato fosse sottoposto a misura cautelare, per di più non detentiva, non costituendo questa motivo ostativo alla concessione del rinvio per legittimo impedimento del difensore.


(Da studiocataldi.it del 6.8.2014)

Accertamento bancario e difese per il contribuente

Comm. Trib. Reg. Torino, sez. I, sent. 20.11.2013 n° 150/1/13

In caso di accertamento bancario finalizzato a ricostruire il reddito del contribuente, il Fisco non può pretendere a distanza anni una giustificazione contabile per ogni singola operazione bancaria effettuata.

A tali conclusioni è giunta la Commissione Tributaria Regionale di Torino che, con sentenza n. 150/01/13, depositata il 20 novembre 2013, ha stabilito che se da una parte è ammissibile innescare un accertamento “Redditometro” da anomalie bancarie, dall’altra l’Ufficio delle Entrate non può pretendere la prova di ogni singola operazione, soprattutto quando la ricostruzione del contribuente appare più che plausibile.

I giudici piemontesi, dunque, pur evidenziando che alcune somme ricevute dalla contribuente consistevano in bonifici esteri di cui è stata chiesta prova della provenienza (come appunto la contribuente ha fatto), hanno anche chiarito che la pretesa dell’Ufficio, secondo la quale ogni singola movimentazione deve trovare una giustificazione contabile documentale “non pare sostenibile attesa la ricostruzione più che plausibile offerta dalla contribuente e in parte documentata”.

D’altronde, specificano ancora i giudici “non può chiedersi una prova impossibile ovvero estremamente difficile da reperire quando vi sono concreti indizi e prove documentali della serietà e della veridicità delle affermazioni della contribuente”.

Alla luce delle predette considerazioni, risulta sicuramente importante per il contribuente esporre in modo chiaro e plausibile le proprie difese in sede di contraddittorio con il Fisco.


(Da Altalex del 15.7.2014. Nota di Matteo Sances)

Divorziare senza prima separarsi? A volte si può

Trib. Parma, sent. 9.6.2014 n° 599

Il Tribunale civile di Parma con sentenza 9 giugno 2014 accoglie il ricorso di una coppia di sposi (lui di nazionalità italiana, lei spagnola) che ha chiesto, in applicazione del Regolamento UE n. 1259/2010 relativo all'attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione, che fosse dichiarato lo scioglimento del matrimonio senza necessità di una previa separazione.

Con ricorso congiunto una coppia di sposi – lui di nazionalità italiana, lei di nazionalità spagnola – ha chiesto che, in applicazione del Regolamento UE n. 1259/2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione, fosse dichiarato lo scioglimento del matrimonio.

La coppia aveva contratto matrimonio, secondo il rito civile, il 10 gennaio 2009, e, con successiva scrittura privata del 27 giugno 2013, aveva concordemente designato la legge spagnola, quale legge applicabile al rapporto.

Il Tribunale ha verificato, preliminarmente, la validità formale dell’accordo sulla legge applicabile e ne ha riconosciuto la conformità ai requisiti previsti dall’art. 7 del citato Regolamento.

In particolare, il Tribunale ha ritenuto che, ai fini della validità di tale accordo, sia sufficiente la scrittura privata, non essendo, all’uopo, richiesto anche l’atto pubblico.

Inoltre, il Tribunale ha accertato che la legge concordemente designata dalle parti corrispondeva alla legge dello Stato di cui delle parti (la moglie) aveva la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo, come prescritto dall’art. 5, comma 1 lett. c del Regolamento.

Indi, il Tribunale ha proceduto al vaglio di compatibilità con l’ordine pubblico interno della legge spagnola che, agli artt. 88 e 81 del Codice Civile spagnolo, consente ai coniugi di chiedere direttamente il divorzio, senza necessità di una previa separazione, una volta decorsi tre mesi dalla celebrazione del matrimonio.

L’operazione logico-giuridica condotta dai Giudici ha avuto esito positivo, giacchè, nel caso di specie, era acclarato il definitivo venir meno tra le parti della loro iniziale comunione materiale e spirituale.

A tal riguardo, il Collegio parmense ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, affinchè sia rispettato il principio dell'"ordine pubblico", è necessario e sufficiente che «lo scioglimento del matrimonio venga pronunciato all'esito di un rigoroso accertamento - condotto nel rispetto dei diritti di difesa delle parti, e sulla base di prove non evidenzianti dolo o collusione delle parti stesse - dell'irrimediabile disfacimento della comunione familiare, il quale ultimo costituisce l'unico inderogabile presupposto delle varie ipotesi di divorzio previste dalla L. n. 898 del 1970» (Cass. n. 16978/2006)

La sentenza in esame si segnala perché rappresenta una delle prime applicazioni in Italia (tra le altre, Trib. Udine 26.8.2013; Trib. Milano 11 dicembre 2012 e Trib. Treviso 18 dicembre 2012) della disciplina contenuta nel Regolamento UE n. 1259/2010 (c.d. Regolamento “Roma III”), entrato in vigore nei Paesi membri che hanno scelto di aderire alla cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (i.e. Austria, Belgio, Bulgaria, Germania, Grecia, Francia, Spagna, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Portogallo, Romania e Slovenia) a partire dal 21 giugno 2012.

La pronuncia in oggetto interviene su una fattispecie analoga a quella già decisa da Trib. Udine 26 agosto 2013, dove – conformemente a quanto statuito dai Giudici emiliani – si è ritenuto non necessario l’atto pubblico ai fini della validità dell’accordo sulla legge applicabile e si è affermata la non contrarietà all’ordine pubblico italiano della disciplina spagnola sullo scioglimento del matrimonio.


(Da Altalex del 16.7.2014. Nota di Antonio Scalera tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)