martedì 23 settembre 2014

L’espressione “vaffa” è reato di ingiuria

Rumori molesti in condominio, 
tra due inquilini volano parole grosse e offese.
La Cassazione conferma: 
il “vaffa” è reato di ingiuria da Codice penale

Dagli studi condotti sui comportamenti umani è stato rilevato che siano simili a quelli degli animali con la differenza che l’ essere umano impara dagli errori usando la ragione.

Tuttavia, a volte accade che gli impulsi primordiali hanno il sopravvento con conseguenze catastrofiche per chi ne viene a contatto.

E’ quello che sarà accaduto tra due inquilini che in seguito al rimprovero verbale di uno per rumori molesti proveniente dall’appartamento dell’ altro, quest’ ultimo proferiva frasi ingiuriose.

Nel nostro ordinamento, il reato di ingiuria trova la sua disciplina nell’art. 594 c.p. nel quale si legge: “chiunque offende l’ onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516”.

Esso si colloca tra i diritti della personalità, quali diritti opponibili erga omnes, indisponibili, non patrimoniali, e imprescrittibili.

Ai fini della configurabilità del reato occorre che sussistano sia l’elemento oggettivo, costituita dall’offesa all’onore o al decoro di una persona, sia l’elemento soggettivo costituito dalla sussistenza del dolo generico, inteso come volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza dell’ attitudine offensiva delle parole usate.

L’onore si identifica con il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale, la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi.

Cosi anche il decoro, inteso come lo stato individuale esteriore risultante dal riguardo elementare che gli uomini sono soliti osservare reciprocamente verso la personalità morale di ciascuno di essi.

Ciò posto, recentemente la Cassazione con sentenza n. 35669 del 13 agosto 2014 ha avuto modo di ribadire che: “l’espressione utilizzata non è soltanto indice di cattiva educazione e di uno sfogo dovuto ad una pretesa invadenza dell’ offeso, ma anche del disprezzo che si nutre nei confronti dell’ interlocutore, precisando, pur sempre, tuttavia, che spetta ai giudici di merito, tenere doverosamente conto del contesto nei quali l’ espressione è stata pronunciata”.

La ratio giustificatrice che ha portato la Suprema Corte a confermare il giudizio di secondo grado, risiede nel fatto che i rapporti di vicinato devono essere improntati ad un maggiore rispetto reciproco tra le persone, che al contrario porterebbe a un impossibilità di convivenza, che, invece, è necessitata dalla quotidiana relazione nascente dal fatto abitativo, che deve essere garantita (Sez. V, 29 /10/2009 , n. 3931).


(Da leggioggi.it del 2.9.2014)