lunedì 31 marzo 2014

ECCO LA NUOVA GIUSTIZIA CIVILE

Queste le misure sulle quali si cerca
la condivisione con il Guardasigilli

Previsione e potenziamento di misure alternative al processo e anche alla mediazione obbligatoria, con funzione deflattiva, che veda il coinvolgimento degli avvocati. Motivazione sintetica a richiesta delle parti e misure di semplificazione delle procedure per ridurre tempi e costi; e competenza degli avvocati in alcune procedure di volontaria giurisdizione. Per il Consiglio Nazionale Forense la strada imboccata dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando per rilanciare l’efficienza della giustizia civile e dare maggiori garanzie di tutela dei diritti a cittadini e imprese è quella giusta.  Nel metodo innanzitutto, visto che dopo anni di incomunicabilità alimentata da interventi estemporanei, ora si è avviato un tavolo con la partecipazione di tutti i protagonisti del processo; ma anche nel merito di tante delle soluzioni emerse nello scambio fruttuoso di esperienze e proposte intorno al tavolo per la riforma del codice di procedura civile della scorsa settimana al quale partecipano il presidente Guido Alpa e il consigliere segretario Andrea Mascherin,   con l’Associazione nazionale magistrati, l’Oua e le Camere civili. Fermo il potere/responsabilità del Ministro della Giustizia di decisione finale.  E la necessità, comunque, di un intervento organico e di investimenti in materia di giustizia civile. Il plenum ha approvato nella seduta amministrativa di venerdì un ampio documento che, proprio a seguito di quel dialogo, fissa alcuni punti in vista dei prossimi provvedimenti legislativi (d’urgenza e anche di più ampio respiro) e che è stato inviato oggi al Ministro Orlando. In occasione dell’incontro della scorsa settimana, nel corso del quale il CNF ha ribadito la necessità di interventi organici, sono state ampie le convergenze tra CNF e ANM sulle misure “deflattive” al processo proposte dal Consiglio in una prospettive nuova, che è quella di aumentare il ventaglio delle possibilità a disposizione delle parti per soddisfare i propri diritti in fase pre-giudiziale, piuttosto che creare ostacoli di natura economica, e non solo, all’accesso al giudice. Misure che inoltre promuovono il ruolo “sociale”, di supporto alla giurisdizione in una veste autonoma, dell’Avvocatura.  Istituti alternativi alla giurisdizione. Si tratta di previsioni nuove, che coinvolgono direttamente gli avvocati e sono alternative anche alla mediazione obbligatoria. Innanzitutto, il passaggio, a richiesta delle parti, dal giudice ordinario a una Camera arbitrale istituita presso gli Ordini forensi, di una causa, per favornire la conclusione con tempi celeri e costi favorevoli.  La misura cosiddetta della translatio iudici dovrebbe contare sulla previsione di incentivi fiscali (come l’esenzione dall’imposta di registro o aliquote agevolate). Ancora, la negoziazione assistita dagli avvocati, alternativa alla mediazione obbligatoria, con il potere dell’avvocato di autenticare le firme delle parti e di attestarne la volontà: potere che produrrebbe semplificazione e meno costi a carico di quest’ultime.  Di rilievo, nell’ambito dell’istituto, l’assegnazione agli avvocati delle materie relative ai procedimenti di separazione personale e divorzio ove non vi siano figli minori. L’accordo officiato dall’avvocato dovrà poi essere omologato dal giudice, acquisendo così efficacia di titolo esecutivo e per la trascrizione. Infine,   procedimento preliminare al contenzioso civile, una forma facoltativa di arbitrato agli atti, sempre svolto dalle camere arbitrali degli avvocati, anch’esso alternativo alla mediazione obbligatoria.

Nella direzione di un riconoscimento del potere certificativo dell’avvocato va la proposta emersa al tavolo, di assegnare allo stesso il potere di emettere una ingiunzione di pagamento, opponibile in sede giudiziale.

Il CNF coltiva, inoltre, la proposta di riconoscere al difensore il potere di autenticare le copie di tutti gli atti del processo. Quanto alla fase esecutiva del processo, il CNF chiede di favorire l’accesso del difensore alle diverse banche dati, previa autorizzazione del giudice, per valutare se esperire una procedura esecutiva.

Nel corso dell’incontro, ancora, il CNF ha espresso la piena condivisione e l’impegno a incentivare la diffusione del processo telematico anche in ambiti e per atti per i quali non è prevista la obbligatorietà. Alpa e Mascherin hanno ancora una volta ribadito la contrarietà alla c.d. motivazione su richiesta, in quanto in contrasto con la Costituzione, potendosi piuttosto valorizzare l’istituto della motivazione sintetica, quando richiesta al giudice da tutte le parti costituite in causa. Ribadita la contrarietà anche alla responsabilità solidale dell’avvocato per lite temeraria, anch’essa in contrasto con la Costituzione, poiché contraria ai principi del diritto di difesa, oltre che superflua visto che vi è già un presidio deontologico in caso di comportamento scorretto del difensore. Il passaggio, ad opera del giudice, del rito da ordinario a sommario, dovrebbe comunque essere preceduto dal contraddittorio sul punto tra le parti, anche se deve segnalarsi lo scarso utilizzo che di quest’ultimo si è finora fatto nel processo. Quanto ai giudici di pace, il CNF ritiene imprescindibile procedere in via preliminare alla riforma della magistratura onoraria che, nel garantirne qualificazione e professionalità, definisca al contempo l’ambito della sua competenza.  Mentre nutre forti perplessità circa la previsione dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per le controversie in materia di risarcimento del danno derivante dalla circolazione stradale ovvero da responsabilità medica o sanitaria. Tale soluzione non avrebbe alcun effetto deflattivo del contenzioso e piuttosto comporterebbe una inutile duplicazione di giudizi ed una dilatazione dei tempi processuali oltre che dei costi.  Altri margini di deflazione del carico sulla magistratura, avrebbe piuttosto l’assegnazione agli avvocati di funzioni rientranti nella volontaria giurisdizione, in materie disponibili. In conclusione il CNF esprime apprezzamento per il metodo di interlocuzione avviato dal Ministro riunendo insieme il CNF e l’ ANM ed auspica che esso prosegua fattivamente, come assicurato dallo stesso Ministro.


(Da Mondoprofessionisti del 31.3.2014)

Per evitare addebito separazione “gonfia” i maltrattamenti

Cass. Pen., sez. VI, sent. 20.1.2014 n° 2326

La sentenza in commento costituisce un importante arresto giurisprudenziale in materia di “maltrattamenti in famiglia”.

L’indagato (oggi tratto a giudizio con il rito immediato), a seguito della denuncia sporta dalla moglie nel maggio 2013 era stato attinto dalla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa coniugale e del divieto di avvicinamento e comunicazione con i familiari; per tramite della sottoscritta aveva impugnato detto provvedimento dinanzi al Tribunale della Libertà della capitale, sostenendo l’illegittimità della stessa in ragione del difetto di prove circa la commissione delle condotte ascritte e l’assoluta non riconducibilità delle stesse alla grave fattispecie di reato di cui all’art. 572 c.p., per come si evinceva dalla documentazione esibita.

Adduceva, a sostegno della sua tesi, la palese “strumentalità” della denuncia, finalizzata dalla coniuge all’ottenimento di condizioni di separazione vantaggiose, posto che egli le aveva richiesto la separazione circa cinque mesi prima della querela, avendo scoperto le numerose e ripetute infedeltà della medesima.

Il Tribunale del Riesame, dal canto suo, disattendendo completamente tutte le prove allegate dalla difesa, aveva rigettato il ricorso.

Proposta tempestiva impugnazione, la Suprema Corte nel dare atto dell’omessa valutazione delle prove a discarico, affermava che “sembra di poter agevolmente desumere come i comportamenti prevaricatori e/o violenti ascritti all’indagato, si riducono a tre nell’arco di un triennio, in contesto familiare e coniugale in costante deterioramento per via sia dei rapporti di segno negativo tra padre e figlio, sia dell’allentamento del vincolo coniugale determinante l’instaurazione di due relazioni extraconiugali da parte della XXXX. Così fissati i termini fattuali della vicenda non sembra però possibile poterli complessivamente ricomprendere in un contesto unitario, normativamente connotato dalla figura di reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi delineata dall’art. 572  c.p.”.

Orbene, nella specie, i Supremi Giudici, hanno valutato in tutt’altra maniera rispetto al Tribunale di Roma il contesto familiare e coniugale delineato dalla produzione di alcune chat Facebook intercorse fra i coniugi ed allegate da questo difensore al Riesame, arrivando alla conclusione che i reati eventualmente ascrivibili all’indagato sarebbero quelli di minacce, ingiuria e lesioni e non già quello di cui all’art. 572 c.p., mancando “l’unitarietà delle condotte”.

Va da sé che difettando le condizioni di procedibilità per tutti i reati evidenziati in sentenza a causa di un rilevabile difetto di querela nei termini di legge, anche l’esito del giudizio immediato disposto nei confronti dell’odierno imputato non appare più come invece era apparso al PM che lo ha richiesto ed ottenuto dal GIP.

La considerazione finale rispetto a questa intricata vicenda processuale, è che andrebbe evitato che vi siano casi in cui la denuncia verso il coniuge per reati gravi possa diventare una sorta di “escamotage” processuale finalizzato ad evitare l’addebito della separazione al denunciante, ovvero una vendetta di un coniuge nei confronti dell’altro ove mai non si riesca a raggiungere un accordo in ordine ai termini economici della separazione.

La giurisprudenza di merito ci ha dimostrato come, purtroppo, vi siano stati numerosi casi in cui uno dei coniugi ha utilizzato la legge penale a mo’ di clava per ottenere vantaggi patrimoniali dal coniuge da cui si stava separando, bypassando di fatto le norme codificate che regolano l’istituto dell’addebito.

Naturalmente vanno scriminate situazioni e comportamenti, così come ha fatto la Cassazione Penale nel caso in commento, ripristinando una prospettiva serena e logica rispetto alle prove fornite da indagato e parte offesa, che fortunatamente hanno consentito di affermare un principio di Diritto che non ha assolutamente tenuto conto della “sensibilità popolare” - come è giusto che sia - dimostrando ancora una volta come la Giustizia debba muoversi e valutare il caso singolo indipendentemente dal clima creatosi in conseguenza di gravi casi di cronaca che nulla hanno a che spartire con le vicende dei singoli indagati.


(Da Altalex del 26.3.2014. Nota di Concetta Nunnari)

sabato 29 marzo 2014

3.000 POST SU AGA NEWS!


Tanto per saperlo, due notizie fa AGA News ha superato i 3.000 post.
Il blog dell'Associazione Giarrese Avvocati ha registrato quasi 98.000 visualizzazioni da quando esiste, ovverosia circa tre anni e mezzo. 
Grazie.

Equa riparazione per tardiva equa riparazione?!

Cass. civ., Sez. Unite, 19.3.2014, n. 6312

Chiesta ed ottenuta una somma a titolo di equa riparazione, oltre interessi, per l'irragionevole durata del processo presupposto, ai sensi della legge n. 89 del 2001.

Il titolare del relativo diritto all'indennizzo ed agli interessi, nel perdurante inadempimento dell'obbligo di pagamento di detta somma da parte dell'Amministrazione, dopo aver promosso processo di esecuzione forzata per la realizzazione dello stesso diritto, non può successivamente promuovere un giudizio di equa riparazione in relazione al ritardo nel pagamento.

La domanda ex art. 3 della legge n. 89 del 2001 può essere, invero, unicamente proposta in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole.

Lionello Mattioli (da telediritto.it del 28.3.2014)

venerdì 28 marzo 2014

Gli avvocati promuovono Orlando

Il tavolo Avvocatura-Ministero rilancia il confronto
sulla modernizzazione della professione forense

“Ditemi cosa può fare per voi la politica”. Così il ministro di Giustizia ai rappresentanti del mondo forense. I tempi dell’arroganza della Cancellieri e dei contrasti violenti con via Arenula, sono ormai superati.  Con i nuovi vertici di via Arenula, il metodo dell’ascolto e del dialogo con tutti i protagonisti del sistema giustizia inaugurato dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando comincia a dare i suoi frutti rendendo più vicino il raggiungimento degli obiettivi di risanamento del sistema giudiziario e di rilancio della professione forense, fermo il potere di decisione finale che spetta al Guardasigilli.  Ieri a via Arenula si è svolta la prima riunione del tavolo di confronto sotto la regia del Ministro, per individuare nuove prospettive e nuovi modelli per l’avvocatura del futuro, da affiancare a quelli tradizionali, in relazione al nuovo quadro socio-economico. I temi trattati nell’incontro sono stati quelli dell’accesso alla professione, dell’organizzazione degli studi legali; e anche delle funzioni proprie dell’amministrazione pubblica che possono essere affidate in via sostitutiva agli avvocati. Fino a ora  si sono svolti due giorni di lavoro al Ministero della Giustizia, il primo, mercoledì, con avvocati e magistrati sulla riforma del processo civile; il secondo, ieri,  con il Cnf, la Cassa Forense e le rappresentanze associative dell’Avvocatura finalizzato ad individuare soluzioni per il rilancio della professione forense, sono stati raggiunti buoni risultati in termini di focalizzazione e analisi dei problemi che agitano il settore e di individuazione delle soluzioni operative più condivise possibile.  Il Ministro ha ben colto, dimostrando l’impegno concreto sin dalle prime battute del suo incarico, l’importanza di ricostruire le condizioni dell’ascolto e dunque del dialogo con tutti i soggetti che “fanno vivere la giurisdizione”, come egli stesso ha sottolineato intervenendo al IX Congresso Cnf. Positivo il giudizio sull’esito dell’incontro dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura. “Il Ministro Orlando – ha detto il presidente dell’Oua, Nicola Marino che era accompagnato dal vice presidente, Filippo Marciante e dal segretario, Paolo Maldari   -  ha parlato di una 'scommessa' che vuole giocare con l’Avvocatura per arrivare a costruire un percorso più ampio di condivisione anche per la nostra professione. Un'impostazione apprezzabile e da approfondire, soprattutto per i temi indicati per il confronto: il tirocinio, la formazione permanente, l’accesso alla professione, la società tra avvocati, gli obblighi assicurativi e previdenziali, il gratuito patrocinio e la difesa d’ufficio, la professione innanzi alle giurisdizioni superiori. Altri temi, invece, troveranno trattazione in ulteriori ambiti, tra questi anche quello della riforma della magistratura onoraria e della funzione di supporto che gli avvocati possono dare alla giurisdizione.   Come modus procedendi - hanno aggiunto - abbiamo condiviso la costituzione di gruppi di lavoro dell’Avvocatura (ciascuno si occuperà dei titoli sopra indicati) e un 'metodo" costante di interlocuzione aperta. I 'Tavoli, che l’Avvocatura formerà, gestirà e coordinerà, si convocheranno già entro 20 giorni, per presentare delle prime ipotesi di lavoro e un pacchetto di proposte”.  “Nel corso della riunione – hanno sottolineato Marciante e Maldari  - il Ministro ha anche chiarito che è necessario interloquire con Impresa e Università in ordine all’accesso alla professione, e con magistrati e personale amministrativo per ciò che attiene l’incentivazione del processo telematico. Una buona giornata per l'avvocatura che deve continuare sulla strada dell'unitarietà e della proposta" “Apprezziamo il cambio di passo del Ministro Orlando che, anche diversamente da qualche suo predecessore, dimostra di avere a cuore l'interlocuzione con l'avvocatura” ha detto a sua volta, il segretario generale dell’Anf Ester Perifano.  “Il Ministro ha proposto tavoli operativi, ai quali approfondire le tematiche delle società professionali e multiprofessionali, le specializzazioni, la riforma universitaria l’accesso e il tirocinio della professione, la difesa d'ufficio, il patrocinio a spese dello stato, la degiurisdizionalizzazione e il contributo dell'avvocatura alla giurisdizione.  tavoli saranno attivati al massimo entro 20 giorni e non saranno chiusi, ma aperti al confronto con altre componenti della società. Si tratta – ha continuato Perifano - di proposte estremamente stimolanti, a seguito delle quali l'avvocatura potrà portare dentro il Ministero la propria voce e le proprie proposte. L’ avvocatura è disponibile a contribuire alla soluzione di problemi che non sono certamente ad essa attribuibili, ma deve esserne riconosciuto il ruolo essenziale, sia nella giurisdizione che all'interno dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, che , ove necessario e utile, in un ruolo sussidiario o sostitutivo della Pa. “Si tratta dunque un’agenda su cui occorrerà lavorare intensamente, ma confidiamo possano esserci, nell’interesse degli avvocati e dei cittadini, prospettive finalmente soddisfacenti, anche grazie all’apertura di credito chiestaci dal giovane ministro e dalla sua promessa di massimo ascolto – ha concluso Perifano.


Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 28.3.2014)

Strisce blu, sosta oltre orario: su multe decidono i comuni

Questa storia delle multe legittime o non legittime sulle strisce blu iniziava a diventare ‘pesante’, per usare un termine carissimo a M.J. Fox nella saga di Ritorno al Futuro. Qui, in realtà, si trattava del ritorno in ritardo alla propria automobile, in sosta sulle strisce blu a pagamento dei centri cittadini: multa secca (attorno ai 34 euro) oppure, per richiamo del MIT, pagamento della sola differenza tra orario ‘grattato’ (o segnato) e orario di ritorno all’automobile?
A dirimere ogni controversia su questi divieti di sosta o meglio prolungamenti di sosta oltre orario consentito sulle strisce blu ci ha pensato il Ministero dei trasporti, che in una nota ha dirottato la patata bollente ai singoli comuni, responsabili della decisione. “Per le zone a strisce blu, laddove la sosta si protragga oltre il termine per il quale si è pagato, la sanzione pecuniaria potrà essere irrogata solo in presenza di specifica previsione del comune“. È quanto si legge in una nota emanata al termine dell’incontro tra i Ministri Lupi e Alfano e il presidente Anci, Piero Fassino.

Più nello specifico, si è convenuto che “la regolamentazione della sosta sulle strisce blu è competenza dei comuni che ne definiscono le modalità con proprio atto deliberativo“. Infine, conclude la nota, “quanto ai dissuasori di velocità – comunemente definiti autovelobox – appare evidente che possano essere installati e operativi soltanto dissuasori dotati di effettivi dispositivi di controllo“.

Fassino e Lupi sono arrivati all’incontro dopo aver ribadito in giornata le proprie posizioni in vista dell’incontro; per il sindaco, l’incontro sarebbe dovuto servire a cercare “un punto di sintesi“, e quindi “mi auguro che Lupi non venga lì solo per ripetere una cosa che non è concretamente gestibile“.

Per il Ministro, posto che “il principio generale è che i cittadini rispettano le leggi e anche gli amministratori devono farlo e non possono interpretarle“, il punto fermo è che “le multe non possono essere usate come tassazione indiretta sulla pelle dei cittadini”.

Ricordiamo, per completezza di informazione, che il Ministero dei trasporti aveva ripetutamente espresso nel tempo il parere che, nel caso di sosta oltre orario o illimitata tariffa sulle strisce blu, il pagamento in misura insufficiente non costituirebbe violazione di una norma di comportamento, ma configuri unicamente una “inadempienza contrattuale”.

Per l’Anci, invece, la questione è diversa: la norma (art. 7, comma 1. lett. f), del nuovo codice della strada) è chiara, così come il suo regime sanzionatorio: se la sosta avviene omettendo l’acquisto del ticket orario, deve necessariamente applicarsi la sanzione di cui all’articolo 7, comma 14, del codice; se invece la sosta si protrae oltre l’orario per cui è stata pagata la tariffa dovuta, si applicherà la disposizione sanzionatoria prevista dalla disciplina della sosta, anche in relazione a quanto disposto dal comma 132, dell’art. 17 della legge 127/1997, ovvero quella prevista dal regolamento comunale.

Ora decideranno i singoli comuni: ma quindi, se torno alla mia automobile e trovo una multa perché il biglietto del parcometro mi consentiva di restare 20 minuti in meno degli effettivi, cosa faccio? Mi reco in comune? E a quale sportello? Insomma, la sensazione è che i dubbi restino.


Matteo Peppucci (da www.lagazzettadeglientilocali.it)

giovedì 27 marzo 2014

Continua la luna di miele tra Avvocatura e Via Arenula

Sempre proficuo il dialogo con il Guardasigilli:
ieri l'incontro sul processo civile,
stasera il tavolo sull'Avvocatura

''Condivisione sul metodo'' tra avvocatura, magistratura e Guardasigilli, per trovare insieme ''soluzioni concordi per dare subito una prima risposta all'intollerabile lentezza del processo civile'. Ma anche la necessità di ''superare il conflitto tra un processo qualitativamente valido e il mantenimento al massimo delle garanzie, con un'accettabile durata''. È stato questo il giudizio espresso dal presidente dell'Unione nazionale Camere Civili, Renzo Menoni, ieri, a conclusione del secondo giorno del Tavolo sul processo civile che ha visto, nel confronto con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, la partecipazione, oltre all'Uncc (per cui era presente oltre al presidente Menoni, il segretario Laura Jannotta), di Cnf, Oua e Anm. Per il momento non sono fissate altre date per il Tavolo sul processo civile: ''Restiamo in attesa - spiega Menoni - che da via Arenula arrivi un documento di sintesi sulle posizioni e sugli argomenti sviscerati''. Un confronto che come il primo, spiega il leader dei civilisti, è stato ''proficuo'' e aperto al dialogo. Orlando si è impegnato a dare subito una risposta sulle proposte avanzate, e anche se ciò ''contrasta con la necessità di trovare soluzioni organiche che avrebbero bisogno di tempi più lunghi'', siamo ''soddisfatti della collaborazione e dell'attenzione mostrate dal ministro'.  Anche per il Consiglio Nazionale Forense il dialogo relativo alle soluzioni per rendere efficiente il processo civile, snodo essenziale per il rilancio del Paese, è proseguito proficuamente. Diverse le soluzioni tecniche sulle quali si è manifestata sintonia tra Cnf e Anm.  In particolare il Cnf ha ribadito l’importanza della introduzione di un sistema integrato di misura alternative al processo in tribunale, come la negoziazione tra le parti assistita dagli avvocati, la previsione di Camere arbitrali e altre forme innovative di istituti alternativi alla giurisdizione che vedono impegnata l’Avvocatura. Il ministro ha ribadito l’importanza del confronto che mette insieme i diversi attori del processo e si è impegnato a fissare altri incontri nei prossimi giorni per ulteriori e decisivi approfondimenti. Positivo anche il giudizio del presidente dell’Oua, Nicola Marino. “Una novità – ha sottolineato Marino - che rompe le vecchie barriere del passato, e che crediamo sia la base di una nuova stagione di riforme condivise. Il confronto continuerà anche nelle prossime settimane”.  Marino, ha messo in evidenza come con il ministro Orlando, “si sia riusciti a costruire un canale di comunicazione proficuo nella forma e positivo, pur con delle differenze di vedute, nella sostanza”. Nel merito, Nicola Marino ha ricordato, quindi, alcuni dei nodi affrontati: «Abbiamo precisato ulteriormente il nostro no all'obbligatorietà della procedura di conciliazione preliminare e all’ipotesi di gratuità della prestazione del legale. Abbiamo confermato il nostro sì all’arbitrato endoprocessuale sui giudizi pendenti e alla positiva valorizzazione del ruolo dell'avvocato per ridurre il contenzioso. Inoltre – ha aggiunto Marino - abbiamo ribadito che è ora di finirla con le scorciatoie coattive, serve un impegno per avviare una rivoluzione culturale sul grado di litigiosità nel nostro Paese, anche con incentivi e esenzioni fiscali. Forte accordo anche con i magistrati sulle necessarie modifiche al ddl delega Cancellieri. Motivazione a pagamento e responsabilità solidale del difensore nelle cosiddette liti temerarie, per citare alcuni dei nodi irrisolti, sono punti sui quali anche il ministro ha confermato la disponibilità a una seria revisione. Infine, da approfondire e precisare l’aumento di competenze per i giudici di pace: bisogna essere certi della capacità di tenuta degli uffici di fronte a un maggiore carico di lavoro, ma, soprattutto, avere garanzie certe della qualità e competenza dei giudici onorari. Crediamo, in tal senso, che sia urgente avviare una riforma complessiva del settore, con il necessario coinvolgimento dell’Oua. Il confronto prosegue –  ha concluso il presidente dell’Oua  – il nostro obiettivo è trovare soluzioni ai gravi problemi della giustizia italiana, a partire dalla lunghezza eccessiva dei processi e dall’enorme contenzioso, senza però sacrificare la tutela dei cittadini e il diritto di difesa».


Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 27.3.2014)

Astensione, giudice deve rinviare tranne casi eccezionali

Il giudice deve disporre il rinvio delle udienze nei giorni di sciopero degli avvocati, salvo in casi eccezionali che «rendano indifferibile la trattazione del processo». Questa la decisione presa dalle Sezioni unite penali della Cassazione. I giudici della suprema corte erano chiamati a pronunciarsi sulla seguente questione: «se, anche dopo l'emanazione del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, il giudice, in caso di adesione del difensore all'astensione, possa disporre la prosecuzione del giudizio, in presenza di esigenze di giustizia non contemplate nel codice suddetto».
La soluzione adottata dalle Sezioni unite è «negativa, salvo che sussistano - si legge nell'informazione provvisoria diffusa al termine della camera di consiglio - situazioni che rendano indifferibile la trattazione del processo». Solo in casi limite, dunque, quali ad esempio l'imminente prescrizione del reato, un teste venuto dall'estero per essere sentito nel processo, un giudice che dopo pochi giorni va in pensione, la Corte può decidere per la prosecuzione del giudizio, nonostante l'astensione del legale.


(Da ilsole24ore.com del 27.3.2014)

Bomboletta spray urticante: ci vuole porto d'armi!

Cass. Pen., sez. I, sent. 5.2.2014 n° 5719

Anche la bomboletta spray a contenuto urticante è da annoverare tra le armi comuni da sparo. E' quanto emerge dalla sentenza  5 febbraio 2014, n. 5719 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Il caso vedeva un uomo essere condannato per il reato di porto e detenzione illegale di alcune bombolette spray marca "American Style Nato Super Paralisant" contenenti una soluzione irritante-lacrimogena, in genere in dotazione alle forze di polizia per il controllo dell'ordine pubblico, a base di orto-clorobenziliden-malonitrile e ricorrere per Cassazione lamentando vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del reato (da definirsi ex art. 4 della L n. 110 del 1975), posto che la destinazione naturale del prodotto è costituita dalla difesa personale e stante la ridottissima potenzialità offensiva dell'oggetto.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che "integra il reato previsto dall'art. 4 L. 2 ottobre 1967, n. 895 e succ. mod., il porto in luogo pubblico di una bomboletta spray contenente gas urticante idoneo a provocare irritazione degli occhi, sia pure reversibile in un breve tempo, in quanto idonea ad arrecare offesa alla persona e come tale rientrante nella definizione di arma comune da sparo da cui all'art. 2, L. n. 110 del 1975" (Cass. pen., Sez. I, sent. n. 11753 del 28 febbraio 2012, rv. 252261). Già in tal senso anche Cass. pen., Sez. I, sent. n. 6106 del 13 gennaio 2009, rv. 243349, secondo la quale: "La bomboletta spray contenente sostanza urticante è compresa tra gli aggressivi chimici il cui porto illegale costituisce reato ai sensi della legge 2 ottobre 1967 n. 895".


(Da Altalex del 13.2.2014. Nota di Simone Marani)

mercoledì 26 marzo 2014

Inammissibile notifica ricorso tributario via Pec, manca decreto attuativo

Il mezzo consentito è rimasto la raccomandata
nell'attesa del provvedimento del ministero dell’Economia,
che pure prevedeva di dare il via 
alla posta elettronica certificata fin dal 2013

Nel processo tributario la notifica del ricorso introduttivo tramite la Pec è inammissibile: il mezzo consentito è la raccomandata, nonostante il decreto del Ministero prevedesse l’introduzione della posta elettronica certificata nel 2013. Lo ha sancito la Ctr di Benevento che, con la sentenza 395/13, ha ritenuto inammissibile il ricorso di un contribuente contro l’accertamento dell’Agenzia delle entrate circa l’attività di trasporto merci su strada per contro di terzi (la controversia risulta anteriore al primo marzo scorso quando è entrato in vigore 163/13, che comunque prevede l’individuazione di Ctp e Ctr pilota: cfr. “Via al processo tributario telematico: addio alla carta, si riducono i costi per gli operatori del settore”, pubblicato il 17 febbraio scorso).

La prima sezione ha ritenuto il ricorso inammissibile visto che l’atto è stato notificato con posta elettronica certificata (Pec) la quale, nei ricorsi tributari, non risulta ancora consentita.

Insomma, la commissione ritiene che la notifica all’ufficio finanziario del ricorso andava fatta con i mezzi previsti D.l. 546/92 e, pertanto, è legittima quella effettuata per il tramite della raccomandata postale: nel caso esaminato, però la consegna del plico raccomandato alle poste è stato spedito un mese dopo la scadenza della presentazione del ricorso e si rivela perciò intempestivo e dunque inammissibile. Si legge, al riguardo, in sentenza che «nel processo tributario sono previste attualmente solo le notifiche di atti di cancelleria per via Pec mentre non stato posto in essere nessun decreto ministeriale attuativo che prevede la notifica anche del ricorso introduttivo tramite posta certificata, nonostante che il decreto della direzione dipartimento Finanze del ministero dell’Economia n. 7425 del 26/04/2012 prevedesse l’introduzione nell’anno 2013: anche la maggior parte degli studiosi ed esperti in materia, in assenza di una pronuncia di organi giurisdizionali, concorda nel ritenere ancora non operante nello specifico la notificazione per il tramite della Pec in attesa di un necessario decreto attuativo del Ministero». Inammissibile il ricorso, nulla per le spese.


Vanessa Ranucci (da cassazione.net)

martedì 25 marzo 2014

Linea difensiva per opponente a d.i. su fattura

Assai frequentemente, nei giudizi civili tra imprenditori, si assiste all’emissione di decreti ingiuntivi su fattura, ed il più delle volte il difensore dell’opponente all’ingiunzione è chiamato ad elaborare – compito assai arduo – apposita linea difensiva sul punto.
I

Premessa l’impugnazione delle fatture in ogni loro parte, non va giammai dimenticato l’assunto a monte, vale a dire la nota natura della fattura commerciale di atto unilaterale-partecipativo, enunciante una mera manifestazione di volontà dell’emittente, e nulla più, attestato dall’unanime giurisprudenza:



Corte di Cassazione, 23 giugno 1997, n. 5573:

“un documento proveniente dalla parte che voglia giovarsene, non può costituire prova in favore della stessa, né determina inversione dell’onere probatorio nel caso in cui la parte contro la quale è prodotto contesti il diritto, anche relativamente alla sua entità, oltreché alla sua esistenza. Pertanto, nel processo di cognizione che segue all’opposizione a decreto ingiuntivo, la fattura non costituisce fonte di prova, in favore della parte che l’ha emessa, dei fatti che la stessa vi ha dichiarato”;



Corte di Cassazione, 28 aprile 2004, n. 8126:

“la fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, s’inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, e si struttura secondo le forme di una dichiarazione, indirizzata all’altra parte, avente ad oggetto fatti concernenti un rapporto già costituito, onde, quando tale rapporto, per la sua natura o per il suo contenuto, sia oggetto di contestazione tra le parti stesse, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, non può, attese le sue caratteristiche genetiche (formazione ad opera della stessa parte che intende avvalersene), assurgere a prova del contratto, e nessun valore, nemmeno indiziario, le si può riconoscere tanto in ordine alla corrispondenza della prestazione indicata con quella pattuita, quanto in relazione agli altri elementi costitutivi del contratto, tant’è che, contro ed in aggiunta al contenuto della fattura, sono ammissibili prove anche testimoniali dirette a dimostrare eventuali convenzioni non risultanti dall’atto, ovvero ad esso sottostanti”;



Corte di Cassazione, n. 3090/1979:

“le fatture commerciali, pur essendo prove idonee ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, hanno tal valore esclusivamente nella fase monitoria del procedimento, mentre nel giudizio di opposizione all’ingiunzione, come in ogni altro giudizio di cognizione, le fatture, essendo documenti formati dalla stessa parte che se ne avvale non integrano, di per sé, la piena prova del credito in esse indicato e non comportano neppure l’inversione dell’onere della prova in caso di contestazione sull’an o sul quantum del credito vantato in giudizio” (conff., idd., Corte di Cassazione 24 luglio 2000, n. 9685, Corte di Cassazione 25 novembre 1988, n. 6343; Tribunale di Taranto, 9 gennaio 2012, Tribunale di Isernia, 27 dicembre 2001, Tribunale di Cagliari, 16 dicembre 1992, Pret. Palermo, 22 luglio 1991).



La giurisprudenza unanime è, quindi, nel senso di negare recisamente l’idoneità probatoria della fattura nella fase monitoria.



II

Altro spunto potrebbe essere rappresentato dalla richiesta di prova in capo all’opposto, su sollecitazione dell’opponente, della regolarità amministrativa e fiscale della fatturazione, onde, ancora una volta, l’inidoneità della medesima a supportare l’ingiunzione, come conferma la lettura di Corte di Cassazione, 3 aprile 2008, n. 8549:



“la fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l’emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito – e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa – prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa”.



Ancora, come ha statuito la Corte di  Cassazione, 3 luglio 1998, n. 6502, solo nel caso in cui il rapporto non fosse contestato tra le parti – inciso, quest’ultimo, di fondamentale importanza, in quanto onere difensivo dell’opponente sarà proprio quello di contestare il rapporto sottostante – la fattura potrebbe costituire valido elemento di prova in ordine alle prestazioni eseguite, specie nell’ipotesi in cui il debitore abbia accettato, senza muovere alcuna contestazione, le fatture stesse nell’esecuzione del rapporto.



Viceversa, in un caso – come quello che si è ipotizzato nell’inciso sopra trascritto – di contestazione del rapporto sottostante, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, non può giammai assurgere a prova del negozio (Corte di Cassazione, 20 settembre 1999, n.10160), e non può rivestire neppure valore indiziario in ordine agli elementi contrattuali ovvero alla rispondenza della prestazione asseritamente eseguita a quella pattuita (cfr. Corte di Cassazione, 11 maggio 2007, n. 10860; id., 3 aprile 2008, n. 8549).



III

Il tutto non senza dimenticare che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, rivestendo i supposti creditore e debitore la natura, rispettivamente, di attore e di convenuto in senso sostanziale, e, per converso, quella di convenuto ed attore in senso solo formale, e non integrando, come detto, la fattura commerciale posta a base del monitorio piena prova del credito in essa indicato, non determina essa, in caso di contestazioni dell’opponente, alcuna inversione dell’onere della prova, con la conseguenza che, restando invariata la posizione sostanziale delle parti, l’onere della prova del credito continua a gravare sul creditore opposto (così, Corte di Cassazione n. 5573/1997), secondo la regola generale di cui alla non meno nota Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533:



“il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento”.



Concludendo, nei rapporti tra imprenditori, l’esibizione di fatture commerciali relative alle eseguite prestazioni non prova automaticamente l’esistenza del preteso credito, che, viceversa, deriva solo dall’esatto adempimento delle prestazioni medesime (Corte di Cassazione, 25 giugno 2001, n. 8664).


Giorgio Vanacore (da filodiritto.com del 20.3.2014)

lunedì 24 marzo 2014

“Ritocchino” in arrivo per la mediazione

Orlando: si può procedere 
ad un ripensamento della procedura,
purché ciò avvenga «all'interno di un sistema»
che contempli «altre forme di ricomposizione dei conflitti»

Doccia fredda per chi pensava che il nuovo ministro avrebbe rivoluzionato la mediaconciliazione obbligatoria. Andrea Orlando, ministro della giustizia nel corso del IX congresso giuridico-forense conclusosi sabato scorso a Roma,  ha affrontato il tema della reintroduzione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione (ripristinata lo scorso anno dal governo di Enrico Letta, mediante la legge 98/2013, dopo che, soltanto qualche mese prima, era stata bocciata dalla Corte costituzionale), chiarendo subito che, a questo punto, sarebbe «sbagliato pensare a tornare indietro». Tuttavia, secondo Orlando, si può procedere ad un ripensamento della procedura, purché ciò avvenga «all'interno di un sistema» che contempli «altre forme di ricomposizione dei conflitti». Secondo il titolare del dicastero di via Arenula, infatti, decidere, al momento di «smontare tutto» si rivelerebbe «controproducente», e anche su questo versante, prosegue, sarà tenuto in considerazione il dialogo con le categorie interessate. Nonostante ciò, qualche ritocco si può mettere in cantiere per giungere alla risoluzione delle controversie in «altre forme» e «fondamentale» si rivelerà il confronto con gli avvocati. E l'avvocatura non si fa cogliere impreparata, avendo già pronto l'elenco dettagliato delle proposte alternative al vincolo del ricorso alla conciliazione, così come stabilito dalla norma: innanzitutto, ricorda il Consiglio nazionale forense (Cnf), in tutta Italia gli ordini si sono già attivati ed hanno costituito 122 organismi di conciliazione e 16 camere arbitrali (a consentirlo le disposizioni contenute nella legge di riforma dell'ordinamento, 247/2012). Si tratta finora di un «buon risultato» in termini numerici, con margini di ulteriore miglioramento, in vista dell’organizzazione di «un servizio ramificato sul territorio con garanzia di preparazione, qualità e celerità di risposte ai cittadini». Nell'ambito dello stesso percorso di efficiente risoluzione delle liti, poi, si segnala la proposta della «translatio iudicii», un istituto che prevede la possibilità per le parti di una causa civile, anche pendente da tempo, di chiedere congiuntamente il trasferimento della causa dal tribunale ad una camera arbitrale istituita presso i consigli degli ordini forensi, «con conseguente riduzione dei tempi di decisione e alleggerimento del carico degli uffici giudiziari». Secondo il Cnf, seguendo tale strada, gli ordini contribuiscono, in una ottica di sussidiarietà, alla «semplificazione della giurisdizione statale, mettendo a disposizione uno strumento di soluzione alternativa delle controversie basato sulla volontà delle parti». E, soprattutto, forte di regole certe a beneficio del cittadino. Infine, un ruolo determinante lo svolge anche la negoziazione assistita da un avvocato, procedura partecipativa (già prevista in Francia) nella quale le parti in conflitto, che non hanno adito il giudice o un arbitro intentando una causa, decidono di risolvere in via amichevole il conflitto, assistiti dai propri legali; l’accordo raggiunto dalle parti è omologato dal tribunale.

(Da Mondoprofessionisti del 24.3.2014)

MULTE SU STRISCE BLU ILLEGITTIME

Ministero dei Trasporti:
nessuna sanzione
per chi sosta oltre l'orario.
Abolire gli Ausiliari del Traffico


Il nostro è un Paese che ha perso irrimediabilmente il senso di Patria, l'appartenenza ad un qualcosa di nobile che ci unisce per farci progredire.

Una Nazione ormai dalla quale chi può fugge senza rimpianti perché la patria del diritto e dei diritti, nelle grandi e nelle piccole cose, non esiste più.

Avremo, noi che rimaniamo, la forza di ricostruire qualcosa di buono da queste macerie prima morali che materiali?

Dopo anni di soprusi e vessazioni da parte dei Comuni italiani in danno dei loro malcapitati cittadini e degli utenti della strada, avvertiti come nemici da abbattere e ridurre al silenzio, le consorterie politicanti, anche con l'utilizzo spinto dell'inconcepibile categoria degli Ausiliari del Traffico, hanno calpestato in questi lunghi anni i diritti dei consociati; in tale refugium peccatorum gli insaziabili partiti politici, in un inciucione generale che ha sin qui funestato la storia d'Italia con le odiose Larghe Intese, riducendo la popolazione residente all'indigenza, hanno infilato orde di clientele (per lo più sprezzanti delle sacrosante lamentele di una cittadinanza indignata), totalmente ignoranti delle regole del Codice della Strada e finanche del Codice Penale (ho visto con i miei occhi elevare sanzioni a veicoli ancora coperti dal pagamento, ho assistito all'insolenza gratuita verso alti magistrati della Procura Generale della Corte di Cassazione, strapazzati sol perché umilmente domandavano un chiarimento per un'ingiusta sanzione che oltretutto comporta nel pagamento grandi perdite di tempo ed il tempo è denaro, ma non per i sudditi); a tratti pare che gli ausiliari del traffico, dipendenti privati della concessionaria, che hanno significativi incentivi a fare più mini-multe possibili, non si rendano neppure conto di quel fanno di giuridicamente erroneo o ingiusto, di quali siano compiti e poteri loro affidati dalla calamitosa Legge Bassanini, istitutiva di una categoria ibrida da sopprimere: l'ausiliare della sosta non dà l'affidabilità del vigile urbano; oltretutto, come insegna il S.C. che ha rigettato il ricorso per cassazione del PM avverso la sentenza di non doversi procedere perchè il fatto non sussiste emessa dal Gip di Torino in fattispecie di falso, l'ausiliare del traffico non riveste la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, in quanto la sua attività è circoscritta dall'art. 17, comma 132, l. n. 127/1997, così come interpretato dall'art. 68, l. n. 488/1999, alle funzioni di accertamento e contestazione delle violazioni in materie di sosta all'interno delle aree oggetto di concessione alle imprese di gestione dei parcheggi. Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza 43363/13; andrebbe potenziata, quindi, la Polizia Municipale in un sistema in cui l'importanza dell'ente Comune va privilegiata, in special modo se le Province verranno effettivamente soppresse.

Probabilmente la responsabilità più che a questi individui tendenzialmente inidonei al rapporto con il pubblico degli utenti e decisamente mandati allo sbaraglio, che girano come avvoltoi attorno alle nostre automobili, danneggiando anche il commercio ed i servizi, va a chi malamente li ha selezionati ed a chi per nulla li ha indottrinati. Fatto sta che l'esperienza si è rivelata pressoché fallimentare.

Finalmente ora pare profilarsi all'orizzonte un bagliore di legalità nel martoriato settore delle multe.

Francamente non m'importa un tubo - si tratta della maggiore preoccupazione, letti i commenti di ieri - di come i Comuni d'Italia faranno altrimenti cassa e mi auguro che ciò non avvenga architettando altre ignominie.

Purtroppo, l'introduzione e l'esistenza dell'assurdo contributo unificato, che per lo più ammonta ad importo assimilabile a quello in contestazione, rende il cittadino un suddito sprovvisto di rimedi, alla mercé del potere costituito.

Par, quindi, di sognare leggendo nelle espressioni del Ministero dei Trasporti guidato da Maurizio Lupi, non si sa se per biechi interessi elettorali in vista delle elezioni europee o cosa d'altro, quelle stesse tesi che su queste colonne si sono sempre sostenute, da anni, invano, a proposito della plateale illegittimità delle sanzioni relative all'insufficiente pagamento per la sosta sulle aree blù.

Leggiamo la notizia che ne dà il 21 marzo 2014 l'edizione online de Il Messaggero, con l'avvertenza che con l'acronimo Mit s'intende ovviamente il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e non, ahinoi, il Massachusetts Institute of Technology.

"Niente multa per chi sosta oltre l'orario pagato sulle strisce blu. Lo ha confermato il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti Umberto Del Basso De Caro rispondendo ad un'interrogazione parlamentare, questa mattina, indirizzata al ministro Maurizio Lupi, facendo chiarezza sui dubbi interpretativi sollevati da molti Comuni e su una presunta, ma inesistente, divergenza tra il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il ministero dell'Interno. Lo riferisce il Mit in una nota ricordando che il ministero dei Trasporti «ha ripetutamente espresso nel tempo il parere che, nel caso di sosta illimitata tariffata, il pagamento in misura insufficiente non costituisca violazione di una norma di comportamento, ma configuri unicamente una "inadempienza contrattuale. Pertanto, nei casi di pagamenti in misura insufficiente, l'inadempienza implica il saldo della tariffa non corrisposta».

«Niente multa, insomma, - ribadisce il Mit - perché in materia di sosta, gli unici obblighi previsti dal Codice sono quelli indicati dall'articolo 157, comma 6, e precisamente l'obbligo di segnalare in modo chiaramente visibile l'orario di inizio della sosta, qualora questa sia permessa per un tempo limitato, e l'obbligo di mettere in funzione il dispositivo di controllo della durata della sosta, ove questo esista; la violazione di tali obblighi comporta la sanzione prevista dal medesimo articolo 157, comma 8, del Codice medesimo».

Ma, obiettano alcuni Comuni, un parere del ministero dell'Interno del 2003 dice il contrario. Su questo, il Ministero dei Trasporti risponde che «non risulta alcuna situazione di conflitto interpretativo con il ministero dell'Interno: quest'ultimo, infatti - precisa il Mit - in seguito a un riesame della propria posizione espressa nel 2003, ha successivamente (nel 2007) condiviso la disamina della tematica svolta dal Mit ed emesso (nel 2010) una serie di pareri in tal senso, pareri condivisi dal Servizio della Polizia Stradale del Dipartimento di Pubblica Sicurezza». Fonte Il Messaggero.it

Quindi, la multa è pacifica se l'automobilista non ha pagato nulla; in questo caso si applica la sanzione per l'infrazione al divieto di sosta.

Se, invece, si è versato un importo che corrisponde ad una frazione di tempo, i Comuni non potranno più multare, ma richiedere l'importo differenziale non corrisposto. Faccio, infine, rilevare che i Comuni, tramite gli Ausiliari della sosta, multano persino in presenza dell'automobilista, invece di invitarlo (sottolineo: con le buone maniere!) a saldare il residuo non corrisposto in ipotesi di pagamento in misura insufficiente. Tale arrogante atteggiamento costringe il malcapitato ad una lunga fila alle Poste o altrove, con uffici cassa dei concessionari che spesso osservano orari ridotti (chiusi al sabato, ad esempio). Queste sono angherie belle e buone da Stato autoritario inflitte a chi, con le proprie tasse, tiene ancora in piedi questo ectoplasma di Stato.


Paolo Storani (da studiocataldi.it del 22.3.2014)

Avvocati e sindrome del burn-out

"Non ce la faccio più. Vorrei cambiare lavoro ma non ci riesco. Non sono sicuro e non so cosa fare". Se state attraversando una fase difficile della vostra vita lavorativa, e state mettendo in discussione la vostra scelta professionale, un primo suggerimento è quello di "rallentare". La decisione di appendere al chiodo la toga e smettere di occuparsi di questioni legali potrebbe essere la cosa giusta da fare. Ma, tenuto conto dei rischi e dei costi connessi, si tratta di una opzione da prendere in considerazione solo dopo aver capito quello che vi sta davvero succedendo.
Il momento in cui molti avvocati si rivolgono ad un consulente o ad uno psicologo del lavoro, è spesso quello in cui si sentono ormai falliti ed "esauriti". Depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale, senso di inadeguatezza, desiderio di scappare e "mollare tutto"... sono tra i sintomi tipici di un esaurimento emotivo. In altre parole, si tratta di manifestazioni psicologiche e comportamentali riconducibili alla sindrome del burn-out, termine traducibile con "scoppiato", "bruciato".
Le cosiddette "helping professions", che, in virtù della loro stessa natura, hanno una finalità di aiuto e sociale, e sono basate sulle interazioni e sui rapporti interpersonali, sono caricate da una duplice fonte di stress: quello personale e quello della persona (o della collettività) che rappresentano.
Chi soffre di burn-out, attraversa un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica (mancanza di energie, incapacità di sostenere lo stress accumulato), per cui vorrebbe prendere decisioni drastiche, spinto dalla disperazione, piuttosto che da una ispirazione o da una forte motivazione propositiva.
Poiché il pensiero, in questi casi, manca spesso di chiarezza, è importante prendersi del tempo per riflettere.
Anche se non tutti i problemi che gli avvocati incontrano lungo il loro cammino professionale, possono essere attribuiti all'attività lavorativa, il fatto che essi sperimentino tassi particolarmente elevati di burn-out suggerisce che alcuni fattori stressanti, tipici dell' essere avvocato, devono essere considerati, quantomeno, delle concause.
Pressioni di varia natura, sovraccarico di lavoro, competitività, necessità di tenersi costantemente aggiornati, difficoltà di coniugare vita provata con obblighi professionali, relazioni interpersonali spesso esasperate e con persone difficili... In aggiunta a questi fattori di stress esogeni, ci sono, evidentemente, elementi e tratti della personalità che possono rendere gli avvocati meno inclini a sopportare lo stress e le dinamiche tipiche della professione. Tra questi, il più significativo è il "perfezionismo".
Dal momento che la pratica della legge richiede un'analisi logica oggettiva e un'attenzione ai dettagli, la professione legale attira i perfezionisti i quali, spesso visti come inflessibili e poco inclini al cambiamento, tendono ad essere maniaci del lavoro, ossessionati dal controllo pur non essendo convinti di possederne. Poiché la perfezione non può essere raggiunta, lottare per essa può essere motivo di costante insoddisfazione.
Un'altra ragione per cui alcuni avvocati vivono l'esperienza del burn-out è legata al fatto che i valori e i principi fondamentali non sono sempre in linea con i comportamenti adottati. A volte questo problema si traduce in un conflitto psicologico interno, da cui deriva un cronico senso di colpa e un perenne sentimento di infelicità.
Se i sintomi non sono gravi, tali da suggerire l'intervento di uno specialista, vi sono una serie di tecniche di auto-aiuto che vale la pena provare. In primo luogo, si dovrebbe capire che la risposta allo stress umano passa attraverso una sequenza di quattro eventi:
Stimolo > Pensiero > Emozione > Comportamento
Di solito, un evento (o stimolo) scatenante innesca una risposta. La risposta iniziale si presenta sotto forma di una valutazione mentale conscia o inconscia e il pensiero provoca una risposta fisiologica interna. Questa si traduce in una o più emozioni, le quali guidano i comportamenti esterni di ciascuno.
Utilizzando questo modello, il primo tentativo dovrebbe essere quello di cercare di cambiare i fattori ambientali esterni che causano stress. Ad esempio, se non c'è abbastanza collaborazione in ufficio, provate a chiedere maggiore impegno da parte dei vostri colleghi. Siete messi costantemente sotto stress da scadenze irragionevoli? Provate a parlarne con la persona interessata o con chi ne è responsabile, e tentate di cambiare l'agenda e la distribuzione del tempo/lavoro. Ovvietà? Non esattamente.
Molti avvocati non cercano nemmeno di compiere questi semplici passi perché convinti che farlo, sia un segno di debolezza o di scarsa professionalità. In genere, questo tipo di logica (sbagliata) è un segno che l'avvocato è un "perfezionista".
Questo ci porta al secondo step e cioè, ridurre il proprio livello di perfezionismo. Per fare ciò è necessaria una prima e consapevole presa di coscienza, che si traduca in una rottura di modelli automatici di pensiero e che porti alla successiva modifica.
Ad esempio: supponiamo che siate dei perfezionisti e che il vostro partner senior vi chieda di occuparvi di un progetto particolarmente difficile (stimolo). Inoltre , ipotizziamo che vi venga imposta una scadenza irragionevole (stimolo) rispetto ad un'altra pratica di cui vi state occupando. La vostra prima reazione potrebbe essere quella di pensare: "Non ho scelta. Devo lavorare su questo progetto e accettare il termine. Se non lo facessi, dimostrerei che sono un incompetente".
I pensieri che sorgono, in risposta allo stimolo, attiveranno emozioni come la paura del fallimento e del rifiuto così come il senso di colpa . Come risultato, la risposta verso l'esterno sarà probabilmente dire "sì" e assumere l'incarico senza alcuna esitazione.
Queste reazioni creano un circolo vizioso. La vostra incapacità di dire "no" provoca infatti ulteriore (e maggiore) stress perché produce un carico di lavoro impossibile, aumenta le possibilità di commettere errori e riduce la capacità di coniugare lavoro e vita personale.
Al fine di migliorare la vostra situazione, è necessario aumentare la consapevolezza rispetto a questi tipi di pensieri ed emozioni e cominciare a rallentare il passo. Il modo migliore per farlo è quello di tenere un registro giornaliero (per almeno due settimane) e scomporre tutte le esperienze stressanti in quattro elementi: stimoli, pensieri, emozioni e comportamenti.
Una volta che sarete pienamente consapevoli dei vostri pensieri e delle emozioni perfezionistiche, dovrete iniziare ad interromperli. Il problema è che molti dei nostri pensieri disfunzionali sono il prodotto di atteggiamenti e reazioni ripetuti per anni, e che tendono pertanto a riproporsi uguali a se stessi, come guidati da una sorta di pilota automatico interno. Tuttavia, spezzando tale circolo vizioso, è possibile riprendere il controllo cosciente di tali pensieri ed emozioni, ed esaminare l'opportunità di assumere altri comportamenti.
Ad esempio, ci si potrebbe porre le seguenti domande: "Potrei suggerire che qualcun altro lavori su questo progetto viste le altre cose che ho da sbrigare? Potrei delegare alcuni dei miei lavori ad altri avvocati? È proprio vero che se legittimamente non posso fare tutto, devo lasciare perdere questo lavoro o comunque essere etichettato come un fallito?"
Naturalmente, è possibile che le risposte che darete alle domande appena poste, lascino intendere che sia tutta colpa dello stress e del burn-out e che non c'è niente che si possa fare al riguardo, tranne concedersi una bella vacanza. Se invece il perfezionismo è responsabile di gran parte del problema, allora dovreste giungere alla conclusione che non importa dove andrete: il problema sarà sempre con voi. Le sollecitazioni che il perfezionismo causa, emergeranno in qualsiasi lavoro. Lasciare il vostro attuale lavoro perché vi sentite falliti ed esasperati, non potrà essere la risposta a lungo termine ai vostri problemi.
Infine, un ultimo suggerimento: provate a valutare la misura in cui lo stress è causato dal fatto che la vostra vita lavorativa non è in linea con i vostri valori. Alcuni disallineamenti sono causati da valori interni (o comuni e condivisi) in conflitto  (ad es alta ambizione vs famiglia), mentre altri dal fatto che vi è un conflitto tra i vostri valori e quelli dell'organizzazione per cui lavorate (ad esempio, il successo finanziario a tutti i costi contro il comportamento etico).
Invece di scappare dal vostro lavoro e prima di fare qualsiasi mossa importante (di cui magari potreste poi pentirvi), cominciate ad esaminare più a fondo le questioni che causano lo stress e provate a considerare dei cambiamenti meno drastici. Siete ancora convinti di mollare tutto e di chiudere definitivamente con la legge? Beh, almeno ora lo farete per dei validi motivi... e non per disperazione!

Nadia Fusar Poli (da studiocataldi.it del 24.3.2014)

COMUNICAZIONI PEC NULLE SE MANCA ALLEGATO INTEGRALE

Nel corso degli ultimi anni si sono registrati numerosi e frammentari interventi legislativi sulle innovazioni in generale e specificamente sul tema della c.d. giustizia digitale. I primi interventi sono stati effettuati con riguardo alla posta elettronica certificata (PEC) obbligando i professionisti a comunicare la propria PEC all'Ordine di appartenenza, quindi i difensori ad indicare negli atti la PEC e modificando le norme del codice di procedura civile.
Riguardo alla PEC e alle comunicazioni di cancelleria, transitando prima dall'art. 4, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, recante "Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario", convertito con modificazioni dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24 e poi dalle regole tecniche con il DM 21/2/2011, n. 44 (così come modificato dalla DM 15/10/2012, n. 209), si è approdati alle disposizioni seguenti:

•art. 16, comma 3, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: "Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese", convertito dalla Legge 221/2012, che modifica l'art. 45 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie;

•art. 16, comma 4, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: "Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese", convertito dalla Legge 221/2012, secondo cui «Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi …»;

Nel corso di un giudizio di appello, definito dalla Corte d'Appello di Milano, Sezione Lavoro, con sentenza n. 224/2014 del 3/3/2014, è stata sollevata una questione preliminare sulla inammissibilità del reclamo perché lo stesso sarebbe stato proposto oltre il termine di decadenza di 30 giorni dalla comunicazione di cancelleria, termine appunto previsto dall' art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012. L'art. 1, comma 61, della medesima legge dispone che «In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l'articolo 327 del codice di procedura civile». In tale ultima ipotesi si applica il termine di sei mesi.

Nel caso di specie, ovviamente, la comunicazione di cancelleria è stata effettuata a mezzo PEC, ma la stessa non conteneva in allegato il provvedimento integrale e cioè la sentenza di primo grado. Il reclamante, pertanto, ha depositato il reclamo nel termine di sei mesi.

Il citato art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c. è stato modificato in questi esatti termini: «Il biglietto contiene in ogni caso l'indicazione dell'ufficio giudiziario, della sezione alla quale la causa è assegnata, dell'istruttore se è nominato, del numero del ruolo generale sotto il quale l'affare è iscritto e del ruolo dell'istruttore il nome delle parti ed il testo integrale del provvedimento comunicato».

La Corte d'Appello di Milano, con un'interpretazione, ad avviso dello scrivente rigorosa e corretta, delle norme citate ed in particolare del novellato art. 45 disp. att. c.p.c. e dell'art. 327, come richiamato dall'art. 1, comma 61, della L. 92/2012, ha dichiarato regolare il reclamo poiché proposto nel termine di sei mesi in assenza del provvedimento integrale allegato alla PEC con cui è stata eseguita la comunicazione di cancelleria. In buona sostanza, afferma la Corte, qualora il messaggio di PEC inviato dalla cancelleria non contenga il provvedimento integrale, la comunicazione non è «idonea a raggiungere lo scopo di una piena conoscenza della sentenza da parte dei destinatari, presupposto necessario per far decorrere il termine breve ed inderogabile di trenta giorni per la proposizione del reclamo (come previsto dalla legge 92/12, nel combinato disposto di cui ai commi 58 e comma 61 dell'art.1 citato)».

In virtù dell'applicazione del termine ordinario previsto dall'art. 327 c.p.c. ad avviso della Corte d'Appello di Milano è necessaria una domanda specifica diretta a far dichiarare la nullità della comunicazione di cancelleria «perché appunto l'effetto in qualche modo "sanzionatorio" della mancata comunicazione anche della sentenza è già automaticamente previsto dalla legge».

La vicenda che è stata definita con la citata sentenza della Corte d'Appello di Milano, evidenzia come sia rilevante, anche ai fini giuridici e non soltanto pratici e/o di maggiore utilità o comodità per gli operatori, porre attenzione ad un corretto utilizzo degli strumenti digitali nel settore della giustizia. Il PCT si avvia verso la generale obbligatorietà a decorrere dal prossimo 30 giugno, salvo proroghe, ed emergono profili specifici e criticità che devono essere risolti alla luce delle norme vigenti. Molto spesso, peraltro, si pensa alla digitalizzazione della giustizia in maniera limitativa, posto che non viene effettuata una interpretazione sistematica che tenga conto delle diverse norme presenti nel nostro ordinamento. Spesso si trascura di considerare l'intero impianto normativo contenuto nel codice dell'amministrazione digitale (CAD) che disciplina diversi istituti.

Pertanto, è evidente come l'introduzione dell'uso della PEC, posta elettronica certificata, nel processo civile non abbia affatto modificato le norme di rito che devono essere, pertanto, compiutamente rispettate. Gli strumenti informatici hanno lo scopo (primario?) di agevolare e migliorare le attività lavorative ed i processi. Le norme del codice di rito che, sebbene modificate per l'introduzione nel giudizio civile dell'uso della PEC, vanno sempre lette ed interpretate alla luce dei principi generali dell'ordinamento e le tecnologie non possono costituire norma e prevalere sulle disposizioni processuali vigenti.


Nicola Fabiano (da ilsole24ore.com del 24.3.2014)

venerdì 21 marzo 2014

Dialogo aperto tra l'Avvocatura e il Guardasigilli

L'Oua accoglie l'invito al confronto del ministro Orlando:
sospese le proteste, rimane lo stato di agitazione

L'Assemblea dell'Organismo Unitario dell'Avvocatura all'esito degli ultimi incontri intercorsi con il Ministro Orlando, dei prossimi già programmati, e del dibattito emerso nel corso degli Stati Generali dell'Avvocatura di ieri pomeriggio, ha approvato, oggi, la sospensione delle proteste in corso, pur mantenendo lo stato di agitazione. Nicola Marino, presidente Oua, alla fine dell’Assemblea ha sottolineato, come «l'incontro di ieri con il Guardasigilli abbia posto serie basi di dialogo. Il confronto con i presidenti di Ordini, Associazioni e con i delegati Oua di tutta Italia, ha consentito l'approvazione di una linea di apertura alla road map tracciata insieme al Ministro Orlando. Anche la celerità è apprezzabile, un segnale anche questo di discontinuità con i riti del passato basati su una concertazione solo di facciata. Da questo momento in poi, però conteranno i fatti: l’Oua è già al lavoro per elaborare proposte concrete sul processo civile al fine di tutelare davvero i cittadini (e le imprese), senza comprimere i diritti». L'Oua fa quindi appello all'unità della categoria e esprime solidarietà e vicinanza agli ordini territoriali forensi, in particolare a quelli di Lecce, della Sardegna, dell’Abruzzo e della Campania, e in generale all’Avvocatura italiana per aver dato vita alle proteste di queste settimane e alla manifestazione di Roma del 20 febbraio. «Non abbasseremo la guardia - conclude Marino - ma oggi, pur nella diversità, anche nelle forme di protesta, dobbiamo dimostrare unità per essere forti al tavolo delle trattative con il Ministro. Il primo obiettivo è modificare tutte le norme sbagliate e dannose per i diritti dei cittadini contenute nel ddl delega Cancellieri: dalla motivazione a pagamento della sentenza, alla responsabilità solidale dell'avvocato, al mutamento del rito ordinario in procedimento sommario da parte del giudice, per citare alcuni dei nodi più controversi». Continua, dunque, il clima di distensione tra i vari attori del processo civile. Ieri, infatti,  presso il Ministero della giustizia, si è tenuto il primo incontro per l’avvio del lavoro congiunto tra le rappresentanze istituzionali e associative di avvocatura e magistratura e il Ministro della Giustizia sul processo civile. L’appuntamento, è servito dunque per tracciare le linee di un percorso che si annuncia serrato: mercoledì è previsto un nuovo incontro con le stesse componenti.   L’impegno comune emerso dall’incontro è quello, da una parte, di proporre soluzioni condivise per la riforma del codice di procedura civile; dall’altra di sviluppare misure alternative al processo, come la negoziazione assistita e le Camere arbitrali e altri sistemi innovativi. 

Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 21.3.2014)

Orlando apre alle proposte dei giovani avvocati

L’intervento di ieri del Ministro della Giustizia Andrea Orlando al IX Congresso giuridico-forense per l’aggiornamento professionale organizzato dal Cnf apre un dialogo con l’Avvocatura che fino a poco tempo fa sembrava un’utopia. Soddisfatta Nicoletta Giorgi, Presidente di AIGA, associazione italiana dei giovani avvocati: "Il metodo che il Ministro intende adottare per le riforme in materia di Giustizia - convocando il "tavolo dell'Avvocatura" il prossimo 27 marzo - risponde ad una esigenza che abbiamo da sempre rappresentato e cioè quella del preliminare coinvolgimento e della condivisione con gli avvocati delle riforme in materia di giustizia”.  Nicoletta Giorgi esprime in particolare soddisfazione per “l'interesse che il Ministro ha mostrato per le proposte dell'AIGA volte a combattere il precariato dei giovani legali, progetti che tra l’altro saranno oggetto di discussione al prossimo Direttivo Nazionale che si terrà il 28 e 29 marzo a Pescara". Naturalmente è d'obbligo l'unità dell'avvocatura e, sul tema, il presidente Giorgi avverte: "In questo momento è di fondamentale importanza che non vi siano spaccature all'interno dell'avvocatura nell'interesse superiore della Giustizia. Noi giovani avvocati stiamo elaborando un pacchetto di riforma organica sia in materia civile che penale, con soluzioni innovative che avrebbero una immediata ricaduta positiva sul sistema ed auspichiamo che trovino una sintesi nel tavolo di confronto convocato dal Ministro".

(Da Mondoprofessionisti del 21.3.2014)

Per i compensi va valutato anche risultato

Cass. Civ., sez. VI–1, ord. 7.2.2014 n° 2863

Al fine del calcolo dell’onorario del professionista si deve valutare non soltanto l’importanza della prestazione svolta ma anche i risultati e i vantaggi che il cliente ha ottenuto.

È questo il principio di diritto affermato dal Supremo Collegio nell’ordinanza n. 2863 del 7 febbraio 2014.

La vicenda da cui trae origine la decisione del giudice di legittimità concerne la questione relativa alle modalità per la determinazione del compenso dovuto per l’attività professionale dell’avvocato. È utile ricordare che oggi, in seguito alla novella legislativa del 2012 (art. 9, L. n.  27/2012) che ha definitivamente abrogato le tariffe previste per le professioni ordinistiche, la determinazione del compenso dell’avvocato deve  avvenire, in via preferenziale tramite l’accordo tra il professionista e il cliente con la stipula di un contratto d’opera professionale, in mancanza del quale è rimesso alla valutazione del giudice vincolata all’applicazione dei parametri ministeriali fissati con D.M. n. 140/2012.

Nel caso in esame era sorta una lite tra un avvocato e la curatela fallimentare. Il legale aveva redatto un progetto divisionale di beni che,  non essendo stato condiviso dal giudice, era stato liquidato da quest’ultimo con una somma esigua. Di qui il ricorso alle vie giudiziarie da parte dell’avvocato secondo cui la propria attività deve essere in ogni caso remunerata trattandosi di un’obbligazione di mezzi.

Tale ''motivo è manifestatamente infondato''- afferma la Corte di Cassazione che rigetta quindi il ricorso dell’avvocato. Fattore determinante dell’onorario del professionista legale è - per i giudici di legittimità -  anche e soprattutto il raggiungimento di un vantaggio da parte del cliente.

Giungendo  ad una decisone simile, il Supremo Collegio si dimostra quindi conforme a quanto dal medesimo affermato in una sentenza precedente  (sent. 26 febbraio 2013, n.4781), che nel rivedere completamente il principio tradizionale secondo il quale l’attività dell’avocato non è un’obbligazione di risultato ma di mezzi, aveva stabilito che l’avvocato ha diritto al compenso solo e assicura al cliente una possibilità di vittoria.

Nella determinazione degli onorari del professionista legale rientra non soltanto l’importanza della prestazione professionale anche la valutazione dei risultati e dei vantaggi conseguiti dal cliente.  


(Da Altalex del 5.3.2014. Nota di Elisa Cinini)