sabato 30 aprile 2011

MAUGERI: “TANTE FATTISPECIE DI STALKING”

Si è concluso meno di un’ora fa, al Palazzo di Giustizia di Giarre, il quarto evento formativo organizzato dall’Associazione Giarrese Avvocati per l’anno 2011.
Il Socio Avv. Fabio Maugeri ha svolto un’interessante relazione su un tema attualissimo, lo “stalking”, che è stata seguita da circa duecento colleghi.
Maugeri si è soffermato sulle recenti normative in argomento ed ha illustrato statistiche e casistica, parlando di varie tipologie di “stalkers” e citando giurisprudenza di merito e di legittimità, ponendo l’attenzione sulle differenze tra questo reato di recente concezione (è nato in California a difesa dello “star system”) e reati tradizionali come la minacca e la diffamazione.
A fine incontro, dopo i meritati applausi per il brillante relatore, il presidente dell’AGA Avv. Fiumanò ha annunciato che il prossimo evento formativo si terrà il 21 maggio, in materia di diritto amministrativo.

venerdì 29 aprile 2011

Compensi agli avvocati, accordi validi se tutelati i minimi


Cassazione Civ., Sez. II, sent. n. 9488 del 28.4.2011

È legittima la convenzione conclusa fra un comune e l’avvocato difensore con determinazione degli onorari ai minimi tariffari e la possibilità di liquidare, a discrezione dell’amministrazione, una maggior somma in virtù dell’attività effettivamente svolta dal professionista.

DOMANI "LO STALKING" IN TRIBUNALE

Per quei (si spera) pochi distratti che ancora non lo sapessero (annunciato da locandine, e-mail, quotidiani, tv locali e più volte da AGA News), ricordiamo che domani Sabato 30 Aprile, al palazzo di Giustizia di Giarre, il Socio e Collega Avv. Fabio Maugeri, dalle 9 alle 12, relazionerà sul tema: "LO STALKING".
La partecipazione all'evento, gratuita per i soci AGA, dà diritto a n. 3 crediti formativi.

Nessun diritto al tempo libero

Escluso il risarcimento dei danni per la perdita del tempo libero subita da un avvocato, che aveva perso 4 ore per farsi riattivare la linea adsl a causa delle informazioni sbagliate fornite dall’operatore telefonico: il diritto al tempo libero non esiste.
Si è così espressa la Terza sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9422 del 27 aprile.
La fattispecie
Un avvocato, che aveva perso quattro ore per farsi riattivare la linea adsl di Telecom a causa delle informazioni sbagliate fornite dall’operatore telefonico, chiedeva il risarcimento dei danni per la perdita del tempo libero. Il Tribunale prima, la Corte d’appello poi e giudici di legittimità da ultimo rigettavano la domanda, riconoscendo solo il diritto al risarcimento dei danni subiti per l’illegittima sospensione delle linee telefoniche urbane e per le errate informazioni ricevute.
Il tempo libero non è un diritto fondamentale
Non solo la Costituzione italiana, ma anche la Convenzione Europea sui diritti dell'uomo, il Trattato di Lisbona con la Carta di Nizza, la Carta sociale Europea «non consentono di ritenere il diritto al tempo libero come diritto fondamentale dell'uomo e, nella sola prospettiva costituzionale, come diritto costituzionalmente protetto, e ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è rimesso alla esclusiva autodeterminazione della persona, che è libera di scegliere tra l'impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il suo tempo libero da lavoro e da ogni occupazione». 
Niente risarcimento per le ore perse a risolvere i guasti telefonici
In conclusione, per gli Ermellini va escluso il risarcimento «per un problema che si manifesta con preoccupante frequenza nella vita quotidiana, per cui gli utenti sono costretti a trascorrere ore a stare in coda, per un periodo di tempo tale da diventare causa primaria della oggettiva insufficienza di ogni giornata ad adempiere alle proprie incombenze lavorative».

(Da avvocati.it del 29.4.2011)

giovedì 28 aprile 2011

No all'addebito se la coppia è aperta

L'infedeltà reciproca è da considerarsi, di per sè, un motivo di disgregazione spirituale fra moglie e marito tale per cui in caso di separazione non c'è motivo di addebito per nessuno dei due coniugi.
Stessa casa, ma su piani diversi: il caso
La Cassazione ha affrontato il tema della c.d. “coppia aperta” con la sentenza n. 9074 del 20 aprile rigettando il ricorso principale di un facoltoso imprenditore milanese – ma anche quello incidentale della moglie - che aveva richiesto l'addebito della separazione alla donna in considerazione della ben nota relazione extraconiugale mantenuta in costanza di matrimonio.
Le risultanze istruttorie in fase di merito hanno dimostrato che il tradimento era da molti anni reciproco e frutto della comune scelta di instaurare un regime coniugale improntato a reciproca autonomia e libertà sentimentale, decidendo di vivere sotto lo stesso tetto, ma su piani diversi della casa, e di coltivare abitudini, stili di vita, interessi e svaghi non coincidenti.
Il Tribunale di Milano addebita la separazione alla moglie in virtù del tradimento emerso, ma la Corte d'Appello ribalta il verdetto accogliendo il gravame di lei ed eliminando l'addebito.
Quando manca l’affectio coniugalis
La Cassazione sposa le argomentazioni dei giudici d’appello sottolineando come la reiterata inosservanza da parte di entrambi i coniugi dell'obbligo di reciproca fedeltà, pur se ricorrente, non costituisce circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione in capo all'uno o all'altro o ad entrambi, essendo sopravvenuta in un contesto già di disgregazione della comunione spirituale e materiale tra coniugi.

(Da avvocati.it del 27.4.2011)

Niente dichiarazione IVA se la parcella non viene pagata

Non è obbligato alla presentazione della dichiarazione IVA il medico che, pur avendo eseguito prestazioni professionali, non ha ancora ricevuto il pagamento di tutti gli onorari. Ad affermarlo è la sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 9091 depositata il 20 aprile.
La fattispecie
Un medico non presentava la dichiarazione IVA poiché non aveva ancora ricevuto tutti i pagamenti per le prestazioni professionali svolte; conseguentemente l'ufficio finanziario emetteva avviso di rettifica. Il professionista impugnava l'atto impositivo e la CTR della Campania ne riconosceva l'illegittimità. Contro tale decisione l'Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, ma inutilmente.
Le prestazioni si intendono effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo
Sussiste - spiega la Corte Suprema - una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della sua percezione e la data di esecuzione della prestazione cui il corrispettivo si riferisce. Per cui, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data nella quale storicamente la stessa sia stata eseguita, bensì (salvo il caso di precedente emissione di fattura) quella di percezione del relativo corrispettivo.
Pertanto, ai fini della dichiarazione annuale IVA, il volume d'affari deve essere calcolato in relazione alla data di pagamento dei corrispettivi e non già a quella di effettiva esecuzione delle prestazioni professionali svolte.

(Da avvocati.it del 27.4.2011)

Proposte per una banca dati gratuita on line accessibile a tutti gli avvocati

L’aggiornamento dell’avvocato non si realizza unicamente attraverso la frequentazione di corsi di formazione o con la partecipazione ai convegni.
La moltitudine di impegni di natura professionale e famigliare, unita alla difficoltà negli spostamenti all’interno di una metropoli, rende quanto mai necessario ottimizzare i tempi e gli spazi destinati all’aggiornamento professionale. 
L’utilizzo delle banche dati giuridiche, disponibili on line, è ormai un elemento imprescindibile per l’avvocato che intenda aggiornarsi, rincorrendo le ultime novità normative e giurisprudenziali. Le banche dati rappresentano un mezzo irrinunciabile per la redazione di atti giudiziari; il problema più rilevante è però rappresentato dal costo degli abbonamenti che rendono spesso tali banche dati, inaccessibili alla maggioranza dei colleghi, limitando di fatto l’accesso, agli strumenti che consentano ai colleghi (soprattutto più giovani) di poter assistere il cliente in modo adeguato.
È vero che molte sentenze possono essere reperite su internet all’interno di siti web gratuiti, ma si tratta quasi sempre di banche date parziali o ancor peggio incomplete, in riferimento alle quali si ignora la fonte, con il conseguente rischio di estrapolare ed utilizzare sentenze, massimizzate in modo scorretto o parziale. 
Risparmiare su alcune voci di spesa inserite nel bilancio dei singoli consigli dell’ordine, consentirebbe (magari con l’ausilio di colleghi volenterosi), di creare, a costi ASSOLUTAMENTE ACCESSIBILI una banca dati giurisprudenziale completa ed aggiornata, corredata dalla prassi giurisprudenziale del Tribunale e della Corte di Appello di Roma (ricorrendo a tal fine anche ad un protocollo di intesa con gli Uffici Giudiziari competenti).
L’utilità di tale strumento sarebbe rilevante anche sotto il profilo della conoscenza dell’orientamento del singolo tribunale su casi specifici, indirizzando l’avvocato della scelta della più idonea linea difensiva, anche nelle materie in cui manifesta maggiori lacune conoscitive. Per quanto mi riguarda ho creato una banca dati on line gratuita sul diritto della famiglia e dei minori, destinata ai colleghi, relativamente alle sentenze di legittimità.
Si tratta di una banca dati parziale, ma essa rappresenta a mio giudizio uno strumento utile per agevolare i colleghi nell’esercizio della loro attività e l’inizio della realizzazione del principio di condivisione delle proprie energie e conoscenze tra colleghi, inteso come espressione del canone di solidarietà che dovrebbe ispirare ciascun collega nell’ambito della propria vita professionale, agevolando una cooperazione e collaborazione reciproca, la quale non potrà che giovare al singolo avvocato e all’immagine di tutta la classe forense.

Matteo Sandrini, Presidente nazionale del Centro Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori (da Mondoprofessionisti del 26.4.2011)

mercoledì 27 aprile 2011

IL 23 GIUGNO NUOVA ASTENSIONE CONTRO MEDIACONCILIAZIONE OBBLIGATORIA

“CHIEDIAMO AI GIUDICI DI DISAPPLICARE L’OBBLIGATORIETA’”

L’Organismo Unitario dell’avvocatura, Oua, forte dell’adesione compatta degli ordini e delle associazioni forensi (con l’isolata e marginale posizione di distinguo degli ordini di Roma e Venezia su 165 consigli), ha sottolineato la mancata apertura di un qualunque canale di dialogo da parte del Ministero della Giustizia e ricordato che la risposta alle decise e massicce proteste dell’avvocatura, nonché alle critiche avanzate da tutti gli operatori della giustizia (avvocati, magistrati, giudici onorari e di pace, funzionari, ecc),  passa per l’approvazione urgente dei ddl bipartisan, all’esame del Senato per la modifica della mediaconciliazione presentati da Benedetti Valentini e Della Monica. 
Allo stesso tempo, il presidente dell’Oua, Maurizio de Tilla, ha annunciato la proclamazione di un’ulteriore giornata di astensione per il 23 di giugno:
«La mediaconciliazione è stata rinviata dal Tar Lazio alla Corte Costituzionale e l’Oua denuncia da mesi i molteplici profili di incostituzionalità. Ma vi è di più, il sistema varato in Italia è in contrasto palese con la normativa europea perché è costoso per i cittadini, perché condiziona il successivo giudizio, per i tempi troppo lunghi. In sintesi perché limita l’accesso alla giustizia per i cittadini.  Quindi la mediaconciliazione “all’italiana”, unico esempio nel mondo, di fatto non rispetta i principi stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che, come prevede il Trattato di Lisbona, ha piena valenza giuridica nel nostro ordinamento. In questo senso l’Oua ha fatto propria la delibera dell’Ordine degli avvocati di Firenze che invita i giudici, su istanza delle parti, alla disapplicazione dell’obbligatorietà. Non solo, il 23 giugno faremo un’altra giornata di astensione dalle udienze. Gli avvocati rimangono al fianco dei diritti dei cittadini, contro la svendita a  interessi privati del diritto alla giustizia. La rottamazione della giustizia civile non ha riscontro in alcun Paese Europeo».

(Da Mondoprofessionisti del 27.4.2011)

Spiare vicini da terrazzo condominiale equivale a molestarli

Spiare i vicini equivale a molestarli. È questo il principio di diritto emerso con la sentenza n. 15450/2011 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione con cui un condominio è stato condannato a pagare una multa di 600 euro per il reato di molestie in quanto dal terrazzo condominiale era solito spiare i suoi vicini.
Addirittura, secondo quanto emerge dalla lettura della sentenza di legittimità, i vicini erano costretti a chiudere serrande e finestre, anche di giorni, per evitare gli occhi indiscreti dei suoi vicini. Il vicino però non si limitava a "guardare" ma offendeva le vittime con gesti beffardi con le mani e la bocca.
In seguito al ricorso delle vittime con cui il condomino era stato condannato a 600 euro di multa, l'imputato aveva proposto ricorso per la cassazione della sentenza di merito, per dimostrare che il terrazzo condominiale in questione fosse, in realtà, una dimora privata.
La Cassazione, rigettando la tesi difensiva e confermando la condanna ai danni dell'uomo ha in proposito spiegato che "la sentenza impugnata, con motivazione incensurabile, ha specificato che la terrazza in questione si trovasse al piano ammezzato fra il primo piano, dove era ubicato l'appartamento delle odierne parti offese ed il secondo piano, dove era ubicato l'appartamento del ricorrente e che ad essa si accedeva attraverso un'apertura del comune vano scale condominiale, sicché la terrazza in questione ben poteva qualificarsi come luogo aperto alla generalità dei condomini".

Luisa Foti (da studiocataldi.it del 20.4.2011)

Riceve la casa in regalo, ma non paga il funerale al donante

Revocato l'atto di liberalità. La natura remuneratoria non impedisce
la risoluzione per l'inadempimento dell'onere di assistenza

Accudirli e assisterli fino alla morte. E prendersi cura della loro sepoltura. C'è scritto chiaro e tondo nell'atto quali sono gli obblighi in favore dei donanti a carico dei donatari, che pure ricevono in cambio un appartamento. Eppure, quando uno dei due coniugi-benefattori se ne va al Creatore, i beneficati non adempiono all'obbligo di pagare le spese funerarie. E allora, contrariamente a quanto deciso in primo grado, la donazione deve essere dichiarata risolta. È quanto emerge da una sentenza emessa il 26 aprile 2011 dalla seconda sezione civile della Cassazione.
Modus in rebus
Non conta che la donazione abbia carattere remuneratorio (anzi «rimuneratorio», come dice il codice civile): non rileva, cioè, che l'atto di liberalità sia effettuato per compensare precedenti servigi resi dal donatario in favore del donante. La donazione, infatti, può ben essere remuneratoria per il passato e modale per il futuro: vale a dire che l'atto può ben prevedere espressamente la risoluzione in caso dell'adempimento di uno degli oneri posti a carico del donatario. Né si può legittimamente eccepire che la risoluzione in caso mancato adempimento del modus previsto sia una mera clausola di stile. Nel caso di specie, fra l'altro, la coppia dei donatari comincia ad assistere la coppia di donanti soltanto poco prima della liberalità, tanto da far dubitare della stessa natura remuneratoria dell'atto.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

Chi ha superato il periodo di comporto non può essere messo in aspettativa non retribuita

Impossibile per il datore modificare le condizioni del contratto
Ma il danno non è automatico

Troppe assenze dal servizio: scatta l'aspettativa non retributiva. Errore, anzi orrore. Il datore non può modificare unilateralmente le condizioni del rapporto di lavoro, a prescindere dal fatto che determinate assenze del lavoratore possano o meno essere computate ai fini del superamento del periodo di comporto. È quanto emerge da una sentenza emessa il 26 aprile dalla sezione lavoro della Cassazione.
Consenso necessario
Accolto, nella specie, il ricorso del dipendente. A undici mesi di distanza dalla data del rientro al lavoro dopo una lunga assenza l'impiegato si vede notificare il superamento del periodo di comporto e l'invito a presentare richiesta di aspettativa. In mancanza della domanda il datore lo sospende comunque dallo stipendio per quasi quattro mesi. Non conta che vi fosse contrasto fra datore e dipendente sulla natura di determinate assenze e, dunque, sulla relativa rilevanza ai fini del periodo di comporto. Le condizioni del contratto di lavoro non possono essere modificate unilateralmente da una parte: compie dunque un atto illegittimo il datore che sospende l'obbligazione retributiva. Tanto più che, nella specie, una norma del contratto collettivo dispone che l'aspettativa non retribuita può avere luogo soltanto con il consenso dell'interessato.
Onere della prova
Se la questione sarà definitivamente risolta solo dal giudice del rinvio, per ora di certo c'è che il dipendente non ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Come nel caso del demansionamento, infatti, il mero inadempimento da parte datore di per sé non basta a far scattare il ristoro: spetta a chi si proclama danneggiato provare il nesso di causalità fra l'inadempimento e la (eventuale) lesione e precisare quale tipo di pregiudizio egli ritenga di aver patito fra le molteplici forme esistenti.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

martedì 26 aprile 2011

Quando lo stalker è la ex moglie

Una donna, per le sue condotte aggressive nei confronti dell'ex marito, si è vista tramutare la misura cautelare del divieto di avvicinamento in arresti domiciliari.
Anche se incensurata e sottoposta a cure mediche, non può escludersi un'eventuale reiterazione del reato: la modifica della misura è legittima. La conferma di quanto già disposto dal Tribunale è arrivata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 15230/11, del 14 aprile.
La fattispecie
Nel maggio 2010, per la contestazione provvisoria del reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) in danno all'ex marito, una donna veniva sottoposta alla misura del divieto di avvicinamento a quest'ultimo.
Successivamente, il Gip accoglieva la richiesta del PM di sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, essendosi evidenziate più gravi esigenze cautelari.
Nello specifico, la donna aveva mandato messaggi offensivi col cellulare di un collega all'ex coniuge e diffuso documenti con accuse calunniose in merito a un presunto traffico di sostanze stupefacenti da parte dell'uomo e della sua famiglia.
La terapia ancora in corso non dà garanzie sulla cessazione delle condotte aggressive
Dalla certificazione sanitaria, rilasciata dal Centro di salute mentale, l'indagata risultava affetta da una patologia di tipo paranoideo che, da un lato, rappresentava una probabile chiave di lettura degli eventi e, dall'altro, non era ritenuta del tutto risolta a causa della recente instaurazione della terapia. Il tribunale, rendendo una valutazione del tutto «razionale e plausibile», ha argomentato che la terapia (volontaria), essendo ancora in corso, non dava garanzia sulla cessazione delle condotte aggressive.
Tali circostanze rendono infondate, tra le altre, anche le doglianze sulla mancata applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, visto il pericolo di reiterazione.
La Corte di Cassazione, perciò, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese giudiziali.

(Da avvocati.it del 22.4.2011)

Il processo conviene? Nessun rimborso per le spese anteriori all'instaurazione del giudizio

Non è possibile promuovere un nuovo giudizio per ottenere il rimborso delle spese legali affrontate prima di proporre quel giudizio al fine di valutare la convenienza di instaurarlo.
È quanto affermato dalla Terza sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8985 depositata il 19 aprile.
La vicenda
Dopo aver ottenuto l’annullamento di una multa relativa ad un’infrazione del codice della strada poiché il relativo verbale non era stato notificato nei termini di legge, una donna conveniva innanzi al Giudice di pace la società di riscossione e la prefettura, affinché fossero condannate al risarcimento dei danni subiti: a seguito di quella notifica la signora si era dovuta rivolgere ad un legale, si sentiva frustrata, turbata, impotente e stressata.
Riconosciuto solo il danno patrimoniale
Il giudice di pace, decidendo secondo equità, ha escluso la possibilità di riconoscere il danno non patrimoniale ma ha, invece, riconosciuto quello patrimoniale sul rilievo che nella precedente sentenza il giudice di pace si era riferito alle sole spese processuali e non a quelle stragiudiziali anteriori all'instaurazione del giudizio ed affrontate "al fine della valutazione sulla convenienza" di instaurarlo.
Non è possibile promuovere un nuovo giudizio per il rimborso delle spese legali
La società di riscossione ricorre per cassazione, lamentando violazione del giudicato: la pronuncia sulle spese legali, anche anteriori alla causa, sostenute dalla donna, doveva essere ricompresa nella statuizione sulle spese processuali, adottata a chiusura del giudizio che aveva annullato la cartella di pagamento. Inoltre, a detta della ricorrente, la signora avrebbe potuto caso mai impugnare quella sentenza, dolendosi della compensazione che necessariamente comprendeva l'attività stragiudiziale, strumentale a quella processuale poi espletata, ma non promuovere un nuovo giudizio per richiedere di essere tenuta indenne di quanto aveva versato al legale prima di insorgere contro la cartella di pagamento.
Violato il giudicato esterno, rilevabile anche d'ufficio
Tale linea difensiva viene condivisa dalla Suprema Corte: le spese per l'assistenza legale anteriori all'instaurazione del processo rientrano fra quelle concernenti lo "studio della controversia", che vengono sostenute dalla parte e liquidate dal giudice che provvede sulla domanda, che, nel caso in esame, ha già necessariamente statuito su quelle spese, ritenendo di compensarle. Va conseguentemente escluso che, esaurito un giudizio, si possa nuovamente adire il giudice con autonoma domanda, con la quale si richieda il rimborso delle spese legali affrontate prima di proporre quel giudizio al fine di valutare la convenienza di instaurarlo.

(Da avvocati.it del 22.4.2011)

lunedì 25 aprile 2011

OUA, valutazioni contro il ddl sulla rottamazione del processo civile


VALUTAZIONI DELL’OUA SUL DISEGNO DI LEGGE N. 2612
PRESENTATO DAL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
DI CONCERTO CON IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
SULLA ROTTAMAZIONE NEL PROCESSO CIVILE

1) Articoli 1 e 2 del disegno di legge – Gestione contenzioso civile pendente
Il carico pendente deve smaltirsi realizzando l’Ufficio del Giudice che consenta al Magistrato giudicante di potersi avvalere della collaborazione di figure meritevoli con laurea in giurisprudenza che desiderano svolgere formazione professionale negli uffici giudiziari o giovani avvocati che non esercitano nella stessa circoscrizione di Tribunale.
In ogni caso la sentenza deve comunque sempre essere valutata dal Giudice altrimenti vi sarebbe contrasto con l’art. 102 della Costituzione.
Se non ci sono fondi per finanziare questo impegno da parte dei collaboratori, si potrebbero attribuire ai più meritevoli titoli o punteggi utilizzabili in concorsi pubblici.
Appare opportuno l’affidamento ai COA del compito di selezionare i collaboratori del Giudice in base a criteri di trasparenza e merito.
Sarebbe anche utile valorizzare la figura del Giudice laico attraverso una razionalizzazione delle competenze e degli uffici.
2) Articolo 4 del disegno di legge – Onere presentazione istanza per evitare la perenzione del processo
Qualsiasi intervento diretto a sfoltire l’arretrato attraverso nuovi adempimenti da parte degli avvocati e delle parti, come la formulazione di nuove istanze per evitare la perenzione dei processi, non risponde a criteri di correttezza considerato che le parti sono assolutamente incolpevoli delle lungaggini dei giudizi, conseguentemente non si comprende perché le stesse debbano essere gravate di un onere mortificante ed offensivo; considerato che il processo, anche in Cassazione, offre già le norme che ne consentono l’uscita ove ciò si voglia.
Peraltro non deve sfuggire che le parti ormai pagano in modo considerevole l’accesso alla giustizia, attraverso il sempre più esoso contributo unificato.
3) Articolo 5 del disegno di legge – Sentenza con motivazione breve
Decisa contrarietà alla sentenza con motivazione breve con onere da parte della difesa di chiedere la motivazione a pagamento entro quindici giorni dalla pronuncia ove voglia impugnarla.
La stessa terminologia usata dal proponente “sentenza con motivazione breve” è un non senso atteso che la motivazione per sua natura non deve essere breve, né lunga: deve essere motivazione e basta così da porre il destinatario nelle condizioni di seguire il ragionamento logico e deduttivo, essendo rimessa poi l’esposizione sintetica alla capacità naturale del relatore.
E’ evidente allora che la norma intende accelerare i tempi della giustizia svilendo la natura del provvedimento decisorio, creando in quanto a tempi, modalità e costo un sistema che solo apparentemente consente di porre fine alla controversia con nocumento per i cittadini, per i legali e per gli stessi Giudici che, ove compulsati, dovrebbero con grande sforzo di memoria ripercorrere il ragionamento che li ha condotti alla sentenza con motivazione breve.
Deve osservarsi, ancora, che il sistema, come architettato, determina un allungamento dei tempi di pubblicazione della sentenza.
Dagli odierni 60 giorni assegnati al Giudice, si rischia di passare a complessivi 75 (30+15+30).
Si tratta di una norma sganciata da qualsiasi razionalità ed utilità e mira a degradare la sentenza rendendola meno rilevante ed importante di un qualsiasi atto amministrativo per il quale è previsto un termine di giorni 60 per l’eventuale impugnazione.
Infatti con la riforma proposta dal governo in realtà si mira soltanto a scoraggiare l’appello, concedendosi quindici giorni per impugnare e, sottoponendo tale possibilità, al pagamento anticipato del contributo unificato.
Mortificare la consolidata tradizione del sistema processuale italiano che si è sempre basato sui tre gradi del giudizio è un autentico vulnus al sistema giustizia, non a caso proposto contestualmente all’introduzione della media – conciliazione con l’evidente fine di privatizzare la giustizia delegandola ai poteri forti.
Appare evidente che ancora una volta si rischierebbe una violazione degli artt. 24 e 111 della Cost., sia perché l’accesso alla giustizia sarebbe ancora una volta condizionato da un pagamento (che questa volta sarebbe doppio, perché si pagherebbe un doppio contributo unificato per il giudizio di primo grado, essendo del tutto ipotetica la promozione del giudizio di appello), sia perché il comma sesto dell’art. 111 impone che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati, mentre in questo caso la completa motivazione sarebbe condizionata dal versamento di una somma di denaro.
Tra l’altro, l’unico termine previsto a pena di decadenza è quello, veramente strangolatorio, di 15 giorni, con conseguenti rischi di responsabilità per l’avvocato, che dovrà: a) leggere la motivazione succinta; b) contattare il proprio cliente, che per ipotesi, potrebbe essere difficilmente reperibile (sarebbe sufficiente un viaggio dello stesso all’estero per motivi di lavoro o persino di svago per far saltare la possibilità di impugnare la sentenza in secondo grado); c) valutare con lo stesso l’opportunità di chiedere la motivazione integrale; d) pagare il contributo unificato; e) depositare l’istanza.
E’ verosimile pensare che un avvocato che per qualsiasi ragione non sia stato in grado di conferire con il proprio assistito, si veda costretto a versare di sua tasca il contributo unificato, pur di non pregiudicare la possibilità del suo assistito di impugnare la sentenza.
Il che, d’altro canto, equivale a dire anche che il cittadino, semmai male assistito in primo grado, dopo aver pagato il contributo unificato soltanto per ottenere la motivazione della sentenza, con istanza che sarà sottoscritta verosimilmente dal suo difensore di primo grado (visto il brevissimo spatium deliberandi), ben difficilmente avrà la possibilità di sganciarsi dal precedente difensore.
Senza contare che la decadenza di cui sopra andrebbe a collidere con i casi disciplinati dagli artt. 326, 327 c.p.c., infatti quest’ultimo articolo prevede che le disposizioni di decadenza non si applicano quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità di citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.
Inoltre il termine breve, previsto a pena di decadenza per richiedere ed ottenere la motivazione della sentenza in forma integrale, mal si concilierebbe con l’istituto della revocazione prevista dagli artt. 395, 396, 397 c.p.c. che consentono alle parti di impugnare la sentenza entro determinati termini che sono incompatibili con quelli stabiliti nel disegno di legge che si contesta..
Il Giudice, viceversa, non avrebbe alcuna conseguenza, se non quella meramente ipotetica, di ordine disciplinare, se, come già avviene molto spesso, depositasse la motivazione integrale fuori dai termini indicati dal codice.
Se veramente il governo avesse a cuore la volontà di velocizzare il processo, anziché distruggerlo e rendere inaccessibile la giustizia soprattutto ai meno dotati economicamente, potrebbe limitarsi a proporre l’estensione ad ogni giudizio di primo e secondo grado della norma prevista dall’art. 281 – sexies. c.p.c. non intaccando assolutamente le norme sull’impugnazione, che sono a garanzia del cittadino e proporre inoltre un seminario di studi tra magistrati operativi ed avvocati perché suggeriscano con un documento congiunto le soluzioni per contenere il processo civile nei limiti temporali accettabili senza spese aggiuntive.
Inoltre, sarebbe necessario tentare di codificare, semmai in forma di regolamento, senza porre mano ulteriormente al codice di rito, già troppe volte modificato negli ultimi 15 anni, le buone pratiche di gestione delle udienze e del contenzioso che diversi Tribunali, a partire da quelli di Torino (vedi circolari Barbuto) e Bolzano, hanno messo in opera.
Si potrebbero potenziare i sistemi di conciliazione endoprocessuale, valorizzando l’art. 185 c.p.c., prevedendo ulteriori incentivi di ordine fiscale e non soltanto in tema di tasse di registro a favore delle parti che conciliano, e prevedendo, altresì, incentivi a favore dei Magistrati che riuscissero a portare a definizione, con mezzi alternativi alla sentenza, il maggior numero di processi.
Un’accelerazione del processo potrebbe venire pure dalla unificazione dei riti con l’introduzione del solo rito del lavoro per tutte le controversie.
4) Art. 7 del disegno di legge- Spese di giustizia
Gli oneri a cui il cittadino è sottoposto per l’accesso alla giustizia sono ormai enormi e quindi ogni ulteriore aumento mira soltanto a comprimere il diritto di accesso alla giustizia. Sul punto si consideri anche il costo eccessivo, indipendente dal risultato, previsto per la mediazione obbligatoria.
E’ innegabile che il disegno di legge mira a scoraggiare sempre di più il cittadino a fare ricorso alla giustizia che finirà per diventare un lusso riservato ai più dotati economicamente.
5) Art.8 del disegno di legge – Giudici ausiliari
Decisa contrarietà all’ingresso dei così denominati “Giudici Ausiliari” da nominare nel numero massimo di seicento tra gli avvocati dello Stato a riposo e magistrati ordinari, contabili e amministrativi a riposo che non abbiano superato i 75 anni di età.
E’ sufficiente dividere il numero dei giudizi che il Ministero indica da smaltire nella misura di circa cinquemilioni tra i seicento giudici ausiliari per rendersi conto che, dovendo ciascuno di essi smaltire circa ottomila giudizi, si tratta di una misura inutile e demagogica con costi che si intendono finanziare attraverso l’aumento delle già esose spese di giustizia.
Non si vede come persone ormai in pensione possano avere le capacità e gli stimoli per decidere con professionalità migliaia di cause anche di rilevante importanza.
L’unica certezza è che andrebbe ad aumentare a dismisura il numero delle sentenze impugnate.

(Da oua.it del 22.4.2011)

Inadeguato il ddl Alfano sullo smaltimento dell’arretrato civile

NO ALLA ROTTAMAZIONE DELL’ARRETRATO GIUDIZIARIO

L’Organismo Unitario dell’Avvocatura Oua (con un elaborato della Commissione procedura civile-Adr, coordinata da Claudio Consales), ha preparato un documento sul disegno di legge 2612 sullo smaltimento delle cause pendenti, presentato dal ministro di Giustizia, Angelino Alfano e all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Il giudizio dell’Oua è negativo e per questa ragione ha elaborato una serie di proposte e osservazioni che invierà alla stessa Commissione, chiedendo anche un’audizione.
Per Maurizio de Tilla, presidente Oua, assistiamo all’ennesimo provvedimento sulla giustizia che risponde a logiche emergenziali e non di risoluzione strutturale dei problemi del settore: «È un taglio netto all’idea stessa di una giustizia giusta ed efficiente. Il progetto all’esame del Parlamento ha la stessa filosofia di fondo di altri analoghi presentati in passato dal ministro Alfano, ridurre l’arretrato con ogni mezzo necessario, con meccanismi a cottimo, con una logica ragionieristica, a scapito proprio dei diritti di quei cittadini che attendono da anni una sentenza. È chiaro che interventi del genere durano l’arco dell’emergenza stessa, poi si rimane in attesa che si ripropone il problema. Alcuni esempi: l’ingresso dei “Giudici Ausiliari”, da nominare nel numero massimo di seicento tra gli avvocati dello Stato a riposo e magistrati ordinari, contabili e amministrativi a riposo che non abbiano superato i 75 anni di età.
E’ sufficiente dividere il numero dei giudizi che il Ministero indica da smaltire nella misura di circa cinquemilioni tra i seicento giudici ausiliari per rendersi conto che, dovendo ciascuno di essi smaltire circa ottomila giudizi, si tratta di una misura inutile e demagogica con costi che si intendono finanziare attraverso l’aumento delle già esose spese di giustizia.
Non si vede poi come persone ormai in pensione (non selezionate) possano avere le capacità e gli stimoli per decidere con competenza migliaia di cause anche di rilevante importanza, che non hanno seguito in istruttoria.
L’unica certezza è che andrebbe ad aumentare a dismisura il numero delle sentenze impugnate. Oltre al danno dei tempi lunghi potrebbe arrivare la beffa della decisione sbagliata per milioni di cittadini. Tutto ciò, invece di potenziare adeguatamente l’ufficio del giudice, consentendo al Magistrato giudicante di potersi avvalere della collaborazione di professionisti meritevoli, con laurea in giurisprudenza, che desiderano svolgere formazione professionale negli uffici giudiziari o giovani avvocati che non esercitano nella stessa circoscrizione di Tribunale, affidando in questo caso, ai Consigli degli Ordini degli forensi il compito di selezionare i collaboratori del Giudice in base a criteri di trasparenza e merito. Da valorizzare, inoltre la figura del Giudice laico attraverso una razionalizzazione delle competenze e degli uffici ad una retribuzione adeguata con copertura previdenziale».
«Inaccettabile – continua il presidente Oua - la previsione di nuovi adempimenti a carico degli avvocati e delle parti, come la formulazione di nuove istanze, una scelta che non risponde a criteri di correttezza considerato che le parti sono assolutamente incolpevoli delle lungaggini dei giudizi e che, oltretutto ormai pagano in modo considerevole l’accesso alla giustizia, attraverso il sempre più esoso contributo unificato. Decisa contrarietà, inoltre, alla sentenza con motivazione breve con onere da parte della difesa di chiedere la motivazione a pagamento entro quindici giorni dalla pronuncia nel caso voglia impugnarla. Tra l’altro, l’unico termine previsto a pena di decadenza è quello, veramente strangolatorio, di 15 giorni, con conseguenti rischi di responsabilità per l’avvocato, che dovrà: a) leggere la motivazione succinta; b) contattare il proprio cliente, che per ipotesi, potrebbe essere difficilmente reperibile (sarebbe sufficiente un viaggio dello stesso all’estero per motivi di lavoro o persino di svago per far saltare la possibilità di impugnare la sentenza in secondo grado); c) valutare con lo stesso l’opportunità di chiedere la motivazione integrale; d) pagare il contributo unificato; e) depositare l’istanza. E’ verosimile pensare che un avvocato che per qualsiasi ragione non sia stato in grado di conferire con il proprio assistito, si veda costretto a versare di sua tasca il contributo unificato, pur di non pregiudicare la possibilità del suo assistito di impugnare la sentenza. È bene ricordare che una sentenza deve essere giusta, circostanziata e nel minor tempo possibile, ma non può essere trattata come un piatto da fast food, come un bene di consumo massivo».
«Se veramente il Governo avesse a cuore la volontà di velocizzare il processo – conclude de Tilla - anziché distruggerlo e rendere inaccessibile la giustizia soprattutto ai meno dotati economicamente, potrebbe limitarsi a proporre l’estensione ad ogni giudizio di primo e secondo grado della norma prevista dall’art. 281 – sexies. c.p.c. non intaccando assolutamente le norme sull’impugnazione, che sono a garanzia del cittadino e proporre un incontro dei sottoscrittori del Patto per la Giustizia con l’approvazione del decalogo dell’OUA per il buon funzionamento della macchina giudiziaria. Da subito, sarebbe necessario tentare di codificare, semmai in forma di regolamento, senza porre mano ulteriormente al codice di rito, già troppe volte modificato negli ultimi 15 anni, le buone pratiche di gestione delle udienze e del contenzioso che diversi Tribunali, a partire da quelli di Torino (vedi circolari Barbuto) e Bolzano, hanno messo in opera.
Invece di puntare sulla mediaconciliazione obbligatoria, ulteriore grave e incostituzionale limitazione dei diritti dei cittadini, con l’evidente fine di privatizzare la giustizia delegandola ai poteri forti, si potrebbero potenziare i sistemi di conciliazione endoprocessuale, valorizzando l’art. 185 c.p.c., prevedendo ulteriori incentivi di ordine fiscale e non soltanto in tema di tasse di registro a favore delle parti che conciliano, e prevedendo, altresì, incentivi a favore dei giudici che riuscissero a portare a definizione, con mezzi alternativi alla sentenza, il maggior numero di processi. Un’accelerazione del processo potrebbe venire pure dalla unificazione dei riti con l’introduzione del solo rito del lavoro per tutte le controversie. Per tutte queste ragioni abbiamo inviato questo documento alla Commissione Giustizia e chiediamo pertanto di essere ascoltati».

(Da oua.it del 22.4.2011)

SABATO 30 EVENTO AGA SULLO "STALKING"

Sabato 30 Aprile 2011, dalle ore 9 alle ore 12, nell'androne del Palazzo di Giustizia di Giarre (corso Europa), si terrà il quarto evento formativo organizzato per l'anno 2011 dall'Associazione Giarrese Avvocati, sul tema: "Lo stalking”, relatore  il nostro socio e collega Avv.  Fabio Maugeri.
La partecipazione all’evento dà diritto a n. 3 crediti ai fini della formazione obbligatoria continua.

venerdì 22 aprile 2011

AUGURI DI BUONA PASQUA


E’ più facile che la coniglietta faccia l’uovo
o che la Consulta dichiari incostituzionale
la mediaconciliazione obbligatoria?
In trepidante attesa di conoscere la risposta,
l’AGA formula i più fervidi
AUGURI DI SERENA PASQUA!

Menoni (Uncc): «Si diventa mediatori in due weekend, ci batteremo alla Consulta»

«Camere civili parte in causa»
Il presidente: «Vinca il buonsenso» - Il "piano B" per lo stop del Tar

Ride sotto i baffi, Renzo Menoni. Nonostante l'incubo-mediaconciliazione, in fondo è un buon momento per l'Unione nazionale delle Camere civili. Il presidente ha appena incassato il verdetto favorevole del Tar Lazio che rimette alla Corte costituzionale la decisione sulla legittimità delle norme "incriminate" per la soluzione stragiudiziale delle controversie. E non manca di rilevare, con bonarietà tutta emiliana, il successo in famiglia nel "derby" con l'Oua, che pure al Tar Lazio aveva fatto ricorso per primo: in tema di legittimazione a impugnare, infatti, l'Uncc è riconosciuta come pienamente titolata, invece per l'Organismo unitario dell'avvocatura l'esame della questione è rimandato all'atto del pronunciamento definitivo sul gravame, anche grazie alla presenza di Consigli dell'Ordine e singoli avvocati come co-ricorrenti. Intanto alla Consulta sarà battaglia e non è escluso che si possa tornare davanti al tribunale amministrativo. Fra chi resta alla finestra e chi sale sul carro dei vincitori, la Camere civili studiano le prossime mosse. Ma non chiudono la porta al confronto, anzi lo auspicano. E annunciano un summit della categoria forense a Roma per il 20 e 21 maggio: un evento organizzato con il Cnf e la Cassa durante il quale sarà presentato il primo rapporto sull'avvocatura italiana: «Per capire perché è in crisi e come uscirne», spiega il professionista parmigiano. Presidente Menoni, vittoria oppure vittoria a metà, visto che il Tar Lazio non ha sospeso l'efficacia del regolamento sulla mediaconciliazione? «Dal punto di vista giuridico, vittoria piena. Fra l'altro, è anche piacevole per noi come Unione nazionale sottolineare come il Tar Lazio abbia detto che abbiamo la rappresentanza piena dell'avvocatura, mentre per l'Oua dice "si vedrà"». Questa, però, è una stilettata bella e buona.
«Vabbè (ride). Quella che m'interessa è la prima parte, quella a nostro favore. Sulla seconda lo dico come battuta, per sottolineare che non era del tutto scontato. Tanto è vero che per l'Oua il Tar Lazio ha qualche dubbio».
E ridai. «No, no: non lo dico polemicamente. Qui abbiamo viaggiato proprio di conserva io e l'avvocato de Tilla (il presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura, ndr). Ci siamo sentiti ogni due giorni, se non tutti i giorni».
Però ammetterà che il Tar avrebbe potuto sospendere il regolamento e non l'ha fatto.
«Ecco perché distinguerei: dal punto di vista giuridico è stato un ottimo risultato. Dal punto di vista pratico - che talvolta è più importante di quello giuridico, perché ci sono anche delle sentenze belle da vedere, ma solo da incorniciare, come un quadro - la sospensiva sarebbe stata la quadratura del cerchio: avrebbe consentito di bloccare tutto. Così bisogna attendere quello che dirà la Corte costituzionale e quindi pensare a cosa fare adesso».
In che senso?
«Si è creata a questo punto una situazione strana: nel senso che, teoricamente, si dovrebbe fare questa mediazione nelle materie in cui è obbligatoria, ma con la spada di Damocle della pronuncia della Consulta».
Il ministro Alfano è stato chiarissimo: si va avanti senza infingimenti. La cosa vi preoccupa?
«No, preoccuparci no. Conferma che questo ministro è molto determinato: il che, astrattamente, fa piacere; in un mondo in cui sono molti i politici "Sor Tentenna", come la famosa maschera, vederne uno determinato fa piacere. Qualche volta, però, si ha l'impressione che se si consultasse di più prima...».
...con le organizzazioni che rappresentano la categoria forense, intende?
«Ecco, sì, le cose verrebbero un po' più semplici. Secondo me nessuna riforma che riguarda la Giustizia, non solo la mediazione, andrebbe fatta senza aver consultato l'avvocatura e la magistratura. Non dico che le riforme debbano essere per forza concordate, perché il Governo ha delle responsabilità politiche e quindi alla fine la decisione deve spettare alla politica: qualche volta se si vuole concordare tutto alla fine non si riesce a far niente. Ma prima di partire, bisognerebbe sentire, confrontarsi, cercare di trovare un punto d'incontro. Poi, se non si trova, è giusto che decida la politica. E questo vale per tutto: per la riforma della giustizia che adesso stanno facendo, per quella del Csm (se sarà fatta), per il processo civile (fa discutere la proposta di smaltimento degli arretrati, ndr): si eviterebbero tanti problemi».
Qual è il pericolo?
«Perché così si rischia di avere: l'avvocatura, schierata contro; la magistratura, schierata contro; l'opposizione, schierata contro. E alla fine ci si chiede se ce la farà il Governo a reggere tutte queste cose».
D'accordo. Intanto voi avrete esultato, suppongo, quando l'ordinanza del Tar Lazio ha messo per iscritto che la figura del mediatore, così com'è conformata attualmente, non dà adeguate garanzie. Vero?
«Non c'è dubbio. Mi sembra palese, qua siamo veramente alla follia: pensi che basta una laurea triennale qualsiasi, quindi anche un odontotecnico... L'altro giorno ero a Trapani a un convegno: mi dicevano che in un organismo di mediazione c'è un professore di ginnastica, dunque diplomato all'Isef. Perché basta un diploma triennale in qualsiasi materia e poi un corso di cinquanta ore».
E sono poche?
«Cinquanta ore, detto così, sembran tante. Ma in realtà cinquanta ore si fanno in sei giorni: se lei va sul web, vedrà che c'è un sacco di annunci: "Vuoi diventare mediatore? Due fine-settimana nella località che vuoi tu e ti facciamo diventar mediatore"».
Rispetto a queste osservazioni, però, come vi difendete dall'accusa di essere scesi in campo per tutelare un interesse di natura corporativa?
«Mah, guardi, questo non mi preoccupa. Se fosse vero, non ci sarebbe niente di male, nel senso che è giusto che ogni categoria difenda - anche - i propri interessi, quando non sono in contrasto con quelli della collettività. Se si volessero, per dirne una, chiudere i giornali, i giornalisti protesterebbero».
Certo.
«Se si volessero chiudere gli ospedali, protesterebbero i medici non soltanto per la questione-pazienti ma anche perché sarebbero preoccupati per il loro futuro professionale. Quindi, di per sé, non è una cosa ignominiosa. Però io sono convinto, ma lo sono davvero, che gran parte dell'avvocatura, non dico tutta, sia più preoccupata della deriva privatistica verso cui si sta avviando la Giustizia civile che non del fatto che ci sia un pochino di lavoro in meno. Perché questa, poi, è una cosa anche da verificare: non so se sarà veramente così. Forse sì, se dovesse la mediazione continuare... Ma non è neanche detto. Penso che probabilmente per le liti bagatellari un filtro con una mediazione obbligatoria ci poteva anche stare, perché alla fine i costi e i tempi di un processo civile per una lite di scarsissimo interesse sono in qualche modo ingiustificati».
Vediamo se ho capito bene. Voi dite: laddove mediaconciliazione significa affidare a un odontotecnico, con tutto il rispetto, la composizione delle liti, noi civilisti non ci stiamo e non conviene neanche ai cittadini.
«No, no, non conviene per niente: perché non sarebbe serio. Quelle che noi chiamiamo "liti bagatellari" per il cittadino possono avere un interesse reale. Anche perché le cose hanno un senso relativo: ci sono persone per cui 2 mila euro hanno la loro importanza. Per un pensionato che prende 600 euro al mese, 2 mila euro sono una sommetta di tutto rilievo. Magari più che 200 mila euro per un grosso imprenditore. È tutto relativo. Quindi è chiaro come il livello dei mediatori debba essere cambiato, la selezione debba essere diversa: questo è un ragionamento che va fatto per tutti, anche per le liti minori. Sull'obbligatorietà, invece, dico: per le liti di modestissimo valore e di modesta incidenza sulla vita del cittadino, portare tutto nelle aule di giustizia sarebbe bellissimo ma...».
...magari non vale la pena. Eppure c'è un paletto costituzionale rigido all'articolo 24: tutti possono agire nel giudizio per tutelare i loro diritti e gli interessi legittimi. È qui che rischia di cadere di fronte alla Consulta l'obbligatorietà della mediaconciliazione, o no?
«Non c'è dubbio. Vede, il nostro sistema fa acqua sotto vari aspetti ma i rimedi devono essere diversi, e ci sono. Noi non dobbiamo guardare agli americani, che hanno un sistema completamente diverso, ma che non è bello: per fare una causa negli Stati Uniti bisogna essere delle persone ricche. Così come per farsi curare. Non dobbiamo imitare dei modelli che escludono il cittadino normale dalle cure sanitarie o dall'accesso alla giustizia. Negli Usa per fare una causa a un'azienda importante bisogna investire delle somme enormi. Da noi no. Noi abbiamo una tradizione diversa che dobbiamo difendere: per questo gli avvocati si sono arrabbiati. Noi non vogliamo diventare degli avvocati all'americana: noi vogliamo rimanere degli avvocati all'italiana, con le nostre tradizioni, che sono quelle di difendere il cittadino e l'accesso alla giustizia del cittadino. Eppoi su questa mediazione c'è una cosa che ha nessuno detto».
Sentiamo.
«Se lei guarda l'elenco delle materie, vedrà che riguardano tutte i diritti del cittadino normale, privato. Non riguardano il diritto commerciale, delle imprese: ce n'è una sola, l'affitto di aziende, ma di cause così in Italia non se ne fanno molte. Poi c'è l'ultima voce: relativa alle controversie nei confronti delle banche, delle finanziarie, delle assicurazioni. Ma è a favore di queste ultime, perché in queste cause le banche, le finanziarie, le assicurazioni sono tutte convenute e non attrici: se diventa difficile l'accesso alla giustizia, questo si ritorce contro il privato cittadino perché è lui che fa causa alle banche, alle finanziarie e alle assicurazioni. Si creano due binari che non ci piacciono assolutamente: giustizia per le aziende, che ha via libera, non è soggetta a mediazione, a ostacoli all'accesso, a ulteriori costi; invece il privato cittadino, se vuole rivolgersi al suo giudice, deve prima superare tutti questi ostacoli».
Nel provvedimento che avete impugnato davanti al Tar Lazio c'è chi rileva un profilo di illegittimità che si staglia con una certa chiarezza: il decreto potrebbe essere stato emanato con un eccesso di delega, laddove un atto amministrativo non può certo derogare a norme di legge ordinaria. Sul giudizio della Corte costituzionale siete ottimisti o pessimisti?
«Guardi, noi ci crediamo».
Per voi è incostituzionale, punto.
«Le do una notizia: siamo i primi ad aver deciso di costituirci davanti alla Corte costituzionale. Abbiamo già dato mandato ai nostri precedenti difensori, gli avvocati Antonio De Notaristefani e Francesco Storace (i legali che hanno sostenuto la causa davanti al Tar Lazio, ndr): a questi si aggiunge il professor Giuliano Scarselli, che è titolare della cattedra di procedura civile all'Università di Siena e che fa parte del nostro centro studi dell'avvocatura civile italiana. Quindi, noi ci crediamo».
E dimostrerete che il provvedimento è illegittimo?
«Lei sa, però, che le decisioni della Corte costituzionale qualche volta hanno anche dei condizionamenti politici. Non "politici" nel senso di "partitici". Ma politici in senso più nobile, in questo caso: qualche volta la Corte costituzionale fa anche dei ragionamenti di politica giudiziaria, di convenienza per lo Stato. Potrebbe essere indotta in errore, subire delle pressioni. In senso buono, dico».
Nel senso di salvaguardare l'esistente, diciamo.
«Esatto. Lo dico in senso molto tranquillo».
Allora non siete affatto sicuri di vincere.
«Con la giustizia non si è mai sicuri. Chi racconta di esser sicuro di vincere, racconta delle storie».
Però siete ottimisti.
«Però ci crediamo, siamo convinti della nostra battaglia, andremo fino in fondo. D'altra parte il Tar Lazio ha confermato che non erano fantasie, le nostre: sono invece cose molto concrete e serie».
Quando crede arriverà la sentenza della Consulta?
«I tempi medi, da quello che vediamo, vanno da un minimo di sette-otto mesi a un anno. Poi c'è sempre una certa discrezionalità della Corte, se ritiene questa decisione un po' più urgente o no. Le dico anche un'altra cosa».
Prego.
«Stiamo anche valutando, e si tratta di una valutazione effettivamente complessa, la possibilità di riproporre al Tar Lazio la questione della sospensione (del regolamento, ndr). Il giudizio è solo sospeso, però il tribunale amministrativo non si è pronunciato su questo: potrebbe sembrar quasi una dimenticanza».
Potreste quindi tornare alla carica col Tar per la sospensiva.
«Il Tar si è concentrato sulla questione di legittimità ma non ha detto "no" alla sospensiva. Se si fosse pronunciato, invece, sarebbe stato necessario rivolgersi al Consiglio di Stato».
Alla fine chi vincerà?
«Mi auguro che vinca il buonsenso. Il Ministero deve capire che, indipendentemente dal fatto che questa legge sia momentaneamente vigore, se poi chi in gran parte la deve attuare prende una posizione contraria e cerca di boicottarla - perché crede che sia ingiusta e mal fatta - secondo me la vita (della legge, ndr) diventa molto stentata. Io credo che bisognerebbe veramente sedersi attorno a un tavolo, in maniera molto distesa, e cercare di trovare una soluzione concordata: questo permetterebbe di non avere né vincitori né vinti e anche al Ministero e al ministro della Giustizia di non rischiare, magari, uno smacco. Io mi auguro che, anche se per ora non ci sono le premesse perché il ministro ha detto "avanti a tutta forza", ci sia il buonsenso e che si trovi una soluzione che sia nell'interesse della Giustizia e dei cittadini e non sia né negli interessi degli avvocati né dei politici. Ecco: questa sarebbe la cosa migliore. Se si vuole arrivare in fondo, allora dovremo aspettare la Corte costituzionale».

Dario Ferrara  (da cassazione.net)

giovedì 21 aprile 2011

Ingiusta detenzione: l'imprenditore va risarcito per la perdita di appalti e fidi bancari

 No al danno esistenziale, ma è impossibile ignorare la lesione alla salute.
«Gogna mediatica» e riparazione

Diciotto giorni di carcere, oltre quattro mesi agli arresti domiciliari. Poi l'imprenditore calabrese è definitivamente assolto dall'accusa di associazione a delinquere e ottiene una riparazione di 30 mila euro per l'ingiusta detenzione (300 euro per ogni giornata di carcere, 200 per i "domiciliari"). Ma l'indennizzo non basta: è escluso che il giudice possa cavarsela con un semplice criterio aritmetico senza verificare se l'azienda dell'uomo d'affari, incriminato e scagionato, abbia subito perdite o perso occasioni d'affari riconducibili alla reclusione del titolare. E se il danno esistenziale è intrinseco alla privazione della libertà, non si può evitare di verificare la sussistenza del danno alla salute di chi lamenta di essere stato per anni esposto alla «gogna mediatica» su giornali e televisioni locali. È quanto emerge da una sentenza emessa il 20 aprile 2011 dalla terza sezione penale della Cassazione.
Danno emergente e lucro cessante
Il primo giudice del rinvio non si attiene ai principi già indicati dalla Suprema corte: sarà allora un'altra sezione della Corte d'appello di Catanzaro a provvedere. La perizia contabile del richiedente lamenta perdite secche per l'impresa: durante la reclusione del titolare l'azienda è esclusa da tutti gli appalti e si vede negare i fidi dalle banche. Ma la Corte d'appello la ignora e si limita a escludere che vi sia stata una diminuzione di profitti o un aumento delle perdite: avrebbe dovuto invece verificare se, per il solo fatto che l'imprenditore era stato ingiustamente arrestato, a carico della società fossero scaturite obbligazioni risarcitorie oppure fosse andata a monte la conclusione di contratti d'affari. Ci penserà il giudice del (secondo) rinvio.
Libertà negata
Passiamo al danno non patrimoniale. Nella riparazione per l'ingiusta detenzione va esclusa una voce ad hoc per il danno esistenziale perché la privazione della libertà di per sé è già sufficiente a sconvolgere la vita di una persona. E se anche lo stato ansioso e il disagio psichico sono tipici della reclusione, e dunque devono essere ritenuti compresi nel mero calcolo aritmetico dell'indennizzo, il giudice della riparazione non può esimersi dal verificare la sussistenza di un danno alla salute o una lesione psichica permanente. Insomma: sarà necessario verificare se, a causa dell'ingiusta detenzione, l'imprenditore abbia contratto una sindrome depressiva ansiosa a carattere permanente.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

Divisione beni, parcella solo al cliente richiedente

Il legale che predispone un atto di divisione dei beni può chiedere il pagamento della parcella soltanto al familiare che gli ha conferito l'incarico. Non rileva la circostanza del vantaggio ottenuto dagli altri condividenti.
È quanto sancito dalla Corte di cassazione che ha chiarito come "la circostanza, che costituisce un mero dato obiettivo, che l'opera del legale sia andata a vantaggio anche degli appellanti, attuali controricorrenti, non si pone infatti in alcun modo in contraddizione logica o giuridica con l'accertamento secondo cui il professionista ricevette l'incarico non da tali soggetti, ma da altri interessati".

Debora Alberici (da cassazione.net)

La mediaconciliazione va contro la normativa europea

PERCHÉ LIMITA L’ACCESSO ALLA GIUSTIZIA: PER GLI ALTI COSTI,
PER I TEMPI, PERCHÉ INFLUENZA IL SUCCESSIVO GIUDIZIO

Maurizio de Tilla, Oua: “La mediaconciliazione è incostituzionale e, allo stesso tempo, non rispetta i principi stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che, come prevede il Trattato di Lisbona, ha pieno valore giuridico. Il giudice, su istanza della parti, quindi può legittimamente non applicarla. In questo senso l’Oua fa propria la delibera dell'Ordine degli avvocati di Firenze che invita alla disapplicazione".

L’Organismo Unitario dell’Avvocatura, Oua, con una nota a firma del presidente, Maurizio de Tilla, fa propria la delibera dell’Ordine degli Avvocati di Firenze con la proposta di disapplicazione da parte dei giudici della mediaconciliazione obbligatoria.
Per il presidente dell’Oua alle innumerevoli questioni di incostituzionalità da sollevare davanti ai giudici (avvalorate dalla mirabile ordinanza del TAR del Lazio di rimessione alla Corte Costituzionale) si aggiunge la istanza di disapplicazione dell’obbligatorietà (dell’art. 5, comma 1 del decreto legislativo n. 28/2010) proposta dal Consiglio dell’Ordine di Firenze (Presidente avv. Sergio Paparo e relatore avv. Gaetano Viciconte) ma fatta propria dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana.
«La disciplina che introduce l’obbligatorietà della mediazione – si spiega nel documento del Consiglio dell’ordine di Firenze, fatto proprio dall’Oua - merita, infatti, di essere disapplicata per contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la cui portata, ai sensi dell’art. 52, terzo comma, della Carta, corrisponde a quella dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le norme introdotte dal D.Lgs. sulla  conciliazione, riguardante sia le liti transfrontaliere che quelle interne, pongono seri problemi di compatibilità con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per alcuni aspetti normativi e per le difficoltà di attuazione pratica che il predetto decreto legislativo probabilmente incontrerà, il “diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice” viene limitato in modo grave e sproporzionato rispetto allo scopo fatto valere di ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari. La nozione di “ricorso effettivo dinanzi a un giudice” riconosciuto dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, corrisponde (articolo 52/3 della stessa Carta) a quella elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Con giurisprudenza costante dopo la sentenza Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975, la CEDU ritiene che il diritto di effettivo accesso al giudice, pur non espressamente menzionato all’art. 6 della Convenzione, è un diritto che deve essere “concreto ed effettivo”».
Nel testo, poi, si entra anche in un caso concreto: «La Corte di Giustizia – chiarisce - ha esaminato per esempio una fattispecie simile alla obbligatorietà della mediaconciliazione  in merito a un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale davanti al Co.re.com, come condizione di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali in talune controversie civili. Le condizioni per la illegittimità della normativa sono le seguenti:
- il risultato della procedura di conciliazione non deve essere vincolante nei confronti delle parti interessate e non deve incidere sul loro diritto ad un ricorso giurisdizionale;
- la procedura di conciliazione non deve comportare un ritardo sostanziale nella proposizione di un ricorso giurisdizionale. Infatti, il termine per chiudere la procedura di conciliazione non può superare i trenta giorni a decorrere dalla presentazione della domanda e, alla scadenza di tale termine, le parti possono proporre un ricorso giurisdizionale, anche ove la procedura non sia stata conclusa;
- la prescrizione dei diritti non va sospesa per il periodo della procedura di conciliazione;
- i costi derivanti dalla procedura di conciliazione dinanzi al Co.re.com devono essere inesistenti».
«Ebbene – sottolinea il presidente dell’Oua - nel caso della mediaconciliazione obbligatoria introdotta in Italia le suddette condizioni non sono state rispettate e quindi ci troviamo di fronte a una palese violazione dei diritti del cittadino».
«Il giudice – continua il documento – può, quindi dichiarare la disapplicazione della norma nazionale sulla mediaconciliazione per contrasto con un principio generale fondamentale dell’ordinamento europeo. D’altronde la Corte di Giustizia, nella sentenza della Grande Sezione del 19 gennaio 2010, nel procedimento C-555/07, Kucukdeveci contro Sweedex GmbH & Co. KG, ha statuito che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha lo stesso valore giuridico dei Trattati, nel senso che al singolo giudice nazionale è concesso il potere di disapplicazione della legge interna di fronte alla violazione dei principi di derivazione comunitaria, e, in particolare, non soltanto nei rapporti tra i singoli e lo Stato (efficacia diretta verticale), ma anche nei rapporti tra privati, consentendo a un singolo di invocare una norma comunitaria nei confronti di un altro (efficacia diretta orizzontale). Ciò senza alcuna necessità di sollevare né una questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale, né una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia UE. La sentenza richiamata, pertanto, attribuisce direttamente al giudice nazionale il potere di sindacare la norma legislativa interna in contrasto con un diritto fondamentale europeo».
«Pertanto – conclude il Presidente de Tilla - su richiesta di una delle parti, il Giudice può dichiarare la procedibilità della domanda, disapplicando l’art. 5 comma 1 del D.Lgs. n. 28/2010, perché in contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

(Da oua.it del 21.4.2011)