martedì 31 luglio 2012

Ustionato in casa di cura, chi risarcisce?


La natura contrattuale del rapporto instauratosi tra paziente e casa di cura comporta che la struttura risponda sia dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa incombenti, sia dell’inadempimento della prestazione svolta dal professionista, essendo questi ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale. Ciò anche in assenza di rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. Il medico, a sua volta, quale debitore della prestazione chirurgica e/o terapeutica promessa, risponde dell’operato di terzi della cui attività si avvale. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 10616/2012.
Il caso. Un uomo subiva un intervento chirurgico presso una casa di cura per correggere la deviazione del setto nasale. Tuttavia, a causa del malfunzionamento dell’elettrodo del bisturi elettrico, il paziente riportava ustioni di terzo grado sulla gamba. Così conveniva in giudizio la Congregazione e il professore, chiedendone la condanna in solido al risarcimento di tutti i danni derivati da tali fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda nei confronti della casa di cura, mentre rigettava la domanda proposta contro il medico. La Corte d’Appello determinava una cifra parzialmente maggiore; allora l’uomo ricorreva per cassazione.
Il giudizio di legittimità. Al riguardo, la Suprema Corte rammenta che la natura pacificamente contrattuale del rapporto instauratosi tra paziente e Casa di Cura privata comporta che la struttura risponde, ex art. 1218 c.c., non solo dell’inadempimento delle obbligazioni su di essa incombenti, ma, ai sensi dell’art. 1228 c.c., anche dell’inadempimento della prestazione svolta dal sanitario, in qualità di ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale. Ciò si rileva anche in assenza di rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato. Il medico, a sua volta, quale debitore della prestazione chirurgica e/o terapeutica promessa, risponde dell’operato di terzi della cui attività si avvale. Erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto inesigibile la previa verifica tecnica da parte del chirurgo: questi deve scongiurare gli eventi – possibili e non del tutto imprevedibili – che possano intervenire nel corso dell’operazione. Infine, alla doglianza del ricorrente di non aver visto riconoscersi il costo di un’eventuale operazione estetica per il segno tangibile dell’ustione rimasto sulla gamba, piazza Cavour risponde che in caso di lesioni personali con postumi permanenti (costituiti da esiti cicatriziali rimuovibili solamente con un nuovo intervento), non incide sul diritto all’attribuzione dei relativi costi la circostanza che, a notevole distanza di tempo, l’infortunato non abbia ancora provveduto ad affrontare la nuova operazione.

(Da avvocati.it del 27.7.2012)

Giustizia civile, bocciato filtro in appello


Camera dei Deputati, Commissione Giustizia, parere 17.7.2012

Via libera alle norme che riguardano la giustizia civile contenute nel Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83
E' quanto prevede il parere 17 luglio 2012 della Commissione Giustzia della Camera dei Deputati che ha però posto una condizione, bocciando di fatto il cosiddetto filtro in appello:
… “sia soppresso l'articolo 54 ovvero sia sostituito da un articolo diretto a modificare l'art. 343 c.p.c. e il terzo comma dell'art. 350 c.p.c. funzionali alla decisione della controversia fin dalla prima udienza con sentenza letta in udienza; consentendo al giudice di arrivare alla stessa udienza conoscendo tutti gli atti nonchè gli artt. 350 e 352 c.p.c. prevedendo che il giudice in caso di manifesta fondatezza o manifesta infondatezza dell'appello pronunci sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e ai precedenti conformi”.

(Da Altalex del 25.7.2012)

lunedì 30 luglio 2012

Con la riforma delle professioni sviluppo a rischio


Il Segretario ANF Ester Perifano

Dall'Anf appello all'Antitrust contro il provvedimento di via Arenula

La riforma delle professioni introdurrebbe modifiche distorsive della concorrenza: lo sostiene l'Associazione nazionale forense, il cui segretario, Ester Perifano, incontra il presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, Giovanni Pitruzzella.
"Il ministro della Giustizia - dice Perifano - modifichi il Decreto sulla riforma delle professioni, rispettando effettivamente la ratio dell'articolo 3 del decreto Salva Italia, e l'Antitrust faccia uso dei suoi incisivi poteri che gli consentono di esprimere un formale e autorevole parere sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza. E si eviti di continuare con questa abnorme confusione tra decreti e disegni di legge sul tema della riforma delle professioni".
La parola al Parlamento - Secondo l'Anf sarebbe più opportuno che la riforma forense fosse prerogativa unicamente del Parlamento, "ma, vista la situazione - si legge in un documento dell'Anf - diventa a questo punto di fondamentale importanza che il Dpr eviti quei pasticci che sembrano purtroppo profilarsi".
Argini precisi - Secondo l'Anf ci sono precisi argini entro cui il decreto di riforma deve muoversi "e vanno corretti diversi aspetti - precisa il segretario - per rispettare integralmente la ratio della legge delega, che è quella di favorire lo sviluppo delle attività professionali e non introdurre ostacoli che, invece, le frenerebbero". A giudizio dell'Anf, per esempio, "imporre scuole forensi obbligatorie e costose durante il tirocinio, si concretizza in un ostacolo obbiettivo per l'ingresso delle giovani generazioni; analogamente una formazione continua permanente, non effettiva e non efficace rappresenta un ingiustificato appesantimento, anche economico, dell'esercizio professionale". Altro nodo da sciogliere è quello relativo alla riforma del procedimento disciplinare.
Procedimento disciplinare - "Una materia - dice Perifano - che è tutta da rifare: non è, infatti, ipotizzabile, tra la altre cose, un sistema che attui il principio della terzietà dell'organo disciplinare solo per alcune delle professioni regolamentate, ad esempio i dottori commercialisti, lasciando che altre categorie (come avvocati, architetti ed ingegneri) rimangano ferme agli anni '30". L'Anf invoca quindi l'intervento dell'Antitrust che "grazie ai nuovi e più incisivi poteri dei quali recenti normative l'hanno dotata - conclude Perifano - , dovrà formalmente intervenire: non è solo l'abrogazione delle tariffe, tema assai caro all'Autorità, che dovrebbe far decollare, ne dubitiamo, le attività professionali, ma invece occorre ben altro. L'autorità lo sa bene e, dunque, faccia la sua parte".

(Da Mondoprofessionisti del 30.7.2012)

Tabelle danno patrimoniale, adeguare elementi base di calcolo


Cass. Civ. sez. III, sent. 5.6.2012 n° 8985

Nella liquidazione del danno patrimoniale è necessario l'adeguamento degli elementi base di calcolo previsti dalle tabelle. E' quanto ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 5 giugno 2012, n. 8985.
Ricordano i giudici di legittimità come, conformemente all'opinione dominante in giurisprudenza, in tema di liquidazione dei danni patrimoniali da invalidità permanente in favore del soggetto leso, nel caso in cui il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, sia necessario adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate.
Di conseguenza, "occorre tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di "personalizzare" il criterio adottato al caso concreto, deve "attualizzare" lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa".
In secondo luogo il giudice nomofilattico precisa che la svalutazione monetaria intervenuta dopo la sentenza di primo grado deve essere accertata e liquidata da giudice d'appello anche d'ufficio, trattandosi di debito di valore, soprattutto quando la rivalutazione, come nella specie, sia stata espressamente richiesta dalla parte.

(Da Altalex del 25.7.2012. Nota di Simone Marani)

Ricorsi chiari e tempi stretti per i processi amministrativi


Ulteriore modifica dopo il dlgs 104/10, stavolta su competenza
del giudice, termini processuali e mezzi di impugnazione

Il nuovo codice del processo amministrativo fa il secondo tagliando con i correttivi introdotti dal Consiglio dei ministri.
In attesa della pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale, che consentirà una compiuta valutazione, vale la pena di indicarne a grandi linee il contenuto.
È ispirato a canoni di chiarezza e sinteticità il decreto legislativo, che fissa tre punti: modifica alcuni termini processuali per renderli più coerenti con il sistema processuale, precisa quali regole si applicano ai mezzi di impugnazione (in particolare all'appello cautelare) e chiarisce il rapporto tra le sezioni semplici e l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Insomma, da ora in avanti atti processuali concisi, ma con motivi specifici.
Ancora: il difetto di competenza territoriale del giudice può sempre essere rilevato d'ufficio.
E il difetto di competenza può essere eccepito con una richiesta espressa rivolta al giudice entro un tempo determinato. Anche qui l'obiettivo è a ridurre i tempi delle cause.
Il provvedimento, infine, dispone l'adeguamento alle sentenze costituzionali che hanno dichiarato l'illegittimità di alcune norme, ad esempio in materia di giudizi elettorali e di impugnazioni delle sanzioni irrogate dalla Consob. Le modifiche arrivano sulla base del dossier della commissione speciale istituita al Consiglio di Stato e formata da magistrati, avvocati e docenti.

Dario Ferrara (da cassazione.net)

domenica 29 luglio 2012

Il danno morale


di Michele Iaselli

Il danno morale consiste nei patemi d’animo che conseguono alla commissione di un illecito.

1. Nozione
Il danno morale è inteso, in generale, come la sofferenza subita dal soggetto a seguito, ad esempio, delle lesioni fisiche riportate; questo tipo di danno viene riconosciuto per espressa previsione dell’art. 2059 c.c.
Il danno morale non esaurisce però la categoria del danno non patrimoniale, cosicché ben si spiega la riparabilità di tali danni in favore delle persone giuridiche, che pur non possono provare sofferenza.
Nel caso di danno non patrimoniale quel che viene in primo piano è infatti la violazione dell’interesse protetto dalla norma, come nel caso di reato di corruzione contro la P.A. ovvero di reati urbanistici, là dove l’interesse è quello, rispettivamente, alla dignità e rispettabilità dello Stato e alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico.
La legge penale è dunque quella che, ex art. 185 c.p., generalizza, in caso di reato, la risarcibilità del danno non patrimoniale in sede civile (pur a prescindere dalla previa pronuncia di una sentenza penale di condanna), ma il rinvio operato dall’art. 2059 c.c. alla legge potrebbe ricomprendere gli artt. 7 e 10 c.c., i quali, interpretati estensivamente là dove prevedono il risarcimento, potrebbero configurare l’esistenza di una clausola generale atta a legittimare in ogni caso la risarcibilità dei danni anche non patrimoniali in caso di lesione dei diritti della personalità.

2. Risarcimento
La materia del risarcimento del danno morale è stata oggetto di diverse pronunce della Suprema Corte ed ancora oggi è molto attuale.
Il danno morale va risarcito, secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, "come danno non patrimoniale, nell'ampia accezione ricostruita dalle SS.UU. come principio informatore della materia. Il risarcimento deve avvenire secondo equità circostanziata (art. 2056 c.c.), tenendosi conto che anche per il danno non patrimoniale il risarcimento deve essere integrale, e tanto più elevato quanto maggiore è la lesione .." (SS.UU., sentenza 11 novembre 2008, n. 26972); ed ancora la Cassazione con la sentenza 4 marzo 2008, n. 5795 ha precisato che "nel caso di accertamento di un danno biologico di rilevante entità e di duratura permanenza, il danno morale, come lesione della integrità morale della persona (artt. 2 e 3 della Costituzione in relazione al valore della dignità anche sociale, ed in correlazione alla salute come valore della identità biologica e genetica) non può essere liquidato in automatico e pro quota come una lesione di minor conto. Il danno morale è ingiusto così come il danno biologico, e nessuna norma costituzionale consente al giudice di stabilire che l'integrità morale valga la metà di quella fisica".
Lo stesso legislatore con il d.P.R. n. 37 del 3 marzo 2009, individua il danno morale come autonoma e specifica voce di danni da liquidare.
Con sentenza più recente (Cass. Civ., sez. III, sentenza 13 luglio 2011, n. 15373) la Suprema Corte ritiene di dover commisurare il risarcimento del danno morale al risarcimento del danno biologico. In particolare la Corte sostiene che nulla vieta che il danno morale sia liquidato in proporzione al danno biologico (cfr Cass. Civ., sentenza n. 702/2010). Né appare superfluo richiamare l'attenzione sull'insegnamento delle Sezioni Unite, cui si è già accennato in precedenza, le quali, come è noto, hanno sancito il principio dell'unitarietà del danno non patrimoniale, quale categoria omnicomprensiva che include anche il danno biologico ed il danno da reato. Ed invero, il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale (SS.UU., sentenza 11 novembre 2008, n. 26972).
Inoltre la Corte di Cassazione con sentenza 12 settembre 2011, n. 18641 ha sostenuto che il danno morale è autonomo rispetto al danno non patrimoniale. In particolare, l’organo giurisdizionale afferma che “la modifica del 2009 delle tabelle del tribunale di Milano - che questa corte, con la sentenza 7 giugno 2011, n. 12408/2011 (nella sostanza confermata dalla successiva pronuncia 30 giugno 2011, n. 14402/2011) ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale - in realtà, non ha mai "cancellato" (contrariamente a quanto opinato dal ricorrente) la fattispecie del danno morale intesa come "voce" integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale: né avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale il giudice, di legittimità e non, evidentemente non può in alcun modo prescindere in una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla produzione giurisprudenziale.
L’indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi d.P.R., il n. 37 del 2009 e il n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l'art. 5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, concettualmente prima ancora che giuridicamente, all'indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto funzionale alla scomparsa per assorbimento ipso facto del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell'evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la "voce" di danno cd. biologico da un canto, e la "voce" di danno morale dall'altro: si legge difatti alle lettere a) e b) del citato art. 5, nel primo dei due provvedimenti normativi citati:- che "la percentuale di danno biologico è determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; -che “la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell'entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi del valore”.
Infine, con diverse sentenze la Cassazione ha ribadito la “autonomia ontologica del danno morale”, autonomia che “deve essere considerata in relazione alla diversità del bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale delle persone” e “pure attiene ad un diritto inviolabile della persona” (Cass. Civ., sez. III, sentenza 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. Civ., sentenza n. 379/2009, Cass. Civ., SS.UU., sentenza 14 gennaio 2009, n. 557 e Cass. Civ., sez. III, sentenza 13 maggio 2009, n. 11059). La stessa Cassazione Civile, sez. III, con sentenza 10 marzo 2010, n. 5770 ha sostenuto che al fine della liquidazione del danno non patrimoniale, è opportuno ricordare che nella quantificazione del danno morale la valutazione di tale voce di danno, dotata di logica autonomia in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile della persona ovvero all'integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall'art. 2 della Costituzione in relazione all'art. 1 della Carta di Nizza (contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190) si deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della concreta gravità del fatto, senza che possa quantificarsi il valore dell'integrità morale come una quota minore proporzionale al danno alla salute, dovendo dunque escludersi la adozione di meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo automatico.

(Da AltalexPedia, aggiornato al 27.7.2012)

Locazione bene comune e diritti comproprietario non locatore


Cassazione Sez. Unite Civili, Sent. 4.7.2012, n.11135

Con la sentenza in esame, le sezioni unite della Corte si sono occupate della qualificazione giuridica del rapporto tra i comproprietari di un immobile locato da uno solo di essi, con riferimento alla produzione (o esclusione) degli effetti del contratto in capo al comproprietario non locatore.
Mentre il Tribunale in primo grado aveva riconosciuto al comproprietario non locatore il diritto di percepire parte dei canoni di locazione, ritendo applicabile al caso di specie il modello negoziale del mandato senza rappresentanza, e la Corte d’appello di Genova aveva respinto la domanda del comproprietario non locatore, affermando il principio per il quale “la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un immobile non costituisce presupposto necessario e indefettibile per l’assunzione della qualità di locatore, essendo sufficiente per la valida stipulazione di un contratto che dell’immobile il locatore abbia la disponibilità e sia in grado di trasferirne la detenzione”, il Collegio non ha ravvisato nessun ostacolo a ricondurre la fattispecie della locazione del bene comune da parte di un solo comproprietario nell’ambito della disciplina della gestione d’affari, il cui elemento caratterizzante è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui.
Infatti, rileva il Collegio, “a tal fine si richiede innanzitutto l’absentia domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus”. Gli elementi caratterizzanti la gestione di affari sono, quindi, l’animus aliena gerendi; l’utilità della gestione; la impossibilità dell’interessato di svolgere l’affare o la mancanza della prohibitio domini; l’esistenza dell’interesse altrui”.
Ciò premesso, il Collegio dichiara efficace il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e il conduttore, rilevando che l’opposizione del comproprietario non locatore ha efficacia solo nel caso in cui sia manifestata e portata a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto, ponendo così a riparo il conduttore da sopravvenuti contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari.
In forza di detto inquadramento, il comproprietario non locatore, manifestando il proprio dissenso alla locazione del bene comune, sarebbe esonerato dal dovere di adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, anche in nome proprio, e di rimborsare le spese: trattandosi di gestione di affari non rappresentativa, solo la ratifica del contratto (ai sensi dell’articolo 2032 del Codice Civile) attribuisce al comproprietario non locatore, ai sensi dell’articolo 1705, secondo comma, Codice Civile (Mandato senza rappresentanza), la facoltà di esigere dal conduttore, per il tempo successivo alla ratifica e nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondenti alla quota di proprietà indivisa.

Luciana Di Vito – Iusgate (da filodiritto.com del 27.7.2012)

sabato 28 luglio 2012

Assegni di mantenimento in ritardo, non è reato


Non integra il reato ex art. 570 c.p. la condotta di chi, in assenza del dolo nel voler far mancare i mezzi di sussistenza ai familiari, versi in ritardo alcuni assegni di mantenimento, ponendo in essere così un inadempimento né serio né protratto nel tempo. E’ quanto affermato dalla Corte di cassazione, nella sentenza n. 25596/2012.
Il caso. Un uomo veniva condannato, in primo e secondo grado, per il reato di sottrazione agli obblighi di assistenza familiare nei confronti del figlio minorenne: non aveva provveduto a versare, per cinque mesi, l’assegno di mantenimento dovuto per il figlio. Lo stesso reato non veniva dichiarato estinto dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, nonostante la remissione di querela da parte della madre, in quanto procedibile d’ufficio in ragione della minore età del figlio. Il condannato propone, allora, ricorso per cassazione.
Il giudizio di legittimità. In particolare, con il primo motivo, accolto dalla S.C. e giudicato assorbente i successivi, il ricorrente lamenta che la condotta ritenuta integrante il reato di cui all’art. 570 c.p. sarebbe consistita solamente nell’omesso versamento dell’assegno di mantenimento, dovuto solo ad un momentaneo disagio economico e non alla volontà di far mancare i mezzi di sussistenza alla famiglia. In effetti, osserva piazza Cavour, il ritardo dei pagamenti risultante dai documenti prodotti in giudizio dalla difesa non corrisponde alla condotta contestata nel capo di imputazione, secondo cui il ricorrente avrebbe del tutto omesso i pagamenti. Ciò constatato, la sentenza di condanna finirebbe con l’ affermare che il reato contestato è integrato anche con il solo ritardo nei versamenti. Secondo gli Ermellini, la condotta richiesta dalla norma incriminatrice in parola non è integrata da qualsiasi inadempimento – differenziandosi dal’inadempimento anche non grave rilevante in sede civile – ma deve comunque essere sorretta dall’elemento psicologico del dolo. Inoltre, da un punto di vista oggettivo, l’inadempimento penalmente rilevante deve essere serio e sufficientemente protratto nel tempo, in modo tale da «incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi di sussistenza che il soggetto obbligato deve fornire». Dato che il ricorrente ha solamente ritardato alcuni versamenti, per giunta per un breve lasso di tempo, la sentenza impugnata viene annullata senza rinvio nella parte relativa alla condotta in danno del figlio minore, perché il fatto non costituisce reato.

(Da avvocati.it del 27.7.2012)

Il taglio delle sedi giudiziarie non favorirà la previdenza forense


Mille sedi giudiziarie in meno, sul territorio nazionale, sembrano ormai cosa fatta, a meno di ripensamenti clamorosi, stop fragorosi o ripescaggi miracolosi. Una revisione epocale partita, e forse giunta in porto, sicuramente con il piede sbagliato visto che il Ministero, alla fine, sembra aver optato per la linea dura disponendo, nella bozza di decreto redatta, la morte, oltre alla stragrande maggioranza degli uffici del Giudice di Pace, di tutte le 220 Sezioni Distaccate di Tribunale e di 37 Tribunali con relative Procure, il tutto con criteri lineari (salvo poi applicare la cosiddetta “regola del tre” che salva alcune sedi minori) che sono risultati decisamente opinabili e non collegati alla realtà dei territori e delle esigenze.
Questa revisione, sulle ragioni della quale e sulla bontà o meno della stessa potremo discutere per mesi su fronti contrapposti, comporterà comunque importanti risvolti anche in sede previdenziale, ciò considerato che la stessa va a coinvolgere direttamente la qualità, l’organizzazione, i costi, il mercato del lavoro di migliaia di avvocati, siano essi iscritti ai Fori direttamente coinvolti siano essi indirettamente toccati per le inevitabili implicazioni sulle sedi accorpanti.
Si valuti, ad esempio, la circostanza di quale sia la qualità e quantità della risposta, alla domanda di giustizia, che si avrà nelle sedi in via di chiusura durante il periodo di riorganizzazione fissato in 18 mesi. Tra pochi mesi, infatti, le cause inizieranno ad essere rinviate dai singoli Giudici davanti alla sede accorpante, pur rimanendo ai loro ruoli assegnate e pur rimanendo i fascicoli presso la sede in chiusura. Quante sentenze potranno essere emesse in questo periodo? Quante cause vedranno un lento scivolamento verso una nuova assegnazione? Le sedi che dovranno accoglierle molto probabilmente dovranno passare per una redistribuzione dei carichi, anche nell’ottica della tanto auspicata specializzazione già operante di fatto nelle sedi maggiori e non in quelle minori, ciò con conseguenti rinvii delle trattazioni e sconvolgimento dei calendari d’udienza.
Vi è poi un altro fondamentale quesito privo di risposta dato dallo spostamento coattivo del personale che comporterà una logica redistribuzione del medesimo nella nuova sede, con competenze specifiche acquisite nel tempo dai dipendenti che verranno obliate nello spostamento o con operatività dei singoli uffici da valutarsi nel lungo termine ma sicuramente ridotta nel medio termine. Per non parlare poi dell’impatto psicologico che l’accorpamento avrà sui singoli soggetti coinvolti che troveranno, spesso, nella nuova situazione facile alibi per ogni ritardo o inefficienza.
Un quadro che potrebbe essere meglio e più ampiamente illustrato, con provate numerose argomentazioni, ma che lascia, anche solo da queste brevi note, presagire una forte limitazione della produttività del sistema giustizia nel breve e nel medio termine con conseguente incapacità degli avvocati di svolgere la loro attività e, logica, diminuzione dei redditi, da loro conseguiti, che rischiano di cadere ulteriormente verso il basso, tanto più in un periodo storico già estremamente difficile per la professione forense.
Non si deve poi trascurare che il provvedimento di chiusura, delle sedi indicate, andrà ad interessare in modo ancora più pesante e disastroso gli studi legali delle zone interessate direttamente dalle soppressioni, molti di questi studi infatti avranno la necessità di modificare la loro struttura per far fronte alle nuove esigenze date dal dover lavorare in un nuovo ambito territoriale con spostamenti quotidiani su sedi giudiziarie spesso lontane o non agevoli. Dovrà essere rivista la composizione della forza lavoro sia dei professionisti sia degli impiegati di questi studi con la creazione, magari, di sedi secondarie o con un pendolarismo forzato. Tutto ciò non potrà che gravare sui costi per i professionisti e per gli utenti che si allontaneranno ancora di più dalla domanda di giustizia con evidente danno per tutto il sistema.
Se è vero che l’avvocatura italiana ha necessità di un sensibile cambio di marcia è altrettanto vero che per molti questo cambio di marcia forzato ed accelerato diverrà un vero capestro, non bilanciato dalla crescita reddituale dei colleghi superstiti che solo in minima parte potranno “godere” dell’indebolimento dei colleghi in difficoltà.
Da quanto sopra delineato nasce la banale riflessione che la massa degli avvocati direttamente od indirettamente coinvolti nel provvedimento (circa un terzo degli iscritti agli ordini italiani) vedrà, almeno nel breve e medio termine, crescere la difficoltà di produrre redditi, e quindi contributi previdenziali, mentre per quella fascia già oggi debole, di iscritti, aumenterà la necessità di assistenza con conseguenti costi per Cassa Forense.
Un mix di fattori esplosivo che dovrà, quindi, essere ben monitorato dal nostro ente previdenziale per evitare che i risvolti negativi, relativamente prevedibili, vadano a produrre i loro nefasti effetti senza i dovuti tempestivi correttivi.

Massimo Grotti (da CF Newsletter n. 7 – Luglio 2012)

venerdì 27 luglio 2012

Mancato rinnovo locazione, basta generica necessità dei figli


Nella lettera di disdetta non è necessario precisare
che l'immobile verrà destinato ad abitazione familiare

Nella lettera di disdetta del contratto di locazione non è necessario dettagliare l'esigenza dei figli per chiedere la restituzione dell'immobile.
È quanto emerge dalla sentenza n. 13199 del 26 luglio 2012, con la quale la Cassazione ha respinto il ricorso di un conduttore che aveva ricevuto la lettera di disdetta, al primo rinnovo, con la quale il locatore si limitava a dire «l'immobile serve a mia figlia».
Inutile il ricorso ai giudici da parte dell'uomo che aveva finto di ignorare il matrimonio della ragazza che, per un certo periodo, aveva vissuto con la famiglia d'origine.
«Il secondo quesito - dice Piazza Cavour - non coglie nel segno, perché il giudice dell'appello, pur avendo posto in rilievo che la giustificazione della disdetta "poiché l'appartamento serve a mia figlia", interpretata astrattamente, poteva apparire come non del tutto corretta dal punto di vista giuridico, l'ha valutata nel suo linguaggio comune, corroborando tale valutazione con le altre circostanze e i documenti in atti».

Debora Alberici (da cassazione.net)

Effetti nullità dell’accordo volto a indicare prezzo inferiore


Cass. Sez. II Civile, Sent. 11.7.2012, n.11749

Particolare interesse suscita la recente sentenza della Corte di Cassazione relativa alla nullità di un preliminare di vendita nel quale era stata inserita la clausola che obbligava le parti ad indicare nel contratto di vendita un prezzo inferiore a quello realmente pattuito dalle parti.
Sulla questione si era già pronunciata la Corte d’appello di Milano, che aveva disposto l’esecuzione in forma specifica del contratto, ovvero la vendita dell’immobile, avendo escluso il carattere essenziale della clausola in esame, essendo, a tal fine, necessario dimostrare che “quella variazione di prezzo alteri l’equilibrio contrattuale in modo tale da far considerare la vendita fuori degli standard di mercato correnti in un certo momento, tenuto conto che … si deve presumere la generale applicazione della legge e non l’evasione fiscale”. Il venditore deve infatti dimostrare, oltre al minor guadagno, anche la circostanza che non avrebbe venduto al minor prezzo indicato nel preliminare.
Leggendo le considerazioni di diritto della citata sentenza, l’orientamento di cui sopra è confermato dalla Corte di Cassazione, per la quale “la clausola, contenuta nel contratto preliminare, avente ad oggetto il reciproco impegno delle parti di indicare nel definitivo una somma inferiore a quella reale, pari a quella risultante dall’applicazione dl moltiplicatore della rendita catastale, è nulla per espressa previsione legislativa”.
La semplice presenza, “ai fini della invalidazione totale ed assoluta dell’intero contratto”, del patto di risoluzione totale, “che prevede … il diritto di ottenere lo scioglimento del contratto” in caso di inadempimento, non è tale da comportare la comunicazione della nullità dalla parte adempiente, posto che la clausola risolutiva “è essa stessa affetta da nullità.
L’effetto di propagazione, sull’intero contratto preliminare, della nullità della clausola contenente l’impegno delle parti di indicare nel definitivo, in violazione della disciplina dell’imposta di registro, un prezzo inferiore a quello realmente pattuito, non può derivare dal semplice rafforzamento dell’atteso comportamento contra legem mediante la previsione negoziale di un diritto alla risoluzione attivabile dalla parte rimasta fedele alla clausola, occorrendo, altresì, la prova, a cura della parte colpita dalla squilibrio indotto dalla nullità parziale e che invochi il contagio all’intero contratto, che il mantenimento di esso dopo la depurazione non sia più giustificato dal senso originario dell’operazione, e ciò per essere la clausola di occultamento in tale rapporto di interdipendenza e di inscindibilità con le altre pattuizioni che queste non posso sussistere in modo automatico”.
L’efficacia sostitutiva della norma imperativa di legge alla clausola contraria “sussiste quando l’interesse investe l’esistenza di un rapporto giuridico … non altrimenti realizzabile che mediante il necessario sinergismo dell’attività privata negoziale e della norma obiettiva imperativa. L’interesse tutelato, ravvisabile nella esatta determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, è perseguito dalla legge indipendentemente dalla collaborazione delle parti contraenti.
Deve così concludersi … che la clausola del contratto preliminare di vendita, con la quale si conviene di indicare nel contratto definitivo di trasferimento un prezzo inferiore a quello convenuto, è nulla, ma non sostituita da norma imperativa”. È questa quindi la ragione per la quale non può essere dichiarata nel caso di specie la nullità parziale del contratto o della singola clausola ex articolo 1419 del Codice Civile.

Luciana Di Vito (da filodiritto.com del 22.7.2012)

C/c condominio, amministratore può aprirlo senza autorizzazioni


Cass. Civ. sez. I, sent. 10.5.2012 n° 7162

Può l’amministratore di un condominio aprire un conto corrente, per la gestione amministrativa, senza l’autorizzazione dell’assemblea?
A questa domanda la Cassazione ha risposto in modo affermativo precisando, con la sentenza 10 maggio 2012, n. 7162 che per esigenze di trasparenza e informazione l’amministratore di condominio è tenuto ad aprire un conto separato.
Per aprire tale conto, infatti, non ha necessità di specifiche autorizzazioni da parte dell’assemblea che, invece, servirebbero nella ipotesi di apertura di una linea di credito.
La banca può rivalersi direttamente nei confronti del condominio per uno scoperto nel conto acceso dall’amministratore.
Così i giudici di Piazza Cavour nella sentenza del 10 maggio 2012, n. 7162, ove hanno precisato che non si può affermare che la mancata apertura di un conto corrente separato (rispetto al patrimonio personale dell’amministratore) rappresenterebbe una irregolarità tale da comportare la revoca del mandato allo stesso, bensì è possibile sostenere che, pur in mancanza di specifiche norme che ne facciano obbligo, l’amministratore è tenuto a far affluire i versamenti delle quote condominiali su di un separato conto corrente intestato al condominio.
Ciò allo scopo di evitare che possa esserci confusione tra il patrimonio del condominio e quello suo personale.

(Da Altalex dell’11.7.2012. Nota di Manuela Rinaldi)

Limite di critica all’operato del dipendente


Trib. Catanzaro, sez. II civ., sent. 21.5.2012 n° 1734

Fino a dove può  estendersi il diritto di critica del datore di lavoro nei confronti del dipendente? E’ questo il quesito a cui offre pronta risposta il Tribunale di Catanzaro, sez. II civile, con la sentenza 21 maggio 2012, n. 1734.
Infatti, secondo il giudice di merito, in una società democratica - cui è connaturata la possibilità di scambiarsi opinioni -, deve essere garantito il diritto di svolgere, anche pubblicamente, valutazioni e critiche dell’operato altrui (anche del lavoratore), a patto che tale critica rispetti i limiti di continenza e non travalichi in una gratuita degradazione della persona oggetto di censura.
Nel caso di specie -  in cui sono parti in causa due dirigenti e una dipendente della Regione - , l’attrice contesta il contenuto di due e-mail inviatele dai dirigenti, ritenendole ingiuriose e diffamatorie, violando e ledendo la sua professionalità.
Il giudice adito, al contrario, ha ritenuto che le due missive non abbiano avuto alcun contenuto offensivo, essendo dirette a criticare la condotta non collaborativa della lavoratrice, prefigurandone la finalizzazione a disconoscere il ruolo e l’autorevolezza del dirigente. Decisiva, in questo senso, appare la constatazione da parte del giudice che le censure mosse alla dipendente sono rivolte alla condotta tenuta dalla stessa nel contesto lavorativo e non alle qualità morali di questa.
Come si legge nella sentenza, è evidente che sia spiacevole subire critiche in particolare se esse siano provenienti dal datore di lavoro o dal dirigente e se attengano alla prestazione lavorativa; ed è altrettanto notorio che la sensibilità del destinatario della censura può rimanere scalfita. Tuttavia, ciò non può significare che qualunque affermazione critica idonea a colpire l’amor proprio del lavoratore configuri illecito penalmente sanzionabile e civilmente risarcibile.
In buona sostanza, non superando i limiti della continenza le critiche mosse alla dipendente, secondo il Tribunale non è possibile ravvisarne i contorni ingiuriosi e diffamatori lamentati dall’attrice. Da qui il rigetto della richiesta di risarcimento avanzata dalla dipendente e la condanna al pagamento delle spese processuali.

(Da Altalex del 3.7.2012. Nota di Alessandro Ferretti)

giovedì 26 luglio 2012

Cane aggredisce bimba in albergo, gestore risarcisce danni


Cass. Civ. Sez. VI, sent. n. 12157 del 16.7.2012

Svolgimento del processo
La presente controversia trae origine - per quanto risulta dalla sentenza impugnata - da un episodio verificatosi nell’anno 1997, nel cortile antistante l’hotel L. di Piscinas, comune di Arbus, allorché B. M., all’epoca di anni quattro, che alloggiava con i genitori F.M. e P.R. nello stesso albergo, venne morsa al volto da un cane pastore tedesco di proprietà del gestore dell’albergo S.C. Il C. imputato dei reati di cui agli artt. 590 commi 1 e 2 e 672 c.p., venne riconosciuto penalmente responsabile dal Tribunale di Cagliari con sentenza in data 26.04.2002 e condannato - per quanto qui interessa - nei confronti della parte civile, F.M. e P.R. in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, nonché al pagamento di una provvisionale di € 8.000,00, oltre le spese; la Corte di appello di Cagliari, in parziale riforma, riconobbe il concorso di colpa dei genitori e del C. con sentenza impugnata per cassazione, in parte qua, dai M. R. in proprio e nella qualità; la Cassazione annullò la sentenza oggetto di ricorso nelle statuizioni civili per difetto di motivazione e rinviò le parti innanzi alla Corte di
appello di Cagliari, sezione civile.
Con sentenza in data 16 luglio 2010 la Corte di appello di Cagliari, decidendo in sede di rinvio dalla Cassazione, ha confermato le statuizioni civili contenute nella sentenza del Tribunale di Cagliari in data 26.04.2002 e conseguentemente ha rigettato l’appello proposto dal C. avverso dette statuizioni; ha quindi condannato il C. al pagamento delle spese dell’appello, del giudizio di Cassazione e di rinvio.
Avverso detta decisione ha proposto ricorso per cassazione S.C. formulando un unico motivo.
F.M. e P. R. hanno resistito con controricorso, preliminannente eccependo l’inammissibilità del ricorso, almeno nei confronti di B. M. divenuta maggiorenne in data 12.10.2010 (e, quindi, in pendenza del termine per il ricorso per cassazione).
Motivi della decisione
Il ricorso per cassazione nei confronti di B.M. originariamente in giudizio per il tramite dei genitori, rappresentanti legali, andava indirizzato e notificato alla parte divenuta maggiorenne delle more (come è agevole desumere dalle stesse indicazioni temporali fornite dalla sentenza impugnata in ordine alla data dell’evento e all’età della M. a quell’epoca) e non al genitore, pena la nullità dell’atto e conseguente inammissibilità dell’impugnazione. Non sussistono i presupposti per la rinnovazione né ai sensi dell’art. 164 c.p.c. e neppure ex art. 153 co. 2 c.p.c. (quest’ultima disposizione peraltro inapplicabile anche ratione temporis), dal momento che queste norme postulano un errore incolpevole.
Trattandosi di cause scindibili, non ricorrono neppure i presupposti per l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Ad ogni buon conto si rammenta che questa Corte anche in caso di litisconsorzio necessario ha ritenuto prevalenti le esigenze connesse alla durata ragionevole del processo rispetto alle esigenze di integrazione del contraddittorio, laddove il ricorso per cassazione risulti prima facie infondato e l’integrazione vada effettuata nei confronti di parti totalmente vittoriose nel merito (cfr. Cass. n. 2723/2010).
Il ricorso nei confronti di M. va, dunque, dichiarato inammissibile.
2. Con l’unico motivo di ricorso - da esaminarsi con riguardo alla sola posizione dei M. R. in proprio - si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 2048 c.c. e 115 c.p.c.; il tutto anche in relazione all’art. 360 nn. 3, 4 e 5; nullità della sentenza ed errores in procedendo, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. In particolare il ricorrente si duole che il giudice del rinvio abbia escluso che si potesse invocare a fondamento di un preteso concorso di colpa dei genitori la norma
di cui all’art. 2048 c.c., ritenendo che le presunzioni ad essa sottesa (così come quella sottesa all’art. 2052 c.c., altrimenti invocabile per il C. fossero estranee all’azione civile svolta in sede penale; lamenta inoltre il travisamento dei fatti, per avere la Corte di appello escluso un concorso causale dei M. R. per mancato controllo e avere, invece, affermato l’esclusiva responsabilità per colpa di esso ricorrente, ravvisando un’omessa cautela (obbligo di museruola) che invece non era dovuta.
2.1. Il motivo - anche a prescindere dalla dubbia osservanza del requisito di cui al n. 3 dell’art. 366 c.p.c., per essersi il ricorrente limitato a incolpare integralmente la parte espositiva della sentenza impugnata - appare al limite dell’inammissibilità e, comunque, manifestamente infondato.
In particolare l’argomento con cui si deduce la violazione dell’art. 2048 c.c. ignora un duplice passaggio morivazionale della decisione impugnata - quello con cui si dichiara l’inammissibilità della domanda volta a far accertare la responsabilità esclusiva dei genitori nella causazione dell’incidente e quello con cui si esclude qualsiasi incidenza causale nello stesso fatto della condotta dei genitori e, soprattutto, si rivela non pertinente sol che si consideri che la norma regola la responsabilità dei genitori per il fatto illecito dei figli minori (id est per il danno cagionato ad un terzo dal fatto illecito del minore).
Generica e inconcludente, oltre che smentita dalla sentenza impugnata, è l’allegazione, volta a contrastare l’obbligo della museruola per il cane, secondo cui l’incidente sarebbe avvenuto in una zona della struttura alberghiera che non sarebbe adibita né a “locale pubblico”, né a “pubblica via” e nemmeno a “luogo aperto al pubblico”.
Per il resto, al di là del surrettizio richiamo a presunti errores in procedendo e in iudicando, nonché al vizio motivazionale, le censure attengono alla ricostruzione del fatto storico, la quale costituisce compito riservato al giudice del merito il cui apprezzamento, se informato - come nella specie - ad esatti principi giuridici ed esente da vizi logici e motivazionali, si sottrae al sindacato di legittimità. In particolare, se è vero che l’allegazione dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione, di talché la censura, a differenza di quella di violazione di legge, è mediata dal contestato scrutinio del materiale istruttorio, giammai può essere considerato vizio logico della motivazione la maggiore o minore rispondenza della ricostruzione operata dal giudice di merito alle circostanze emerse nel corso del processo o una esposizione dei dati che non instauri tra gli stessi il collegamento ritenuto più opportuno e più appagante, in quanto tutto ciò rimane all’interno della possibilità di apprezzamento del contesto fattuale di riferimento e, non contestato con la logica e con le leggi della razionalità, appartiene al convincimento del decidente, senza renderlo viziato ai sensi dell’art. 360 c.p.c. (Cass. civ., 26 febbraio 2003, n. 2869).
In definitiva il ricorso va rigettato nei confronti dei due resistenti, con condanna di parte ricorrente al pagamento in loro favore delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di B.M. e lo rigetta nei confronti di F.M. e P.R. e condanna parte ricorrente al rimborso, in favore di questi ultimi, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 3.700,00 (di cui € 200,00 per spese) oltre rimborso spese generali e accessori come per legge.

(Da diritto.it)

Danno ingiusto se il bene della vita effettivamente spetta al ricorrente


Tar Lazio Sez. II, Sent. n. 1819 del 22.2.2012

La normativa sulla responsabilità aquiliana ha la funzione di riparazione del danno ingiusto
cioè del danno che l’ordinamento non può tollerare rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull’autore del fatto in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti quale che sia la loro qualificazione formale.
Di talché, come evidenziato a partire dalla “storica” sentenza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione n. 500/1999, ai fini della responsabilità della pubblica amministrazione, non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.
Il rilievo centrale, quindi, è assunto dal danno, del quale è previsto il risarcimento qualora sia ingiusto, per cui la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. in quanto occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole dell’amministrazione pubblica, l’interesse al bene della vita al quale, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, l’interesse legittimo effettivamente si collega.
E’ soltanto la lesione al bene della vita, infatti, che qualifica in termini di “ingiustizia” il danno derivante
dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione e lo rende risarcibile e l’obbligazione risarcitoria, conseguentemente, dipende dalla verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico.
La pretesa al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione dell’interesse legittimo, insomma, si fonda su una lettura dell’art. 2043 c.c. che riferisce il carattere dell’ingiustizia al danno e non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della responsabilità non è la condotta colposa, ma l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall’ordinamento ed affinché la lesione possa essere considerata ingiusta è necessario verificare attraverso un giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente spettato al titolare dell’interesse (cfr., ex plurimis, Cass. Civ., III, 3 settembre 2007, n. 18511, che richiama una cospicua giurisprudenza).
Nella fattispecie in esame, il giudizio prognostico porterebbe comunque ad escludere, seguendo proprio il percorso argomentativo sviluppato dal ricorrente, che l’aggiudicazione potesse legittimamente avvenire in suo favore.
non potendo Il Ricorrente, anche volendo seguire la sua prospettazione, conseguire il bene della vita agognato, l’assenza del carattere di “ingiustizia” del danno e la conseguente reiezione della domanda risarcitoria pure nell’ipotesi in cui l’offerta di Splendor fosse da considerare effettivamente incongrua.

Sonia Lazzini (da diritto.it del 25.7.2012)

Fare rumore in condominio non è reato


Solo se i rumori molesti arrivano a disturbare la quiete pubblica di "un numero indeterminato di persone" al di fuori del palazzo, allora si può ricorrere al giudice penale per imporre un po' di tranquillità. Al massimo si può agire in sede civile per ottenere una sanzione nei confronti dei condomini molesti. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 25225/2012.
Il caso. Tre persone dello stesso nucleo familiare vengono condannate per il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone. Queste infatti venivano denunciate dall'amministratore di condominio e da cinque condomini per aver provocato rumori eccessivi "sbattendo con violenza le porte dell'appartamento e d'ingresso condominiale, urlando immotivatamente sulle scale del condominio, nonché sbattendo tavoli e sedie sul pavimento dell'appartamento da essi occupato".
Il giudizio di legittimità. Ma per la Suprema Corte tutto questo non rappresenta un reato. Già, perché "la contravvenzione prevista dall'art. 659 primo comma cp, contestata agli odierni ricorrenti, persegue la finalità di preservare la quiete e la tranquillità pubblica ed i correlati diritti alle persone all'occupazione ed al riposo; e la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone". In questo caso, invece, "non risulta la sussistenza di tale essenziale elemento - scrivono i giudici - essendo emerso dagli atti di causa che gli unici soggetti danneggiati dai rumori molesti causati dagli odierni ricorrenti sono stati i cinque condomini occupanti la palazzina e che detti rumori sono rimasti circoscritti all'interno di detto stabile senza essersi mai propagati all'esterno. Va pertanto ritenuto che i fatti denunciati siano privi di rilevanza penale e tali da poter trovare tutela solo in sede civile con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata".

(Da avvocati.it del 25.7.2012)

mercoledì 25 luglio 2012

OUA: "Soppressione, gravi errori di geografia"


SPENDING REVIEW, L’OUA PARTECIPA ALLA MANIFESTAZIONE DEI SINDACI A ROMA CONTRO I TAGLI: LA CHIUSURA DI 1000 UFFICI GIUDIZIARI CON CRITERI SBAGLIATI, GRAVISSIMI ERRORI DI GEOGRAFIA DISTORCENDO LA REALTÀ DEL PAESE, METTE IN GINOCCHIO LA GIUSTIZIA ITALIANA. SERVONO VERE RIFORME E MODERNIZZAZIONE

MAURIZIO DE TILLA, PRESIDENTE OUA: “DOPO LA FINANZA CREATIVA, ECCO LA GEOGRAFIA CREATIVA. IL CASO CALABRIA: NELLA RELAZIONE DEL MINISTERO DI GIUSTIZIA PER GIUSTIFICARE LA CHIUSURA DI DIVERSI UFFICI GIUDIZIARI, LA COLLOCAZIONE DELLE CITTÀ VIENE SPOSTATA DI DIVERSI KILOMETRI, SPARISCONO CASUALMENTE ALCUNE STRADE PRINCIPALI E DIVERSE LINEE DI AUTOBUS. UN PASTICCIO O LA NECESSITÀ DI PIEGARE LA REALTÀ ALLE NECESSITÀ MINISTERIALI. E ORA CON L’ELIMINAZIONE DELLE PROVINCE SI DOVRÀ TAGLIARE ULTERIORMENTE? IN COMMISSIONE GIUSTIZIA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI IN AUDIZIONE CHIEDEREMO CAMBI RADICALI AL PROVVEDIMENTO

Una delegazione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana, la rappresentanza politica degli avvocati italiani, guidata dal Presidente Maurizio de Tilla e presenti i componenti Oua Roberto Pozzobon, Paolo Maldari, Michele Riggi, Filippo Marciante, Mauro Minci, Gaetano Amoroso, è presente oggi (ieri, NdAGANews) in piazza, dinanzi al Senato, alla manifestazione dei sindaci contro la spending review.
L’Oua ha diffuso un documento in cui si denunciano alcuni gravi errori contenuti nella relazione ministeriale che accompagna il provvedimento di revisione della geografia giudiziaria. E nel primo pomeriggio in Commissione Giustizia della Camera su questo tema saranno presentate le proposte dell’avvocatura. A seguire convocazione straordinaria del “Patto per la giustizia e i cittadini”, firmato dall’Oua, l’Anm e con i sindacati confederali del settore e le associazioni dei giudici di pace.
Il presidente dell’Oua, a margine della protesta, ha dichiarato: «Questa è l’Italia sana, che conosce i problemi del territorio e che risponde direttamente alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Non è l’Italia dei particolarismi, come si dice con troppa superficialità. Oggi in questa manifestazione partecipano migliaia di persone, a prescindere dalla collocazione politica e dalle appartenenze partitiche. La spending review, cioè l’ennesima manovra aggiuntiva fatta di soli tagli, sta affossando il ceto medio e produttivo di questo Paese e sta rottamando pezzi importanti del nostro welfare e dei diritti acquisiti dagli italiani: la giustizia è uno di questi. Questa revisione della geografia giudiziaria è la conseguenza di questa filosofia ed è solo un enorme “pasticcio all’italiana”».
«Ma facciamo alcuni esempi -sottolinea  de Tilla- che senso ha istituire a Napoli un secondo Tribunale (Napoli Nord) senza alcun preventivo esame dell’esistenza di strutture giudiziarie necessarie ad assorbire magistrati, personale e carichi di lavoro. Che senso ha poi l’istituzione di un nuovo Tribunale metropolitano senza Procura della Repubblica. Che senso ha, infine, la soppressione nel territorio del Tribunale di Napoli di tutte le Sezioni distaccate (quasi tutte ben funzionanti) e di quasi tutti i giudici di pace non circondariali. Sono noti al Ministero i dati numerici del circondario del Tribunale di Napoli? Come si fanno ad abolire tribunali per i quali sono state realizzate nuove sedi con l’esborso complessivo di oltre 60 miliardi di Euro (Castrovillari, Chiavari, Bassano del Grappa). Si tratta di incalcolabili sprechi e dissennate spese! Per i quali sembra necessario l’intervento della Corte dei Conti. Senza alcuna motivazione, se non la fretta di operare cambiamenti scriteriati e di scarsa valenza logica, si è stabilita la soppressione di sezioni distaccate che mutano tribunale di appartenenza (Rho, Legnano, Cassano d’Adda, Legnago, Este, Palmanova, Portogruaro, Sapri, Chivasso, Ciriè, Cava dei Tirreni, Mercato San Severino, Bagheria). Altre quattro sezioni distaccate vengono aggregate al nuovo Tribunale di Napoli Nord (Afragola, Casoria, Frattamaggiore, Marano di Napoli) che non sarà mai operante. Il tutto in un contesto irrazionale e di scarso rigore organizzativo. Si è così in presenza di distretti che accorpano più Regioni, e di Regioni ove vi sono 2, 3 o 4 distretti di Corte di Appello che interessano bacini di utenze inferiori alle sedi che si intendono sopprimere. Di fronte alla probabile scomparsa od accorpamento di ben 64 Province, si ribadisce il mantenimento dei tribunali su scala provinciale (Sic!). Non è invece il caso di soprassedere dalla cancellazione dei mille uffici giudiziari formulando ipotesi più ragionevoli e confluenti e di lasciar cadere la soppressione dei tribunali minori e di almeno la metà delle sedi distaccate e degli uffici dei giudici di pace? Tanto più che non si è in presenza di alcun studio serio di fattibilità in relazione alle sedi accorpanti. Da una nostra indagine emerge, invece, che gran parte dei tribunali accorpanti è priva di uffici e di strutture idonee ad assorbire le sedi distaccate soppresse».
«Lo schema di decreto legislativo –aggiunge il presidente Oua- deve essere bloccato (con il parere decisamente negativo delle Commissioni Giustizia del Senato e della Camera). Occorre riprendere il discorso con maggiore serietà e rigore ricercando soluzioni alternative per una revisione della geografia giudiziaria adeguata alle esigenze del territorio e ai principi indeclinabili della “giustizia di prossimità” e di obiettive esigenze infrastrutturali e di lotta alla criminalità organizzata. La distribuzione degli uffici giudiziari è di fondamentale importanza nel rapporto giustizia, territorio, cittadino».
«Dopo la finanza creativa –conclude, caustico, de Tilla- ecco la geografia creativa, e quindi, il caso Calabria: nella relazione del ministero di giustizia per giustificare la chiusura di diversi uffici giudiziari, la collocazione delle città viene spostata di diversi chilometri, spariscono casualmente alcune strade principali e diverse linee di autobus. Un pasticcio? O la necessità di piegare la realtà alle necessità ministeriali, addirittura cambiando la geografia del Paese. Se fossero degli errori, invece, di un governo di tecnici avremmo un Esecutivo da “rimandare a settembre”, se non da bocciare per ignoranza o per “aver truccato le carte”. Per tutte queste ragioni chiediamo una forte presa di posizione di tutto il mondo della giustizia, a partire dai magistrati, e, quindi, anche dell’Anm, nonché dei sindacati confederali, già oggi pomeriggio nella riunione del “Patto per la giustizia e i cittadini”. Infine, a settembre, sarà di nuovo sciopero degli avvocati».

Comunicato Stampa OUA del 24.7.2012