venerdì 28 febbraio 2014

Via libera ai parametri forensi

Nicola Marino (Oua): ora il governo
faccia presto a dare il via libera definitivo

L'Organismo Unitario dell'Avvocatura valuta positivamente il via libera dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato al regolamento sui parametri forensi. Nicola Marino, presidente Oua, ricorda la lunga attesa degli avvocati, oltre un anno, e sottolinea come la manifestazione a Montecitorio, del 20 febbraio scorso, abbia avuto un ruolo importante nella sensibilizzazione dei parlamentari: "A Roma, lo scorso 20 febbraio, incontrando i parlamentari di tutti gli schieramenti, a margine della presentazione delle proposte di riforma sulla Giustizia, l'Oua (la Giunta e i delegati dell'Assemblea) ha chiesto una sollecita soluzione di questa annosa questione. Invito recepito e che si è tradotto, una settimana dopo, nel via libera al regolamento sui parametri. Il regolamento - conclude Marino - ha diverse criticità, come giustamente sollevato da diversi parlamentari (vedi i pareri in allegato) nelle condizioni che accompagnano il parere licenziato dalle Commissioni. Ma sono un passo avanti, rispetto a quelle vigenti che sono oggettivamente punitive per gli avvocati. Ora chiediamo al Governo di dare il via libera definitivo con urgenza".


(Da Mondoprofessionisti del 28.2.2014)

30 giugno 2014: arriva il PCT

Ci siamo. Il 2014 sarà l’anno del definitivo avvio del processo civile telematico (PCT).

Come ormai tutti (o quasi) sanno, infatti, dal prossimo 30 giugno, diventerà obbligatorio procedere al deposito degli atti civili per via telematica.

Lo stabilisce l’art. 16 bis del D.L. 179/2012, in forza del quale nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione innanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti costituite avrà luogo esclusivamente con modalità telematiche.

Con opportuni distinguo in ordine alle fasi dei diversi riti, inoltre, la norma stabilisce l’obbligatorietà del deposito telematico anche nei processi esecutivi, nelle procedure concorsuali e nel procedimento monitorio.

Sull’argomento già molto si è scritto e dibattuto ma non tutti hanno forse colto l’importanza del passaggio al nuovo sistema.

Molti Colleghi sono ritrosi, probabilmente perché pensano che l’utilizzo del mezzo telematico sia complicato e/o insicuro, ma rimangono sorpresi dalla semplicità di utilizzo del mezzo quando vi si cimentano.

Adeguarsi al nuovo sistema, infatti, comporta solo pochi semplici passaggi che, in definitiva, si risolvono col dotarsi, oltrechè di un dispositivo di firma digitale (smart card o key card), di un apposito software di inoltro degli atti per via telematica. Software oggi già prodotto e posto in commercio da numerose aziende del settore informatico, che oltre a non avere un costo eccessivo, è facilmente reperibile sul mercato e, forse, si potrà sperare in una prossima distribuzione gratuita dello stesso.

Con siffatti strumenti, l’invio telematico degli atti da depositare presso gli uffici giudiziari, sarà utilizzato, nel processo di cognizione per il deposito di memorie ed atti di ogni genere (comparsa di risposta, comparsa di intervento, comparsa conclusionale e memoria di replica, memorie ex art. 183 c.p.c., memorie autorizzate dal giudice nel corso del procedimento, ecc.) e, nei procedimenti esecutivi, per il deposito di ogni atto di parte (dall’istanza di vendita esecuzioni mobiliari e immobiliari, al deposito relazione notarile ex art. 569 e dettaglio relazione notarile, dall’atto di intervento, all’istanza di assegnazione e/o l’istanza di distribuzione, dalla rinuncia all'esecuzione, alla rinuncia al mandato, ecc.), insomma ogni atto del procedimento.

La normativa dettata dall’art. 16 bis cit., d'altra parte, è già stata anticipata in forza del comma 5. Molti uffici giudiziari, infatti, hanno già da tempo iniziato ad utilizzare l’invio telematico degli atti anticipando di fatto l’entrata in vigore della normativa.

Già da oggi, inoltre, alcuni uffici giudiziari prevedono e consentono l’iscrizione della causa a ruolo per via telematica (con il pagamento on line del famigerato contributo unificato).

Fino ad ora, però, le parti processuali non hanno ancora l’obbligo ma solo la facoltà di utilizzare il nuovo sistema in luogo di quello attuale che obbliga a recarsi materialmente in cancelleria per provvedere al deposito di ogni singolo atto e/o documento da acquisire al processo.

Dal 30 giugno prossimo ciò non sarà più consentito poiché tutti gli atti processuali dovranno essere depositati telematicamente (salvo in casi di mancato funzionamento del sistema informatico e previo apposito decreto del presidente del Tribunale nei casi di urgenza ed indifferibilità).

L’effetto del nuovo sistema sarà quello di ridurre i tempi ed i costi connessi, necessari per gli incombenti, evitando le tanto fastidiose code ed attese che tutti conosciamo, ma consentirà altresì di avere sempre l’intero fascicolo sul proprio PC.

Ed infatti, oltre alle memorie, il sistema prevede anche il deposito di ogni genere di documento o atto proveniente dalle parti processuali.

Così il fascicolo sarà integralmente telematico, acquisito dal sistema mediante scansione di ogni atto e documento che, se necessario, dovrà essere firmato digitalmente.

L’avvocato, così come il giudice, accederà al fascicolo semplicemente attraverso il collegamento al Punto di Accesso (PdA) dove troveranno tutti gli atti (oltre ai fascicoli delle parti, anche i provvedimenti del giudice, i verbali di udienza, ecc.).

Una svolta tanto attesa e sperata cui dovremo trarre il giusto vantaggio.

Così sarà dal 30 giugno prossimo.

Non resta, dunque, che attrezzarsi e prendere a poco a poco dimestichezza con il nuovo sistema senza attendere l’ultimo momento!


Roberto Di Francesco - Delegato Cassa (da CFNewsletter 2/14)

OUA: “Basta sparare nel mucchio”

Il presidente Marino: "Con gli spot non si risolve
il problema delle troppe denunce ai medici:
gli avvoltoi così continueranno a volare”

È sempre scontro Medici-Avvocati sullo spot dell’Amami. Il presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura, Nicola Marino, prende posizione sulle polemiche scaturite dallo spot contro le troppe denunce di cui sono vittime i medici, prodotto dall’associazione Amami e altri sindacati e organizzazioni dei camici bianchi: «Invece di contrapposizioni abbiamo bisogno di collaborazione tra professionisti per isolare le “mele marce” che si annidano in ogni settore professionale. Medici e avvocati, assieme, devono collaborare per arginare il mercato delle denunce facili e, allo stesso tempo, per ottenere giustizia quando i cittadini sono vittime di un abuso o di un errore. Purtroppo in questi anni, per effetto della diffusione di una cultura pseudo-liberista, troppe società di servizi (al cui interno lavorano sia medici che avvocati) fanno concorrenza con ogni mezzo ai legali e alimentano artificiosamente questo problema, il tutto a scapito dei cittadini, del sistema giustizia, sempre più ingolfato, dei medici e dello stesso Ssn. Facciamo un appello – conclude Marino – alla Fnomceo, ai sindacati medici, affinché si apra un confronto su questi temi, al fine di lavorare su un terreno comune: la tutela reale dei diritti dei cittadini. Allo stesso modo crediamo che gli autori (Amami in testa) dello spot, dovrebbero riflettere sulle sterili polemiche di questi giorni e aggiustare il tiro, altrimenti, come giustamente intimato dal Cnf, non si potrà che ricorrere ad altre strade».


(Da Mondoprofessionisti del 27.2.2014)

giovedì 27 febbraio 2014

Dichiarazioni spontanee indagato interrompono prescrizione

Cass. Pen., SS.UU., sent. 6.2.2014 n° 5838

Le dichiarazioni spontanee rese dall'indagato debbono intendersi equiparate, al fine della interruzione della prescrizione, all'interrogatorio. E' quanto emerge dalla sentenza 6 febbraio 2014, n. 5838 delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione.

L'art. 374 c.p.p., con riferimento alla fase procedimentale delle indagini preliminari, dispone che chi ha notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini, ha facoltà di presentarsi al pubblico ministero e di rilasciare dichiarazioni. Ai sensi del successivo comma 2, quando il fatto per cui si procede è contestato a chi si presenta spontaneamente e questi è ammesso a esporre le sue discolpe, l'atto così compiuto equivale per ogni effetto ad interrogatorio. In tale ipotesi si applicano le disposizioni previste dagli articoli 64, 65 e 364.

Dalla formulazione delle norme anzidette balza evidente che, in caso di spontanea presentazione dell'indagato, qualora gli siano contestati i fatti per cui si procede, le sue dichiarazioni equivalgono, ad ogni effetto, all'interrogatorio. Considerato, allora, che l'interrogatorio reso davanti al pubblico ministero od al giudice rientra nell'elenco tassativo degli atti aventi efficacia interruttiva del corso della prescrizione, di cui all'art. 160 c.p., ne deriva che le dichiarazioni rese dall'indagato in sede di presentazione spontanea possono dispiegare efficacia interruttiva, al pari dell'ordinario interrogatorio, sempre che siano rese all'autorità giudiziaria (e non già, dunque, alla polizia giudiziaria) ed in esito a contestazione del fatto per cui si procede. Conseguentemente, il quesito riguardante la rilevanza delle dichiarazioni spontanee come atto interruttivo della prescrizione deve trovare risposta affermativa.

"A siffatta opinione non potrebbe, di certo, obiettarsi che, in mancanza di previsione delle dichiarazioni spontanee nel novero degli atti interruttivi della prescrizione di cui all'art. 160 cod. pen., avente carattere tassativo (Sez. U, n. 21833 del 22/02/2007, Iordache, Rv. 236372), l'attribuzione ad esse di valenza interruttiva si risolverebbe in un'interpretazione estensiva in malam partem, posto che l'equiparazione delle stesse all'interrogatorio - che è atto, normativamente, dotato di capacità interruttiva -non è frutto di attività ermeneutica, essendo prevista ex lege dal menzionato art. 374, comma 2, del codice di rito".

In merito all'ambito di esplicazione della relativa efficacia, l'art. 161, comma primo, c.p. dispone che la sospensione e la interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. "L'applicazione dell'anzidetto principio alla fattispecie in esame postula, com'è ovvio, l'individuazione delle specifiche posizioni concorsuali in relazione a ciascun reato, posto che l'estensione prevista dall'art. 161, comma primo, c.p., riguarda i concorrenti di un determinato reato e non può, quindi, indiscriminatamente applicarsi a quanti, per ragioni di connessione, siano imputati nello stesso procedimento per fatti diversamente qualificati e contestualizzati".


(Da Altalex del 27.2.2014. Nota di Simone Marani)

Rinvia intervento d’urgenza, medico responsabile penalmente

Cass. Sez. V Pen., Sent. 10.1.2014, n. 660

Il rinvio di un intervento già programmato come urgente, senza alcun monitoraggio delle condizioni del paziente, esclude la configurazione della colpa lieve, richiesto come elemento soggettivo di esclusione della responsabilità penale del medico.

Il principio in esame è stato stabilito dai giudici di Cassazione, chiamati a pronunciarsi sulla configurazione di una responsabilità penale per la condotta tenuta da un primario, a norma della Legge n. 189/2012, in materia di tutela della salute, per aver questo rinviato un intervento già programmato (nella specie, un taglio cesareo), cagionando per negligenza l’interruzione della gravidanza.

Estinto il reato ascritto per prescrizione, il primario è stato condannato dalla Corte d’Appello del luogo al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Avverso tale sentenza, lo stesso ha proposto ricorso in Cassazione.

Il medico contesta la sentenza di merito per il fatto che “il sopravvenuto art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189 esclude la responsabilità penale per colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria il quale si attenga a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, le quali non prevedono il parto cesareo come intervento da praticarsi nei casi di epatogestosi, quale quello riscontrato nei confronti della persona offesa”.

La Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, configurando la condotta incriminata come contraria alle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. In particolare, non si potrebbe parlare di colpa lieve nel caso esaminato per la grave negligenza e imperizia tenuta dal primario.

Nelle motivazioni della sentenza della Corte di cassazione leggiamo: “La condotta ascritta all’imputato non può assolutamente essere ritenuta come connotata da colpa lieve, nelle concrete circostanze della vicenda. A questo punto determinante è la considerazione per la quale il parto cesareo era stato in concreto programmato come intervento urgente. Tanto esclude che il rinvio dell’operazione, oltretutto non accompagnato da un monitoraggio cardiografico della paziente, fosse conforme a buone pratiche, e comunque nel momento in cui il feto cessava di vivere la notte seguente alla giornata programmata per il taglio cesareo, rende coerenti le conclusioni della sentenza impugnata sull’essere tale intervento l’unico a quel punto idoneo ad impedire l’evento letale”.

Di conseguenza, la Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la condanna al risarcimento dei danni cagionati alla paziente.


Lorenzo Dispero (da filodiritto.com del 26.2.2014)

mercoledì 26 febbraio 2014

Osservatorio interprofessionale contro gli avvoltoi in sanità

La marcia indietro di A.m.a.m.i. dopo la diffida del CNF

“Lanciamo la proposta, a tutti gli Ordini professionali, di costruire insieme ad Amami (Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente,  un Osservatorio per smascherare gli avvoltoi della malasanità, quale che sia il loro mestiere (#avvoltoidellamalasanità)”. Il girono dopo la diffida del Cnf contro lo spot dell’associazione dei medici colpiti da denunce ingiuste, Amami, fa marcia indietro. “Alcune categorie professionali si sono sentite offese dallo spot "Medici, pazienti e avvoltoi" – dice il presidente - diffidandoci e minacciando querele. Colpisce pensare che per alcuni il messaggio fosse loro indirizzato. Infatti è ben lungi da noi voler individuare una categoria professionale quale responsabile dell'aggressione mediatica, pubblicitaria e risarcitoria che da anni prende di mira i medici attraverso iniziative di ogni genere. Il prodotto è stato il danno economico della medicina difensiva, la nota "crisi di vocazione" per le specialità chirurgiche e ha screditato la sanità italiana.  Amami non ritiene che gli avvoltoi della malasanità appartengano a uno specifico ordine professionale. Ce ne sono alcuni tra i medici, tra gli avvocati, tra i giornalisti e molti altri per i quali non è ancora stato inventato un ordine professionale.  Amami denuncia il fenomeno dell’accusa infondata e informa che i medici non sono più disposti a subire passivamente speculazioni di ogni genere, ma pronti a reagire con forza a tutela della loro dignità. Gli unici che hanno diritto a offendersi e ai quali siamo pronti a chiedere scusa, sono i volatili, che rivestono un importante ruolo nella catena alimentare cibandosi di cadaveri e non assalendo professionisti vivi che operano ogni giorno per il benessere dei cittadini”.


Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 26.2.2014)

“Favor rei” dopo bocciatura della Fini-Giovanardi

Corte cost. sent. 25.2.2014 n. 32
 
La cosiddetta Fini-Giovanardi sulle droghe ha introdotto attraverso un maxi-emendamento modifiche del tutto estranee al decreto legge di partenza, varando una riforma così incisiva sul piano politico, giuridico e scientifico che proprio per questo avrebbe meritato ben altro approfondimento nel dibattito parlamentare. Un dibattito compresso dai tempi rapidi dell'iter di conversione del decreto e schiacciato dal voto di fiducia che lo stesso governo pose sul maxi-emendamento, "precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione" sui singoli punti. È per questi motivi che la Corte costituzionale, con la sentenza 32/2014, ha giudicato illegittima la legge e precisamente due articoli, aggiunti in sede di conversione al cosiddetto decreto-Olimpiadi, varato dal governo a fine 2005 e convertito a inizio 2006.

Il contenuto originario

La norma conteneva misure sulle olimpiadi invernali, contro il terrorismo e la criminalità organizzata e anche per impedire l'interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Ma queste ultime si trasformarono, nella legge di conversione, in norme sulle droghe, cancellando la distinzione tra legge e pesanti e anche la diversificazione nelle pene previste per i diversi reati. La questione è finita di fronte alla Corte Costituzionale, che l'ha discussa e decisa tra l'11 e il 12 febbraio. Ieri il deposito delle motivazioni, estensore il giudice Marta Cartabia.

L'iter di conversione

La decisione della Corte, come spiega la sentenza, riguarda un problema di natura procedurale: l'iter di conversione di un decreto e la violazione dell'articolo 77 della Costituzione. In sostanza, la possibilità di emendare un decreto durante la fase di conversione in legge - passaggio parlamentare semplificato e particolarmente rapido - non è incondizionata, ma incontra dei limiti.

Quindi "la legge di conversione non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore. Diversamente, l'iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l'atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare", scrive la Corte.

Le conseguenze

Le conseguenze di questa decisione sono però più ampie, perché i due articoli decadono e con essi la parificazione delle droghe leggere a quelle pesanti. Di conseguenza, spiega la sentenza, torna in vigore la legge sulle droghe precedente alla Fini-Giovanardi, ossia la Iervolino-Vassalli (modificata dal referendum del '93 che abolì il carcere per l'uso personale). Quanto ai singoli imputati, il giudice comune dovrà tener conto del favor rei, cioè del principio che implica l'applicazione della norma penale più favorevole.

Il parere del penalista

Di fatto, come spiega il penalista Roberto Afeltra, tornando in vigore le norme precedenti, "le sanzioni per le droghe leggere si riducono e tornano da un minino di 2 a un massimo di 6 anni di carcere, ma in virtù del favor rei si riducono anche quelle per le droghe pesanti, passando da un minimo di 6 a un massimo di 20 anni, anziché 8-20 anni. Inoltre, sarà possibile chiedere la rimodulazione della pena per le sentenze successive al 2006".

Il garante dei detenuti

La decisione della Corte avrà quindi riflessi anche sulla popolazione carceraria. Ora, commenta il coordinatore dei garanti dei detenuti, Franco Corleone, "è certificato per sentenza inoppugnabile che è stato compiuto un abuso ed è una felice coincidenza nel momento di costituzione di un nuovo governo che questo monito venga elevato con così grande nettezza".


(Da ilsole24ore.com)

Gli avvocati non sono avvoltoi

Il Cnf diffida l'Associazione A.M.A.M.I. per lo spot
che ventila cause legali pretestuose contro i medici

Il Consiglio Nazionale Forense annuncia una formale diffida rivolta all’Associazione di medici A.M.A.M.I, volta ad ottenere il ritiro, dal web e da ogni altro canale, dello spot Medici-Pazienti-Avvoltoi, presentato ieri nel corso di un convegno che risulterebbe essere stato patrocinato dal Ministero della Salute. Allo spot in questione è stato dedicato un ampio servizio nella edizione delle 20.00 del Tg5, secondo cui lo spot prodotto da A.M.A.M.I. deve ritenersi riferibile agli avvocati, affermazione che ad ora non risulta smentita. Nel contempo, il CNF chiede al Ministro della Salute di prendere immediatamente le distanze dallo spot presentato in un convegno dallo stesso patrocinato, e dunque sotto la sua responsabilità, e di assumere tutte le iniziative necessarie ad affermare la propria estraneità e non condivisione di tale iniziativa pubblicitaria.  “Di assoluta evidenza la volgarità dell'operazione diffamatoria, genericamente compiuta ai danni di una intera categoria, altamente lesiva della dignità di una professione deputata costituzionalmente alla difesa dei diritti dei cittadini”, rileva il CNF riservandosi di procedere in tutte le opportune sedi penali e civili. Il CNF richiama al rispetto del senso etico ogni professione anche nei reciproci rapporti, nella convinzione che i toni e le forme diffamatorie assolutamente generalisti nuocciano alla corretta analisi dei fatti e, in fin dei conti, nuocciano proprio a quei diritti che si dichiara di voler tutelare.

Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 25.2.2014)

Cassintegrato con auto di lusso? No riduzione assegno mantenimento

Cass. Civ. Sez. VI, Ord. 5.2.2014, n. 2537


Il caso: un marito propone appello avverso la sentenza di divorzio che stabiliva a suo carico l'obbligo di corresponsione della somma di € 550,00 a titolo di mantenimento della figlie maggiorenni non economicamente indipendenti.

La ragione su cui l'appellante fondava la richiesta di riduzione di detta somma, consisteva nella diminuzione del suo reddito dovuta al collocamento in cassa integrazione.

La moglie si costituiva non soltanto contestando detta richiesta di riduzione, ma chiedendo pure un assegno divorzile per se medesima.

A sostegno della propria domanda, la moglie adduceva che il marito aveva recentemente acquistato lussuosa auto BMW, indicativa della sua capacità di spesa.

La Corte di appello di Cagliari accoglieva in parte l'appello del marito, riducendo la somma a favore delle figlie in € 250,00, ma accoglieva l'appello incidentale della moglie, riconoscendo a favore della stessa un assegno di mantenimento di € 150 mensili.

La questione arriva in Cassazione a seguito del ricorso presentato dal marito.

Gli ermellini danno atto che, se da una parte la Corte d'Appello ha tenuto conto della condizione di cassaintegrato del ricorrente riducendo così l'assegno di mantenimento per le figlie, dall'altra confermano che la sproporzione dei redditi dei coniugi (il marito percepiva comunque un reddito fisso e godeva di una abitazione) e l'acquisto ed il mantenimento di un auto di lusso, indubbiamente rappresentano una capacità di spesa a fronte della quale è giuridicamente giustificato il riconoscimento a favore della moglie di una somma a titolo di assegno divorzile.

Non pare che nulla si possa eccepire all'analisi effettuata dai giudici: oltre all'elemento della valutazione comparativa dei redditi delle parti, con la conseguente perequazione tra i coniugi a titolo prettamente assistenziale, che caratterizza l'assegno divorzile, l'esame della capacità patrimoniale del coniuge onerato non può limitarsi alla sola situazione reddituale, ma deve comprendere l'intera capacità patrimoniale.

Ne consegue che l'acquisto di una nuova auto di lusso, pur in costanza di collocamento in cassa integrazione, denota senza dubbio una situazione economica ed una capacità di spesa idonee a integrare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del coniuge più debole di un proporzionale assegno di divorzio.


Marta Rovacchi (da ilsole24ore.com)

martedì 25 febbraio 2014

Patrocinio ente e dati professionista incaricato

L’amministrazione è tenuta a pubblicare i dati di cui all’art. 15 del D.Lgs. 33/2013 relativamente ad un professionista a cui conferisce un incarico di difesa e rappresentanza dell’ente in giudizio?  La risposta al quesito è stata fornita dall’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, l’Autorità ha distinto due diverse ipotesi. Nel caso in cui siano attribuiti ad un professionista uno o più incarichi per la difesa e la rappresentanza dell’ente in relazione a singole controversie, l’amministrazione affida incarichi di patrocinio legale che possono essere inquadrati come incarichi di consulenza e, pertanto, è tenuta, ai sensi dell’art. 15, commi 1 e 2, del D.Lgs.  33/2013, a pubblicare i relativi dati sul sito istituzionale nella sezione “Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Consulenti e collaboratori”.

Qualora, invece, l’amministrazione affidi all’esterno la complessiva gestione del servizio di assistenza legale, ivi inclusa la difesa giudiziale, ha luogo una procedura di appalto di servizi. Pertanto, in virtù di quanto previsto dall’art. 37 del D.Lgs. 33/2013, dall’art. 1, comma 32, della L. 190/2012, nonché dal D.Lgs. 163/2006, l’amministrazione appaltante deve pubblicare sul sito istituzionale le informazioni stabilite dalle norme richiamate all’interno della sezione “Amministrazione trasparente”, sotto-sezione di primo livello “Bandi di gara e contratti”.

È stato, poi, specificato che i dati relativi alle retribuzioni non devono essere riportati all’interno dei curricula ma di essi deve essere data separata evidenza. Inoltre, i compensi sono da pubblicare al lordo di oneri sociali e fiscali a carico del dipendente o collaboratore e consulente.


Biancamaria Consales (da diritto.it del 25.2.2014)

Limiti di acquisizione documenti pubblici da parte del CTU

Con un'interessante ordinanza emessa il 13 febbraio 2014, il Tribunale di Milano, sezione XI, dott.ssa Giannelli, ha chiarito che il consulente tecnico d'ufficio non può acquisire i bilanci di una società depositati presso la Camera di Commercio qualora da questi si possano evincere fatti e/o elementi necessari a provare la domanda. Secondo il Tribunale di Milano tale preclusione vale anche per il caso in cui all'acquisizione abbiano prestato assenso tutte le parti.
Ecco i fatti.

Nel 2007 una società di intermediazione assicurativa intraprende una causa per risarcimento danni di natura contrattuale contro una compagnia di assicurazioni.

Nello stesso giudizio la compagnia di assicurazione svolge domanda riconvenzionale avente ad oggetto la restituzione di certe somme rimborsate all'intermediario nel corso degli anni di attività. Al fine di quantificare tale pretesa restitutoria il giudice dispone una consulenza contabile.

Il consulente tecnico si rende tuttavia subito conto che non è possibile rispondere al quesito posto dal giudice in mancanza della produzione in giudizio ,da parte della compagnia, dei bilanci della società di intermediazione dai quali si sarebbero potuti trarre i dati necessari alla quantificazione della pretesa restitutoria.

Per superare l'impasse, il consulente tecnico chiede, quindi, alle parti di acconsentire all'acquisizione dei bilanci in questione. La società di intermediazione si oppone all'acquisizione sulla base dell'argomento che la compagnia avrebbe potuto/dovuto produrre tali bilanci nei termini previsti dal codice per il deposito delle memorie istruttorie. Al contrario la compagnia sostiene che trattandosi di documenti pubblici depositati presso la Camera di Commercio, questi siano liberamente accessibili e consultabili da chiunque, ivi incluso il consulente tecnico.

Con la predetta ordinanza, l'istanza volta alla acquisizione ed utilizzazione da parte del consulente tecnico dei bilanci della società attrice non prodotti in causa è stata rigettata.

In conformità con il principio affermato dalla Suprema Corte (Cass. 24549/2010) ancorché non pacifico, il Tribunale di Milano ha quindi posto dei limiti all'ingresso nel giudizio di documenti (anche se pubblici) in occasione della consulenza tecnica.

I bilanci societari sono sì documenti pubblici ma contengono dati ed elementi di fatto sui quali può fondarsi la domanda giudiziale: in tal caso, la mancata produzione in giudizio nei termini previsti dalle norme che regolano lo svolgimento del processo civile non può essere "sanata" dalla solerte iniziativa del consulente tecnico.

Una decisione importante e coerente con la natura del nostro processo civile che, si ricorda, è ad esclusiva iniziativa delle parti e nel quale il giudice (come i suoi ausiliari) sono super partes e non possono interviene al fine di colmare lacune probatorie.


Sara Sparagna (da ilsole24ore.com)

“Avvocato fuori di testa” non è reato!

"Un avvocato è professionalmente al servizio della canaglia" diceva Élisabeth Barbier e non aveva tutti i torti. 
Il mestiere dell'avvocato però non è semplice perché il suo peggior nemico, a volte, e' proprio il cliente che non rispettando il ruolo del professionista sconfina in linguaggi confidenziali ed atteggiamenti irriverenti.
Quindi, può accadere che un cliente non soddisfatto dell'operato del professionista dia largo sfogo alla sua ira pronunciando frasi del tipo: "avvocato lei è' fuori di testa". Un modo come un altro per dire "lei è un pazzo".
Secondo la Corte di Cassazione però (sentenza n. 7594 del 18.02.2014), chi pronuncia questa espressione non risponde del reato di ingiuria perché, nonostante la frase sia rozza ed inelegante, se pronunciata in un contesto di scambio di opinioni ,non lede l'onore e il decoro del destinatario.
Il caso di specie vede come protagonista un uomo che ,dal Tribunale di Perugia, era stato ritenuto responsabile del reato di ingiuria e poi condannato a pagare 800 euro di multa  e a risarcire i danni e le spese processuali in favore dell'avvocato raggiunto dall'offesa. La Suprema Corte, però , ha ribaltato il verdetto accogliendo il ricorso dell'imputato.
Una decisione che potrebbe apparire poco confortante per la nostra categoria professionale,  ma la corte non vuole legittimare qualsiasi tipo di libero sfogo. La decisione  degli ermellini e scaturita dalla specificità del caso.
In buona sostanza è principio generale che una frase offensiva "può non essere punibile" se pronunciata all'interno di un dialogo animato.

Barbara Pirelli (da studiocataldi.it)

Shopping compulsivo causa di addebito separazione

Nota a Cass. Sez. I Civ., Sent. 11.11.2013, n. 25843

1. Le massime

La domanda di addebito implica l’imputabilità al coniuge del comportamento lesivo dei doveri coniugali, nonché la sussistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento lesivo e la intollerabilità della convivenza (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia di merito con cui il giudice di appello aveva disposto, con motivazione adeguata e non illogica, l’addebito della separazione a carico della moglie, su cui era stata riscontrata – all’esito della consulenza tecnica di ufficio – una affezione da shopping compulsivo, nevrosi attinente all’uso incontrollato del denaro per effettuare ossessivamente l’acquisto di beni. Simile condotta antidoverosa era ritenuta, nel giudizio di merito, causa della intollerabilità della convivenza tra i coniugi).

Nel novero delle cause di inimputabilità rientrano non solo le malattie mentali in senso stretto, bensì pure le nevrosi, le psicopatie, i disturbi della personalità, purché siano di intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente ed a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta antidoverosa, per effetto del quale il fatto illecito sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale (nella specie, la Corte ritiene incensurabili, in sede di legittimità, le risultanze della consulenza tecnica, recepite dal giudice di merito, secondo cui la moglie, pure essendo affetta da shopping compulsivo, non era comunque priva della capacità di intendere o volere).



2. Il caso

In un procedimento di separazione giudiziale, il Tribunale adito rigettava la richiesta di addebito reciprocamente proposta dalle parti e condannava Tizio a corrispondere alla moglie un assegno di mantenimento di duemila euro mensili.

Tizio impugnava la sentenza del Tribunale, chiedendo al Giudice di appello di pronunciare l’addebito a carico di Caia; quest’ultima, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto del gravame proposto da Tizio e la conferma della sentenza di primo grado. La Corte di appello, in riforma, pronunciava la separazione personale dei coniugi, con addebito alla moglie e conseguente esclusione dell’assegno di mantenimento in favore di lei. Il giudice di seconde cure valorizzava, in particolare, quanto emerso all’esito della consulenza tecnica di ufficio, secondo cui Caia, pur perfettamente capace di intendere e volere, era affetta da shopping compulsivo, un disturbo della personalità connotato da un impulso irrefrenabile ad acquistare, attenuato solo dall’acquisto di beni, acquisto che veniva effettuato depauperando – in misura vieppiù ingente – le casse familiari.

Caia proponeva ricorso per cassazione, deducendo tre motivi: 1) la sentenza impugnata, nell’offrire una lettura riduttiva della consulenza tecnica d’ufficio, sarebbe incorsa in difetto di motivazione; 2) falsa applicazione delle norme in tema di violazione dei doveri matrimoniali e di quelle relative all’addebito della separazione, attesa la non imputabilità alla ricorrente del comportamento accertato; 3) la non correttezza del riparto delle spese di lite. Resisteva, con controricorso, Tizio.



3. La decisione

La Suprema Corte rigetta tutti i motivi di ricorso. I primi due vengono esaminati congiuntamente. A proposito di essi, la Corte precisa che sono sottratti al sindacato di legittimità profili che attengono l’accertamento in fatto e, più specificamente, la valutazione compiuta dal giudice di appello circa la consulenza tecnica.

Dalla sentenza impugnata emergeva come il consulente tecnico di ufficio – con valutazione condivisa dal giudice di appello – avesse accertato l’utilizzo, da parte di Caia, di denaro sottratto si a familiari sia a terzi, per soddisfare la propria esigenza di effettuare acquisti sempre più frequenti e dispendiosi di vestiti, borse e gioielli.

Emergeva, inoltre, che simili condotte di Caia erano riconducibili a una nevrosi caratteriale repressa, più esattamente diagnosticata quale shopping compulsivo. A dispetto di ciò, in capo a Caia era stata esclusa alcuna incapacità di intendere e di volere, sussistendo soltanto un disturbo della personalità, non tale da escludere l’imputabilità della condotta dissipatrice in capo a Caia, quella stessa ritenuta all’origine della intollerabilità della prosecuzione della vita in comune dei coniugi.

Del pari infondato è ritenuto il terzo motivo di ricorso ed è confermata la condanna al pagamento delle spese di lite a carico di Caia, secondo il principio della soccombenza.



4. I precedenti

In senso conforme alla prima massima, si veda Cassazione Civile n. 14042/2008.

La problematica dei disturbi della personalità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente è stata affrontata, con argomentazioni conformi a quelle riportate nella seconda delle massime enunciate, dalla Cassazione Penale, Sezioni Unite, con la sentenza n. 9163/2005.

La Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva erroneamente escluso il vizio parziale di mente dell’autore di una condotta delittuosa che risultava affetto da un disturbo non rientrante tra le alterazioni patologiche clinicamente accertabili e corrispondenti al quadro di una vera e propria malattia psichica (nella specie, si trattava di disturbo paranoideo, di cui si era accertato essere affetto l’autore di un omicidio).

Le Sezioni Unite Penali hanno riconosciuto che anche “i disturbi della personalità” possono determinare un vizio totale o parziale di mente, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, all’ulteriore condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta illecita, per effetto del quale l’illecito possa ritenersi causalmente determinato dal disturbo mentale.


Andrea Falcone (da filodiritto.com)

lunedì 24 febbraio 2014

CANCELLERIE APERTE ALMENO 5 ORE AL GIORNO

Il Consiglio di Stato consacra definitivamente
la battaglia del foro di Roma avviata sin dal 2011

La battaglia dell’Ordine degli avvocati di Roma avviata nel 2011 a tutela dell'avvocatura italiana, dopo un iter giudiziario tormentato, è giunta finalmente al capolinea. Il Consiglio di Stato (cfr. post precedente, NdAGANews) ha affermato definitivamente, accogliendo nel merito il ricorso dell'Ordine capitolino, la tesi della inderogabilità dell'orario di apertura delle cancellerie per cinque ore giornaliere, annullando l'ordinanza del Tribunale di Roma che il 20 settembre 2012 aveva disposto che le cancellerie civili degli uffici in viale Giulio Cesare e via Lepanto restassero aperte solo tre ore. “La portata della sentenza – dice Antonino Galletti consigliere tesoriere Coa di Roma e autore dei primi ricorsi che hanno dato l'avvio al contenzioso sul tema - è dirompente e sarà utile a tutta l'avvocatura italiana che saprà prendere spunto e esempio dal nostro contenzioso per trarne giovamento in ogni sede giudiziaria”. Nel dettaglio, il Supremo Collegio di Giustizia Amministrativa, Sezione Quarta, nella sentenza n. 798/2014 depositata il 20.2.2014, ha affermato che "la questione giuridica posta all’attenzione della Sezione dalla instaurata controversia trova, quanto alla sua soluzione , un preciso riferimento normativo nella puntuale diposizione recata dall’art.162, 1° comma della legge 23 ottobre 1962 n.1196( “ ordinamento del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie e dei dattilografi”) che così prevede: “ le cancellerie e segreterie giudiziarie sono aperte al pubblico cinque ore nei giorni feriali , secondo l’orario stabilito dai capi degli uffici giudiziari , sentiti i capi delle cancellerie e delle segreterie interessate”. Stante l’inequivoco tenore letterale della predetta norma, ai capi degli uffici giudiziari spetta il potere regolamentare di stabilire l’orario di apertura al pubblico delle cancellerie e segreterie, ma sempre nell’osservanza del limite della durata dell’orario di apertura di cinque ore giornaliere, come previsto dal citato art.162. “Quella testé riportata – dice Galletti - è una norma tassativa che se da un lato rimette alla discrezionalità del Dirigente il potere di articolare l’orario in questione nel senso di poter variamente fissare l’ora di inizio dell’apertura al pubblico , dall’altro lato vieta di ridurre la durata oraria in cui le cancellerie e segreterie devono essere aperte al pubblico (non meno di cinque ore nei giorni feriali)”. In altri termini, la previsione legislativa in rassegna ha un contenuto assolutamente vincolante, tale da non lasciare alcun margine di discrezionalità in ordine ad una opzione di durata oraria giornaliera di apertura al pubblico degli uffici giudiziari diversa da quella fissata direttamente ed inequivocabilmente dal legislatore nazionale a mezzo di un previsione con una valenza uniforme per tutte le cancellerie e segreterie giudiziarie presenti sull’intero territorio italiano. D’altra parte il regime giuridico di rango legislativo applicabile all’orario di apertura degli uffici in questione si pone in linea con la regola della riserva di legge prevista in materia dall’art.97 Cost. (“ i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”) e, com’è noto, il principio di riserva di legge impone da un lato che la disciplina di una certa materia sia demandata alla fonte legislativa e dall’altro lato che fonti “ normative” diverse non possono intervenire sugli oggetti riservati alla legge."

Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 24.2.2014)

Sugli orari d’apertura delle cancellerie

Con sentenza 20 febbraio 2014 il Consiglio di Stato, sez. IV, ha stabilito che è illegittimo il decreto del Presidente del Tribunale con il quale è stato disposto che gli uffici e le cancellerie del settore civile del Tribunale rimangono aperti soltanto dalle ore 9 alle ore 12 (fattispecie relativa al Tribunale civile di Roma).

Confisca nei reati tributari

Cass. Pen., Sez. III, 6.2.2014, n. 5759

La Cassazione ammette la confisca per equivalente a prescindere dal mancato rinvenimento del prezzo o del profitto. Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente nei reati tributari non richiede il previo accertamento dell'esistenza di entità patrimoniali integranti il profitto del reato, costituito in questi casi in un risparmio di imposta evasa, e non in un incremento patrimoniale; ne segue quindi che unico requisito di applicazione è la disponibilità di beni (danaro o altra utilità suscettibile di valutazione economica) sotto il profilo del valore corrispondenti all'importo dell'imposta evasa.

(Da telediritto.it)

sabato 22 febbraio 2014

Condannato studente che corteggiava docente

Cass., sez. V Pen., sent. n. 8393 del 21.2.2014

Eccessivi i comportamenti tenuti dal giovane, che ha prima fatto una corte serrata alla donna e poi è caduto in una vera e propria ossessione, caratterizzata anche da pedinamenti e messaggini. Fatale l’ultimo tentativo di approccio, interrotto, però, dai carabinieri.

(Estratto da dirittoegiustizia.it del 21.2.2014)

Notifica all’ultimo domicilio eletto

Cass. sez. IV Pen., sent. n. 8085 del 20.2.2014

A quale domicilio eletto va eseguita la notifica del decreto di citazione? La nuova elezione revoca quella precedente: non trova spazio l’elezione di domicilio plurima perché in contrasto con l’esigenza di consentire all’Autorità Giudiziaria l’individuazione di un recapito certo del destinatario degli atti e di garantire all’interessato una sicura e tempestiva ricezione degli stessi. 

Annalisa Gasparre (estratto da dirittoegiustizia.it del 21.2.2014)

venerdì 21 febbraio 2014

ANDREA ORLANDO NUOVO MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

Chi è il deputato ligure entrato nel governo Renzi

Dopo l’esperienza nel governo guidato di Enrico Letta, Andrea Orlando, 45enne deputato ligure del Partito Democratico viene scelto come componente dell’esecutivo anche dal nuovo premier Matteo Renzi. Nato a la Spezia l’8 febbraio del 1969, Orlando è stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 2006 ed è stato responsabile Giustizia del Pd durante la segreteria di Pier Luigi Bersani.

DALLA FGCI AL PD – Da giovane milita nella Fgci, della quale diventa segretario provinciale a La Spezia nel 1989. Viene più volte eletto in consiglio comunale nella sua città tra le fila di Pci prima e Pds poi, ricoprendo anche l’incarico di assessore. Nel 1995 diventa segretario cittadino del Pds. Nel 2000 entra a far parte della segreteria regionale ligure dei Democratici di sinistra, mentre tre anni più tardi viene chiamato da Piero Fassino a ricoprire un incarico nella segreteria regionale. Orlando entra alla Camera dopo essere stato nella lista unitaria del centrosinistra Uniti nell’Ulivo. Alla nascita del Pd, nel 2007, ne diviene responsabile dell’organizzazione. Nel 2008 assume poi l’incarico di portavoce della segreteria di Walter Veltroni. Alle elezioni politiche del 2013 viene eletto per la terza volta a Montecitorio, ancora nella circoscrizione Liguria. Dopo essere stato sconfitto nella sfida per la guida del gruppo Pd alla Camera, ruolo affidato all’onorevole Roberto Speranza, alla nascita del governo Letta assume la carica di ministro dell’Ambiente. È uno dei promotori della legge sull’emergenza rifiuti nella Terra dei Fuochi che fornisce nuovi strumenti alla magistratura per combattere i roghi di rifiuti, accelera le bonifiche e stabilisce l’uso dell’esercito a scopo di sorveglianza nelle terre contaminate.

COMMISSARIO A NAPOLI – Oltre ad assumere il ruolo di responsabile Giustizia per il Pd, durante la segreteria di Bersani, nel 2010, assume l’incarico di commissario del partito a Napoli. Nella città campana viene pizzicato ad una festa che vede la partecipazione di molte modelle. Nel 2010 subisce il ritiro della patente dopo essere stato scoperto al volante con un tasso alcolemico superiore al consentito.


(Da giornalettismo.com del 21.2.2014)

DISOBBEDIENZA CIVILE NEI TRIBUNALI

La protesta delle toghe continua 
dopo il grande corteo di ieri
 con oltre 10 mila avvocati
con l'astensione dalle udienze
 dal 17 al 22 marzo

"Non ci fermeremo. Se non ci saranno risposte concrete alle proposte avanzate con ieri con il grande corteo di Roma, avvieremo una campagna di disobbedienza civile nei tribunali” così il presidente Oua, Nicola Marino, tirando le somme della manifestazione nella Capitale, in vista di nuove forme di protesta del mondo forense. “Smetteremo di supplire lo Stato – assicura - così da mettere in evidenza le enormi inefficienze della macchina giudiziaria e il ruolo silenzioso e fondamentale degli avvocati; non eserciteremo la difesa d'ufficio e il gratuito patrocinio. senza il ritiro del ddl delega sul processo civile e senza un'interlocuzione seria (con avvocati negli uffici legislativi e nei consigli giudiziari) sarà di nuovo astensione a marzo". L'Organismo Unitario sulla base di una deliberazione della propria assemblea dei delegati, in rappresentanza di tutti i fori italiani (di seguito lo stralcio), ha deciso di mantenere lo stato di agitazione, di avviare una campagna di disobbedienza civile (di seguito l'elenco delle iniziative), e di sensibilizzazione delle istituzioni europee sulle ragioni della protesta. Quindi, in assenza di riscontri concreti da parte del Governo e del Parlamento, a partire dal ritiro del ddl delega sul processo civile, astensione dalle udienze dal 17 al 22 marzo.


Luigi Berliri (da Mondoprofessionsti del 21.2.2014)

Pubblicità avvocato nel nuovo codice deontologico

di Antonino Ciavola


Con delibera del 31 gennaio 2014 il CNF ha approvato il nuovo codice deontologico forense. L'avv. Antonino Ciavola (nostro grande amico e consigliere dell’Ordine, NdAGANews) analizza le novità introdotte in materia di pubblicità forense anche alla luce del dossier elaborato dal CNF sul punto nonchè di una recente pronuncia della Suprema Corte riguardante professionisti che offrivano la sottoscrizione del ricorso in Cassazione.



1. Breve storia della pubblicità forense

2. Che cos’è la pubblicità?

3. L’evoluzione della normativa italiana

4. I prezzi delle prestazioni

5. La sentenza Cass. Civ., SS.UU., 16 dicembre 2013 n. 27996

6. Il nuovo codice deontologico

7. Altra casistica

8. La casistica mai sanzionata: Enjoy Avvocato



1. Breve storia della pubblicità forense

Nel 1990 il Ricciardi scriveva che il divieto di propaganda costituisce un principio deontologico importante, diretto a sottolineare la particolare dignità della professione forense, che non è equiparabile ad una qualunque attività di servizi.

Lo stesso autore, a titolo esemplificativo, indicava come illecito disciplinare l’inserimento del proprio nome in grassetto nell’elenco telefonico; questo è sempre stato un classico esempio di pubblicità dell’avvocato in un’ottica mercantile, e svariate volte sanzionato.

Altro esempio di pubblicità indiretta citato dal Ricciardi riguarda l’invio di biglietti augurali del professionista al personale di cancelleria con l’invito, sul retro, a ritirare una strenna natalizia.

Sempre nel 1990, era indicato come esempio di pubblicità e propaganda vietata quello della diffusione di lettere circolari contenenti il nominativo del professionista e dei suoi successi professionali.

Nel 1991 la Francia si è dotata di una legge che permette agli avvocati di fare pubblicità nei limiti in cui ciò serva a dare informazione al pubblico sull’attività svolta e non abbia un aspetto commerciale. Analoga iniziativa è stata adottata in Germania, mentre in Italia il codice deontologico approvato nel 1997, all’art. 17, continuava a vietare qualsiasi forma di pubblicità, consentendo una limitata attività di informazione, purché in modo veritiero e nel rispetto dei doveri di dignità e decoro.

Con la modifica del 26 ottobre 2002, l’impostazione del codice deontologico in materia di pubblicità cominciava a mutare: la rubrica dell’art. 17 non riguardava più un divieto, bensì le informazioni sull’esercizio professionale.

Sembrava così evidente la volontà, da parte di tutta l’avvocatura europea, di distinguere tra informazione e pubblicità, considerando la prima un diritto dell’avvocato derivante dal mutato assetto sociale, e la seconda una indecorosa attività mercantile.


2. Che cos’è la pubblicità?

Esaminando la definizione di pubblicità riportata dai dizionari, troviamo sia la divulgazione di una notizia tra il pubblico, sia (più specificamente) l’attività aziendale diretta a far conoscere l’esistenza di un bene o servizio e a incrementarne il consumo e l’uso.

Dottrina, giurisprudenza e leggi hanno poi gradatamente ipotizzato, definito e sanzionato una particolare forma di pubblicità, quella che si concretizza nella menzogna e nell’inganno, e che è stata definita pubblicità ingannevole, poichè fornisce informazioni false e/o distorte.

Dal punto di vista normativo, il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, emanato in attuazione di una direttiva comunitaria e modificato con D. Lgs. 25 febbraio 2000 n. 67, definiva la pubblicità come qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni ... oppure la prestazione di opere o di servizi.

Il decreto era espressamente rivolto, ai sensi dell’art. 1, anche ai soggetti che esercitano un’attività professionale.

La norma è stata poi riformulata (si veda il d. Lgs. 2 agosto 2007, n. 145), ma resta fermo che per pubblicità ingannevole si intende quella che induca o possa indurre in errore, pregiudicando l’economia e la concorrenza; e che la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale, ed è vietata ogni forma di pubblicità subliminale.

L’esame dei dati normativi e l’approfondimento del nostro ragionamento ci portano ad affermare che, anche in campo forense, la distinzione da farsi non è tanto quella, più volte sottolineata, tra informazione e pubblicità, bensì quella tra pubblicità vera e corretta da una parte (informazione secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli obblighi di segretezza e riservatezza) e pubblicità ingannevole e fuorviante dall’altra.

Infatti, ogni messaggio informativo costituisce una forma di pubblicità, sia perché questa è la definizione legislativa, sia soprattutto perché l’avvocato che informa ha in realtà lo scopo di incrementare la propria clientela.

La distinzione era già stata avvertita dal Ricciardi, che accanto alla parola pubblicità utilizzava anche il termine propaganda, nella accezione deteriore, che racchiude in sé la pubblicità ingannevole e gridata.



3. L’evoluzione della normativa italiana

Il percorso legislativo, non privo di logica ma viziato da errori di fondo, può così essere sintetizzato:

Con il “decreto Bersani” (decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in Legge 4 agosto 2006 n. 248) sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio;

con la c.d. ''Manovra bis'' (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), è precisato che la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie;

con il d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, art. 4 comma secondo, si afferma che la pubblicità informativa deve essere funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria.

Infine con la L. 31 dicembre 2012 n. 247, all’art. 10, è consentita all'avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sulla organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti. La pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive.

Attenzione: l’ultima normativa in ordine di tempo, cioè la riforma dell’ordinamento professionale forense, include le specializzazioni (nel senso precisato e disciplinato dalla stessa legge) ma esclude i prezzi (compensi) delle prestazioni dal novero delle informazioni che possono essere diffuse, così modificando le leggi precedenti.

Qual è la ragione di questa scelta?



4. I prezzi delle prestazioni

L’art. 17 del codice deontologico previgente proibiva l’invio di brochures informative con la possibilità di risposte prepagate; tra i mezzi di comunicazione vietati indicava l’utilizzazione di internet per l’offerta di servizi e consulenze gratuite.

La previsione dell’invio del modulo con risposta prepagata discendeva probabilmente dal caso deciso dalla Corte di Versailles il 3 febbraio 1993.

In quel caso uno studio legale associato aveva inviato a 5000 imprese della zona di Versailles (soggetti determinati per territorio e attività, secondo l’ipotesi estensiva) un cartoncino contenente informazioni ingannevoli sullo studio e un modulo prepagato con l’invito ai 5000 potenziali clienti a richiedere un bollettino bimestrale di informazione.

L’invio del modulo con risposta prepagata è stato riconosciuto un atto proibito di sollecitazione della clientela.

Quanto all’offerta di consulenza e servizi gratuiti, essa era vietata non soltanto se compiuta tramite internet, ma anche se contenuta in una lettera, in un opuscolo o se svolta di fatto, salvi casi specifici.

All’interno dei contenuti dell’informazione, si precisava che la rete internet e il sito web possono essere utilizzati per l’offerta di consulenza, ma con indicazione della vigente tariffa professionale (oggi abrogata) per la determinazione dei corrispettivi.

Negli anni ‘70 l’avvocato statunitense Bates fece pubblicare su un giornale questo annuncio: Avete bisogno di un avvocato? Servizi legali a prezzi ragionevoli. Divorzio o separazione legale dollari 175,00.

L’avvocato Bates, inizialmente sanzionato dal suo ordine, vinse la causa.

La Corte Suprema Federale USA ha affermato che il divieto di pubblicità è incostituzionale perchè contribuisce a impedire il libero flusso dell’informazione commerciale e a tenere il pubblico nell’ignoranza.

L’avvocato Bates, se riproponesse ai giorni nostri in Italia lo stesso annuncio, sarebbe sanzionato per il mezzo utilizzato (il giornale), per il tenore dell’annuncio (forse ingannevole nella sua semplicità) ma sarebbe ben più dubbia la sanzione per l’indicazione del prezzo, se l’importo corrispondesse a quello ragionevolmente prevedibile per una causa di divorzio; però, a rigore, l’ultima disciplina legislativa esclude i prezzi dal novero delle informazioni che possono lecitamente essere pubblicizzate.

Tuttavia, se la deontologia è in gran parte derivante da quello che alberga nella coscienza degli avvocati in un dato momento storico, non c’è dubbio che l’indicazione dei prezzi, specie se tendenti al ribasso, sia considerato riprovevole dalla maggioranza dei professionisti iscritti.

Mi sembra quindi che la ragione della (re)introduzione del divieto di pubblicizzare il prezzo delle prestazioni risponda a una esigenza diffusa e comunemente sentita; la prova è data da una recente decisione, che qui commentiamo.



5. La sentenza Cass. Civ., SS.UU., 16 dicembre 2013 n. 27996

Con questa pronuncia (nella quale non compare la parola pubblicità) la Suprema Corte conferma la sanzione della censura irrogata dal Consiglio dell’Ordine di Milano a un avvocato che aveva inviato oltre 10.000 mail a colleghi sparsi in tutta Italia, offrendo servizi di domiciliazione e sostituzione dietro compenso e in particolare scrivendo: I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso per Cassazione da loro stessi predisposti.

Si trattava di una buona occasione per prendere posizione sul problema dello spamming inviato a soggetti molto numerosi, ma non indeterminati; infatti la mail era indirizzata soltanto ad avvocati.

Il Consiglio milanese, soffermandosi prevalentemente sulla questione posta dall’art. 21 del codice deontologico (divieto di agevolare l’esercizio della professione a soggetti non abilitati) e trascurando l’aspetto pubblicitario, ha concluso irrogando una sanzione mite rispetto alla gravità dei fatti.

La motivazione del CNF in sede di gravame, contenuta nella sentenza 29 novembre 2012 n. 177, contiene un passaggio chiaro ed esaustivo:  Integra violazione dei doveri di correttezza e probità la condotta di un Avvocato che invii in maniera indiscriminata, con modalità sostanzialmente di "offerta al pubblico" (e che in tal modo raggiunga oltre 10.000 Avvocati), una proposta di sottoscrizione di ricorsi innanzi la Corte di Cassazione predisposti da Colleghi privi dello specifico jus postulandi.

Infine, il ricorso in Cassazione (poi rigettato) si concentrava soltanto sull’aspetto relativo alla sottoscrizione dei ricorsi, senza far più riferimento alla questione pubblicitaria.

Il giudicato sulla pronuncia del CNF, comunque, sembra confermare la tesi già espressa da chi scrive, cioè che la regola deontologica insita nella coscienza degli avvocati vieta l’invio di lettere, e-mail, comunicazioni via internet, al fine di evitare la diffusione di messaggi non richiesti non soltanto alla massa indeterminata, ma anche ad intere categorie, presso indirizzi comunque reperiti; e tale attività (spamming) è vietata anche dalla normativa sulla privacy.

Il punto allora non è quello del soggetto determinato, bensì del soggetto già conosciuto; e quindi, la possibilità di rivolgersi o meno al cliente potenziale, fermi restando i metodi da utilizzare che non devono mai essere contrari al decoro, come sarebbe il deposito di volantini negli ospedali, nelle carceri o sotto i parabrezza delle auto.

Mi sembra che questo nodo essenziale, nel quale possiamo rinvenire l’essenza e lo scopo della pubblicità, non sia mai stato risolto dal codice deontologico, ma possa essere deciso nel senso sopra accennato interpretando le regole deontologiche in relazione a quelle civili e amministrative a tutela della privacy.

In tal modo sarebbe anche possibile fornire una informazione sui costi di massima di un processo, contribuendo a rendere un po’ più trasparente la nostra tariffa, che per i clienti è sempre stata oscura e che tale rimane, malgrado le recenti semplificazioni.



6. Il nuovo codice deontologico

Nella seduta del 31 gennaio 2014, in esecuzione dell’art. 65 della Legge 31 dicembre 2012, n. 247, il Consiglio Nazionale Forense ha approvato il nuovo codice deontologico, così modificando le disposizioni oggetto di questo commento.

Art. 17 – Informazione sull’esercizio della professione

1. è consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.

2. Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative.

3. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.



Art. 35 – Dovere di corretta informazione

1. L’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.

2. L’avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale.

3. L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo professionale, la denominazione dello studio e l’Ordine di appartenenza.

4. L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia stato docente universitario di materie giuridiche;  specificando in ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.

5. L’iscritto nel registro dei praticanti avvocati può usare esclusivamente e per esteso il titolo di “praticante avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato al patrocinio” qualora abbia conseguito tale abilitazione.

6. Non è consentita l’indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente collegati con lo studio dell’avvocato.

7. L’avvocato non può utilizzare nell’informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi.

8. Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano.

9. L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso.

10. L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito.

11. Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi di dignità e decoro della professione.

12. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Le nuove norme replicano quelle precedenti, confermando che non si potrà più far riferimento al costo delle prestazioni utilizzandolo come veicolo per acquisire clientela facendo leva sulla possibilità di risparmiare.

Inoltre, i commi 3 e 9 chiariscono definitivamente il pensiero già da me espresso in precedenti occasioni, nel senso che la pubblicità non deve essere anonima, ma il professionista deve sempre identificarsi con il proprio nome, spendendo la propria fama (se c’è) e i propri titoli.

Quindi è vietato propagandare servizi legali in modo generico e senza nomi (il nostro staff di esperti avvocati; un esercito di avvocati; ecc.); nonchè propagandare, da parte di società, servizi legali a prezzi scontatissimi, non soltanto per la viltà del prezzo (pareri a 20 euro, ma solo per oggi), quanto perchè l’avvocato resta anonimo nella fase dell’offerta e viola anche il codice deontologico sotto altro profilo, utilizzando un agente che ovviamente incasserà una percentuale del compenso.



7. Altra casistica

Il nuovo codice deontologico, come sopra detto, indica i mezzi di informazione (e le informazioni) consentiti e vietati.

Le singole questioni saranno vagliate con riferimento alla concreta ipotesi, analizzandola alla luce dell’intero codice deontologico.

Vediamo, come esempio, questa incolpazione (seguita da sanzione): “per aver violato i doveri di correttezza, probità e verità avendo pubblicato o comunque acconsentito alla pubblicazione, sul sito (omissis).it, della dichiarazione avente il seguente tenore letterale: “...  raccoglie testimonianze di persone che hanno subito condanne o rinvio a giudizio per causa di perizie ... e volessero agire giudizialmente, io sono disponibile anche con il gratuito patrocinio. Avv. F.M. (penalista)”; rappresentando nell’occasione, a tutti i destinatari della dichiarazione stessa, la propria disponibilità al gratuito patrocinio, pur non essendo iscritto nell’elenco degli avvocati disponibili al patrocinio a spese dello Stato, sia per l’anno 2007 che per l’anno 2008, fornendo in tal modo informazioni non veritiere sulla propria attività professionale.”

Cass. Civ., SS.UU., 13 novembre 2012, n. 19705 conferma la necessità di valutare caso per caso:

In tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, poiché l'abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero-professionali, stabilita dall'art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, non preclude all'organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza, in linea con quanto stabilito dagli artt. 17, 17-bis e 19 del codice deontologico forense, e tanto più che l'art. 4 del d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, al comma secondo, statuisce che la pubblicità informativa deve essere "funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria". (La S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva affermato costituire illecito disciplinare l'inserimento nel "box" pubblicitario di un giornale di uno slogan sull'attività svolta, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico dei costi molto bassi, contenente elementi equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere informativo).

CNF, 15 ottobre 2012, n. 152 conferma indirettamente (sempre facendo riferimento alla disciplina previgente) quanto affermato:

L'art. 2 del d.l. n. 223/2006, convertito nella n. 248/2006, abrogando le disposizioni che non consentivano la c.d. pubblicità informativa relativamente alle attività professionali, non ha affatto abrogato l'art. 38, comma 1, del r.d.l. n. 1578/1933, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità ed al decoro professionale. Dovendosi pertanto interpretare alla luce di tale disposizione le norme di cui agli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico forense, la pubblicità informativa deve essere consentita nei limiti fissati dal codice deontologico e comunque deve essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro professionale.

Il codice deontologico forense, infatti, a seguito dell'entrata in vigore della normativa nota come "Bersani", consente non una pubblicità indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa), ma la diffusione di specifiche informazioni sull'attività, anche sui prezzi, i contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria ed alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall'ordinamento affidata al potere-dovere dell'ordine professionale.

La sentenza sopra riportata afferma la legittimità del riferimento ai prezzi, ma si deve tener conto della modifica legislativa che, come sopra illustrato, li esclude dalle informazioni che possono lecitamente divulgarsi.

Cass. Civ., SS.UU., 10 agosto 2012, n. 14368 sembra confermare la tesi in base alla quale la pubblicità mira all’acquisizione di nuova clientela, pur dovendosi mantenere nei limiti sopra ampiamente evidenziati.

In tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa finalizzata all'acquisizione della clientela costituisce illecito, ai sensi dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, e degli artt. 17 e 17-bis del codice deontologico forense, ove venga svolta con modalità lesive del decoro e della dignità della professione. A tal fine, invero, resta irrilevante sia che il d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 abbia disciplinato esaustivamente la materia della pubblicità ingannevole e comparativa, attribuendo i poteri sanzionatori all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in quanto questi non attengono alle violazioni del codice di deontologia forense, sia che l'art. 2, comma primo, lett. b), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, consenta di svolgere pubblicità informativa, siccome la disposizione non incide sul rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa è realizzata, sia, infine, che l'incolpato si sia immediatamente adeguato al modello comportamentale suggerito dall'incolpazione, giacché non esiste alcuna norma nel sistema disciplinare forense che escluda l'illecito in ragione del cd. "ravvedimento operoso". (Nella specie, la C.S. ha confermato la decisione impugnata, che aveva irrogato la sanzione della censura a carico di un avvocato, per avere lo stesso utilizzato presso l'ufficio e nel sito "web" le espressioni "L'angolo dei diritti" e "negozio", ritenendo le stesse di carattere prettamente commerciale ed eccedenti l'ambito informativo razionale).

Infine, la sentenza Cass. CIv. SS.UU., 3 maggio 2013 n. 10304 completa il quadro occupandosi della pubblicità mascherata da articolo giornalistico/intervista (vietata in quanto tendente a ingannare), valutandone anche il contenuto.

Nella fattispecie il titolo dell’intervista sembrava evidenziare una speciale competenza dei professionisti in materia commerciale e societaria internazionale, mentre il contenuto riguardava struttura dello studio, competenze diverse e numerose fotografie.

Malgrado il caso specifico (cioè l’illecito contestato) risalga al 2007, la Suprema Corte analizza anche la normativa in tema di pubblicità informativa introdotta successivamente, fino al d.P.R. 3 agosto 2012 n. 137.

La pubblicità forense è quindi diversa rispetto a quella commerciale, senza alcuna assimilazione della professione all’attività di impresa.

Le norme sopra riportate affermano, in linea con il codice deontologico, che la pubblicità in senso tradizionale (esaltazione di un nome, di un marchio, di un servizio, anche senza evidenziare le sue caratteristiche) è vietata.

Quella consentita è solo l’informazione su attività professionale, specializzazioni e titoli professionali posseduti, struttura dello studio e compensi (ma oggi questi ultimi non più).

La sentenza, per sgombrare il campo da ogni equivoco, analizza anche la normativa europea dalla quale, secondo i ricorrenti, deriverebbe un principio di assoluta libertà pubblicitaria: e smonta la tesi precisando che nulla autorizza una lettura della normativa comunitaria nel senso che essa consenta la realizzazione della pubblicità professionale anche con modalità classificabili come "pubblicità occulta" o che siano lesive della dignità e del decoro della professione: in verità, nel caso di specie, non è in discussione il "diritto" al libero esercizio di una "pubblicità promozionale" dell'attività professionale, bensì esclusivamente la modalità secondo la quale detta pubblicità sia realizzabile nel doveroso rispetto di precisi e specifici limiti deontologici disciplinarmente rilevanti.

Il principio che resta fermo, allora, è quello già ben enucleato da Cass. Civ., SS.UU., 18 novembre 2010, n. 23287:

Il precetto della norma generale è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.

Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure - come ogni precetto - ancora in astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del decoro e della dignità professionale”.

“... diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e il decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare”.



8. La casistica mai sanzionata: Enjoy Avvocato

Fin qui la teoria (anche se confortata da dottrina e giurisprudenza).

La pratica è cosa diversa: basta digitare su un motore di ricerca le parole “avvocato specializzato” per trovare una casistica amplissima e persino divertente in alcune manifestazioni auto elogiative.

Ma la prassi, come si sa, non sempre coincide con la Legge: vedremo se i nuovi Consigli distrettuali di disciplina, istituiti proprio dalla Legge 31 dicembre 2012 n. 247, riusciranno ad arginare il fenomeno.

La mia preoccupazione discende dalla sanzione edittale prevista dal nuovo codice deontologico nella (sola) censura: non mi sembra idonea a scoraggiare comportamenti come quello del testo sotto riportato, ricevuto via mail da numerosi colleghi e sinistramente simile al caso deciso dalla Cassazione nella sentenza sopra commentata:

Egregio collega, il nostro studio legale da tempo esercita la propria attività su Roma presso tutte le Magistrature Superiori del settore civile, penale ed amministrativo, nonché presso i Giudici di Merito ricompresi nei distretti delle Corti d’appello di Roma e di Salerno.

La nostra struttura è attrezzata per offrire servizi legali ai colleghi fuorisede. In particolare i nostri servizi ineriscono:

1. le domiciliazioni per tutti i procedimenti già incardinati o da incardinare presso le Magistrature superiori e/o i Giudici di Merito sopra indicati;

2. sostituzioni in udienza presso tutte le magistrature;

3. redazione e sottoscrizione atti (anche mandato congiunto) presso Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale;

4. procedure davanti alle magistrature militari.

Qualora interessato vorrà prendere contatti con codesto studio legale, via mail preferibilmente o, comunque, chiamando ai recapiti telefonici in epigrafe, per specificare la natura dei servizi richiesti e ricevere entro 48 ore un preventivo circa i costi afferenti.

Che ne pensate del punto 3 sulla redazione e sottoscrizione di atti anche con mandato congiunto presso la Corte di Cassazione?

Ancora qualche esempio per spiegare il titolo di questo paragrafo.

La bevanda più nota al mondo pubblicizza il proprio marchio accompagnato dalla parola “enjoy”. Non è necessario conoscerne la traduzione (godere, gustare, assaporare) per ricevere il messaggio pubblicitario, che risiede nel nome indicato a caratteri cubitali.

Oggi come un tempo, la pubblicità consiste nella diffusione del marchio, coincide cioè con l’antica indicazione in grassetto nell’elenco telefonico, con la maggiore visibilità rispetto agli altri: non è necessaria, per la sua efficacia, alcuna informazione supplementare, della quale l’utente non è in grado di verificare l’attendibilità.

Se digitiamo su un motore di ricerca le parole “avvocato specializzato” troviamo ai primi risultati alcuni professionisti della nostra città.

Non è un caso: la rete sa dove ci troviamo (l’abbiamo scritto su facebook) e il sistema mette al primo posto chi, pagando di più, ottiene questa visibilità senza bisogno di indicare alcuna informazione.

Se poi ci addentriamo nei singoli siti, osserviamo violazioni costanti e ripetute del codice deontologico (sia vecchio che nuovo).

L’avvocato H. di Dresda pubblicizza il proprio studio con una clip horror (la moglie ha ucciso il marito con una sega elettrica). La scritta finale è “con un avvocato matrimonialista non sarebbe mai successo”.

Struttura dello studio? Titoli posseduti? No. Solo pubblicità.

Il sito Buon avvocato ha creato un network nazionale di avvocati, rigorosamente anonimi, con prima assistenza gratuita e costi estremamente contenuti; ha anche costituito un albo professionale (ovviamente non legittimo) nel quale ogni interessato può iscriversi.

L’avvocato E.S. si dichiara specialista in materia di famiglia e delle successioni senza indicare il conseguimento del titolo di specialista; questa violazione è diffusissima malgrado il chiaro dettato del codice deontologico.

Sono presenti informazioni generiche e auto elogiative, come ad esempio “il cliente è costantemente informato sullo stato della sua pratica”.

Il sito Pronto Legale offre consulenza legale da parte di avvocati, anche qui rigorosamente anonimi, al prezzo di € 39,90.

L’avvocato M. A. si dichiara specializzato in materia di trasporto passeggeri e merci e nel patrocinio innanzi alle commissioni tributarie, senza indicare l’attribuzione di tale specializzazione.

Offre altresì assistenza fiscale ai privati mediante uno sportello CAF con sede presso i locali dello studio (quest’ultimo aspetto meriterebbe una verifica).

Molti dei siti esaminati sono costruiti dallo stesso gruppo imprenditoriale e sono corredati da fotografie non riferibili allo studio ma che ritraggono modelle o attori.

Infine, da premiare per l’originalità l’avvocato A.C. (non sono io!) che indica tra i settori di attività quello degli incidenti mortali e assiste i propri clienti anticipando o rimborsando tutte le spese funerarie.

Del resto, come sappiamo, il buon avvocato deve offrire assistenza globale.


(Da Altalex del 20.2.2014)