martedì 29 aprile 2014

GIUDICE DI PACE, SI DISCUTE DI COSTI E PERSONALE

Mantenimento del Giudice di Pace: la riunione operativa riguardante il funzionamento e la ripartizione degli oneri tra gli enti interessati si è conclusa da poco nella sala degli specchi del palazzo municipale di Giarre. A fare gli onori di casa il sindaco dott. Roberto Bonaccorsi, che ha accolto i colleghi di Riposto dott. Enzo Caragliano, di Fiumefreddo dott. Marco Alosi, di Piedimonte Etneo Avv. Ignazio Puglisi; presenti pure l’assessore ripostese prof. Salvo Russo, la vicepresidente del consiglio di Linguaglossa dott.ssa Patrizia Ferraro, il presidente della commissione comunale al Bilancio dott. Francesco Cardillo, la dott.ssa Lina Mirabella dell’ufficio contenzioso, il cancelliere dott. Giovanni Zagaglia anche in rappresentanza dell’Ufficio del Giudice di Pace, i dirigenti dell’Associazione giarrese avvocati (AGA) Giuseppe Fiumanò (presidente), Massimo Nicotra (vicepresidente), Mario Vitale (segretario) e Giuseppe Musumeci (consigliere).
Oggetto della riunione sono state le problematiche legate al personale ed ai costi.

Infatti, entro il termine perentorio di 60 giorni delta data di perfezionamento del D.M. 7 marzo, avvenuto nei giorni scorsi, gli enti locali devono assicurare materialmente gli impegni dichiarati in sede di istanza di mantenimento ed in particolare, a pena di decadenza, devono comunicare al ministero i nominativi e i requisiti del personale dei propri ruoli destinato a svolgere mansioni di supporto all’attività giurisdizionale da avviare a formazione, l’esatta ubicazione della sede comunale prescelta, specificando se sia diversa o meno dalla precedente (nel caso di Giarre sarebbe l’ex palazzo di Giustizia di corso Europa), il nominativo di un referente che dovrà essere designato da ciascun ente locale interessato, al quale il ministero possa rivolgersi per le opportune ínterlotuzioni, anche con riferimento atte attività di supporto informatico. Quindi, nel predetto termine di sessanta giorni i Comuni, i cui territori rientrano netta competenza degli uffici del Giudice di Pace mantenuto, devono trovare tra loro gli accordi sulla ripartizione degli oneri economici ed organizzativi, nonché di individuare le risorse.

Il personale comunale individuato dall’ente deve appartenere a profili professionali equipollenti a quelli previsti per l’amministrazione giudiziaria e, in ogni caso, deve risultare idoneo a consentire l’erogazione del servizio giustizia, essendo abilitato allo svolgimento di mansioni corrispondenti a quelle rimesse alla competenza del funzionario giudiziario, del cancelliere, dell’assistente giudiziario e dell’operatore giudiziario, oltre che dell’ausiliario.

La strada da percorrere non appare semplice, anzitutto per la spiacevole assenza dei rappresentanti di Comuni come Milo, Mascali, Calatabiano e Sant’Alfio (che comunque a suo tempo ha aderito all’iniziativa).

La ripartizione delle spese riguarda in massima parte il personale: su circa 220 mila euro, infatti, oltre 160 mila riguardano tale voce d’uscita.

I Comuni di Riposto e Fiumefreddo, oltre Giarre, hanno comunque garantito l’assegnazione di una unità lavorativa.

Con dispiacere si è discusso del problema relativo a Piedimonte Etneo in quanto il ministero non ha accolto l’istanza di partecipare all’Ufficio di Giarre (deliberata dal consiglio comunale!) in quanto già appartenente a quello di Linguaglossa, già soppresso. I presenti interessati si sono impegnati a cercare una strada che consenta ai comuni di Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, assieme a quello di Piedimonte, di rientrare nell’ufficio giarrese.

(Da Libera Jonia News del 28.4.2014)

lunedì 28 aprile 2014

Cade divieto di prevalenza attenuante speciale su recidiva reiterata

Con la sentenza n. 106 del 22 aprile 2014 i giudici costituzionali hanno dichiarato illegittimo l’articolo 69, comma 4, del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della legge 251/2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’articolo 609 bis, comma 3, del codice penale (violenza sessuale di minore gravità) sulla recidiva reiterata.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte l’imputato, reo di aver cercato ripetutamente contatti con l’ex moglie in un momento in cui la donna non era predisposta, non aveva precedenti per reati di natura sessuale, in assenza di recidiva specifica. Aveva precedenti, si, ma per illeciti di altro tipo.

Nella specie quindi il divieto di prevalenza era risultato incongruo, configurando addirittura una violazione del principio di proporzionalità della pena.

Precisano, infatti, i giudici della Consulta, che in conseguenza della modifica introdotta dalla legge 251/2005 anche fatti di minima entità verrebbero ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena di cui al primo comma dell’articolo 609 bis del codice penale, prevista per la violenza sessuale più grave: pertanto, è necessario distinguere le condotte che aggrediscono lo stesso bene giuridico sì, ma con modalità estremamente diverse e arrecando un differente danno alla vittima. E ciò si può farlo abolendo il divieto di prevalenza.


Lucia Nacciarone (da diritto.it del 28.4.2014)

venerdì 25 aprile 2014

giovedì 24 aprile 2014

Orlando: “Con il P.C.T. ridurremo il contenzioso”

CNF: adesso occorre valutare l'impatto reale
in termini di efficacia delle riforme in atto,
per poter valutare come favorire
l'accesso alla giustizia da parte dei cittadini

Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso dell’illustrazione delle linee programmatiche del suo ministero, ha sottolineato l'importanza dell'imminente entrata in vigore della nuova disciplina del processo telematico pur nella consapevolezza che le prospettive di implementazione sono ancora disomogenee a seconda dei distretti di Corte d'appello. Sempre sul piano degli indirizzi volti a ridurre il contenzioso civile annuncia l'intenzione di studiare apposite discipline volte ad ampliare il novero degli strumenti di definizione stragiudiziale delle controversie. Nella stessa direzione annuncia misure volte al coinvolgimento anche degli appartenenti al notariato per il compimento di taluni atti riconducibili ai procedimenti di volontaria giurisdizione. Passa, quindi, ad affrontare le tematiche concernenti il personale che presta servizio presso gli uffici giudiziari senza trascurare gli istituti di pena. Sul punto, si sofferma sull'esigenza di rinforzare gli organici della polizia penitenziaria e del personale di cancelleria. Più in generale, rileva che i dati allarmanti sulla scopertura media degli organici per ciascun ufficio destano particolare preoccupazione; quella del personale, dunque, appare come la più importante delle emergenze da fronteggiare per rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini. In proposito, preannuncia l'intenzione di predisporre un sistema di mobilità, l'apertura delle assunzioni di personale proveniente da altri comparti ministeriali e l'ipotesi di attingere ad altri ruoli di idonei in attesa di prendere servizio. Riguardo all'apporto che potrà offrire la magistratura onoraria e i giudici di pace, la tendenza dovrebbe condurre ad un ampliamento delle materie di competenza e, al contempo, a porre fine al sistema di pagamento cosiddetto a cottimo. Delinea, quindi, l'ipotesi di istituire un ufficio del processo che potrà garantire funzionalità ed aiuto agli appartenenti all'ordine giudiziario, garantendo l'ausilio di personale con particolare riguardo alla informatizzazione degli atti e proprio alla diffusione del processo telematico che, come detto, prenderà il via il 30 giugno. Il Consiglio Nazionale Forense, da parte sua, ha espresso la condivisione riguardo al percorso di riforma della giustizia tratteggiato dal Ministro. Il percorso riguarderebbe tutti gli ambiti-organizzativi, ordinamentali, processuali- del sistema civile e penale, in un disegno che pare assumere i contorni di un progetto integrato che non trascura gli aspetti delle risorse umane e finanziarie. E coinvolge, correttamente con uguale dignità, gli attori della giurisdizione: Avvocatura e Magistratura. Le misure annunciate sono numerose, e alcune sono quelle sulle quali si è già svolto una dialogo proficuo tra il Cnf e il Ministro. Ora si tratta di verificare in concreto come questi interventi annunciati si articoleranno in norme specifiche e si combineranno in quel progetto integrato tratteggiato al Senato, per valutare l’effettiva efficacia delle misure. Occorre anche valutare l’impatto reale in termini di efficacia delle riforme in atto, per poter valutare come favorire l’accesso alla giustizia da parte dei cittadini. Soddisfatto anche il presidente dell’Anai, Maurizio de Tilla: "Quanto dichiarato dal Guardasigilli Orlando – ha detto - è un primo passo importante ma, oltre alle iniziative preannunciate, bisognerà rimettere mano alla geografia giudiziaria e alla mediaconciliazione obbligatoria di cui il ministro non parla. Stiamo chiedendo da anni il potenziamento del Processo Civile Telematico, il ricorso alle dispute alternative e la riforma della magistratura onoraria, quindi siamo sicuramente favorevoli a quanto promesso ieri, ci auguriamo però che il ministro ascolti anche le tante proteste che ancora sono in atto in tutto il Paese contro la chiusura delle sedi giudiziarie.  Infine – conclude de Tilla - auspichiamo due cose: che alle dichiarazioni facciano seguito iniziative legislative ma soprattutto che il passaggio legislativo sia sulle linee indicate da Orlando".


Luigi Berliri (da Mondoprofessionisti del 24.4.2014)

GDP, APPELLO AI 7 COMUNI: “COSTITUIRE IL CONSORZIO”

L'A.G.A.: «Non si può perdere questa occasione»

Dagli avvocati arriva un appello ai sindaci perché facciano ciascuno la propria parte per il mantenimento dell'Ufficio del Giudice di pace di Giarre. L'attesa è per la riunione dei sindaci che è prevista per lunedì prossimo, convocata dal sindaco Roberto Bonaccorsi a Giarre. Il nodo da sciogliere è l'adesione alla distribuzione dei costi dell'Ufficio e come questi stessi costi devono essere distribuiti tra i Comuni della circoscrizione.

Alla riunione parteciperà anche una delegazione dell'Associazione giarrese avvocati, presieduta dall'avv. Giuseppe Fiumanò, il quale dichiara: «Dovrebbero ora costituire un apposito consorzio i sette Comuni che appartenevano al precedente mandamento: Giarre, Riposto, Mascali, Fiumefreddo, Calatabiano, S. Alfio e Milo. Sino ad ora solo Giarre, Riposto e Sant'Alfio hanno dato un'adesione di massima. Solleciteremo un fattivo apporto economico: conosciamo le condizioni dei Comuni, bisognerà trovare un punto di incontro tra le esigenze di tutti. Il costo maggiore da sostenere è rappresentato dal personale: bisogna vedere quali Comuni distaccheranno del personale nell'Ufficio (Giarre distacca già due unità) e bisognerà valutare chi non mette a disposizione dipendenti come deve contribuire. L'auspicio è che l'incontro porti delle novità positive in relazione alla partecipazione di tutti».

Il presidente Fiumanò sottolinea un vantaggio dell'Ufficio del Giudice di Pace di Giarre rispetto ad altri uffici con lo stesso compito: «Abbiamo dipendenti che già hanno maturato una certa esperienza nell'ufficio, mentre altrove, una volta andato via il personale del Ministero di Giustizia, devono formare il personale comunale che dovrà subentrarvi».

Tra gli avvocati giarresi anche l'avv. Francesco Vasta si unisce all'appello sottolineando altri aspetti: «La riforma voluta dalla ministro Cancellieri è stata un bluff perché mancavano le strutture e ogni giorno noi avvocati sappiamo cosa significano aule di tribunale stracolme e udienze rinviate. Adesso i sindaci devono dimostrare di avere spirito consortile: non si può perdere un'occasione di queste. In questo periodo in cui si parla di consorzi dei comuni se ci sarà l'accordo sull'Ufficio del Giudice di Pace di Giarre si potrà lavorare su altre cose altrimenti si parte male. L'ufficio del Giudice di Pace deve essere un esempio di gestione consortile».

L'avv. Andrea Patanè aggiunge: «I costi non paiono essere proibitivi, visto che i giudici resterebbero a carico del Ministero mentre, per quanto riguarda la sede, non servirebbe reperire nuovi locali visto che il Comune pensa di trasferire anche l'Ufficio del Giudice di Pace nei locali dell'ex del tribunale in corso Europa. A carico dei Comuni resterebbero le utenze, le spese di cancelleria e il reperimento, presso il proprio organico, dei dipendenti da destinare all'ufficio».

Patanè porta l'esempio di Taormina, che ha perso il proprio Ufficio del Giudice di Pace e che si sta attivando per ottenerne la riapertura. Insomma, i sindaci non sprechino questa opportunità che hanno già tra le mani.


Maria Gabriella Leonardi (da La Sicilia del 23.4.2014)

mercoledì 23 aprile 2014

Nessuna efficacia alla PEC nel processo penale

Cass. Sez. III Pen., Sent. 13.2.2014, n.7058

La Corte di Cassazione ha stabilito che, allo stato attuale e in assenza di una regolamentazione normativa, il sistema di trasmissione degli atti attraverso posta elettronica certificata (PEC) non può essere utilizzato nel processo penale. Unico sistema rimane il deposito degli atti nella cancelleria del Tribunale.

Diversamente da quanto avviene nel processo civile, in quello penale la comunicazione e la notificazione degli atti dagli uffici giudiziari agli avvocati e agli ausiliari del giudice non può avvenire con l’utilizzo di strumenti telematici o mediante indirizzo di posta elettronica, seppur certificata.

Nel caso di specie, il difensore della parte imputata in un processo penale aveva rivolto istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire all’udienza fissata per la trattazione del processo d’appello, inviando una e-mail con indirizzo di posta privato alla cancelleria della Corte d’appello. Aveva, inoltre, depositato l’atto presso la cancelleria del tribunale il giorno prima della data di tale udienza.

I giudici della Corte territoriale non avevano valutato l’istanza di rinvio del difensore, pronunciando, secondo il ricorrente, una sentenza viziata da nullità assoluta. Avverso tale decisione, la parte ha proposto ricorso in Cassazione.

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso, affermando un importante principio di diritto processuale. Innanzitutto, i giudici hanno ritenuto inammissibile l’istanza di rinvio dell’udienza trasmessa a mezzo di posta elettronica, a fortiori se si considera che il difensore della parte aveva utilizzato un indirizzo di posta elettronica privato, dunque non certificato e, di conseguenza, non riconosciuto dalla legge.

Ciò nonostante il legale aveva comunque depositato l’atto presso la cancelleria del tribunale, rendendo conoscibile lo stesso attraverso le modalità previste dalla legge. Il comportamento dei giudici di merito, che non avevano considerato tale istanza di rinvio dell’udienza, era da censurare per il fatto di non aver preso in considerazione non la comunicazione a mezzo di posta elettronica, ma quella effettuata tramite il deposito.

Ciò vizia la sentenza di nullità, ragione per cui la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando gli atti alla Corte territoriale, in diversa composizione, per un riesame nel merito.

Secondo quanto osservato dai giudici della Cassazione, il legislatore ha espressamente previsto forme alternative di comunicazione solo nel processo civile: l’articolo 366, comma 2, del codice di procedura civile (modificato dalla legge 12 novembre 2011, n. 183) ha introdotto espressamente la PEC quale strumento utile per le notifiche degli avvocati autorizzati. Inoltre, la legge 17 dicembre 2012, n. 221 (c.d. Decreto crescitalia 2.0) prevede all’articolo 16, comma 4, che:

“Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis, artt. 149 e 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria”.

Ne consegue, pertanto, che per la parte privata, nel processo penale, l’uso di tale mezzo informatico di trasmissione non è – allo stato – consentito quale forma di comunicazione e/o notificazione.


(Da filodiritto.com del 22.4.2014)

Anai e Cse firmano contratto nazionale addetti agli studi legali

Anai (Associazione Nazionale Avvocati Italiani) e la Cse (Confederazione Indipendente Sindacato Europeo) hanno sottoscritto il contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti e i collaboratori degli studi legali. Con la stipula del contratto collettivo ANAI e CSE hanno inteso rispondere alle esigenze di produrre un riferimento contrattuale per tutto il settore legale e quindi da valere per tutti i dipendenti e per tutti gli addetti occupati negli studi legali e nelle relative attività professionali e intellettuali. Il contratto disciplina, in maniera unitaria e per tutto il territorio nazionale, i rapporti di lavoro dipendente nell’ambito delle attività professionali forensi, anche in forma di studio associato e/o nelle forme societarie consentite dalla legge. Le parti contrattuali (Anai e Cse) si sono impegnate ad istituire un gruppo di lavoro composto da esperti, sia di parte datoriale che di parte sindacale, con il compito di studiare e verificare, per il settore degli studi professionali legali, il fenomeno delle collaborazioni coordinate e continuative, dei rapporti di apprendistato di alta formazione e di ricerca con riferimento alle figure riferibili al praticantato e in generale dei rapporti di lavoro atipici. I risultati della ricerca costituiranno la base per definire le linee guida per il riconoscimento di un equo compenso e per la tutela di un “welfare” contrattuale. Le linee guida potranno essere sviluppate anche in collaborazione con il Ministero del lavoro. Il gruppo di lavoro verificherà inoltre il fenomeno dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile in alcune aree geografiche del Paese. I risultati della ricerca costituiranno la base per definire accordi con modalità di emersione e di ingresso nel mercato del lavoro. Questi accordi potranno essere, temporaneamente, anche in deroga alle tutele previste dal C.C.N.L. L’attività del gruppo di lavoro sarà supportata dal sistema di bilateralità del settore e potrà svolgersi in collaborazione con Università, Istituzioni ed Enti di ricerca in possesso di specifica esperienza. Anai e Cse costituiranno, inoltre, un Ente bilaterale con una molteplicità di funzioni quali:
1. studi per l’ottimizzazione dell’organizzazione degli studi professionali di avvocato e consulenza per le certificazioni di qualità e studi di formazione sulla sicurezza;

2. studi per l’istituzione di un’assistenza sanitaria complementare al fine di fornire trattamenti assistenziali sanitari, integrativi delle prestazioni sanitarie obbligatorie, specificamente per i dipendenti e i collaboratori degli studi legali;

3. studi per l’istituzione di un fondo di previdenza complementare per i dipendenti.

Particolari disposizioni ad hoc per gli studi legali sono previste in tema di orario di lavoro, lavoro part-time, forme di job sharing. Con il contratto di lavoro dei dipendenti e collaboratori degli studi professionali stipulato da Anai e Cse, l’avvocatura si dota di uno strumento innovativo e specifico alle professioni legali, nel solco della impostazione data con la recente riforma dell’ordinamento forense.


(Da Mondoprofessionisti del 22.4.2014)

Mobbing, senza nesso causale no risarcimento danni a salute

Cass. Civ., sez. lavoro, sent. n. 8804 del 16.4.2014

Per ottenere il risarcimento del danno alla persona causato da mobbing aziendale (dunque, per provare la sussistenza stessa della fattispecie) il lavoratore deve provare che esiste un nesso causale tra le vessazioni subite durante l'attività lavorativa e la patologia insorta (in questo caso, infarto cardiaco).

La fattispecie del mobbing trova il suo fondamento giuridico nell'art. 2087 codice civile (tutela delle condizioni di lavoro), secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Nel caso di specie, secondo il ricorrente, l'infarto cardiaco sarebbe insorto a causa dell'azione combinata del sovraccarico di lavoro, delle vessazioni subite dal datore sul luogo di lavoro e della sottoposizione ad alcuni procedimenti penali (successivamente archiviati) legati all'attività lavorativa.

Proponeva dunque domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, ma questa veniva respinta sia in primo che in secondo grado di giudizio. Ricorreva dunque in Cassazione.

La Suprema Corte tuttavia sottolinea come "il ricorrente non aveva assolto al proprio preliminare onere di dimostrare l'esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall'osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro". Nel merito, il lavoratore non ha dimostrato l'esistenza del danno alla salute connesso con la nocività dell'ambiente di lavoro; solo a fronte della prova del nesso causale spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le misure in grado di scongiurare il verificarsi del danno. Il ricorso è rigettato.


Licia Albertazzi (da studiocataldi.it del 21.4.2014)

Va sanzionato magistrato che tratta male le parti in udienza

Cass. Sez. Unite Civili, sent. n. 7309/2014

Con la sentenza n. 7309 del 28 Marzo 2014, la Corte di Cassazione SS.UU ha stabilito che il giudice, che nell'esercizio delle proprie funzioni utilizzi in udienza espressioni irriguardose o di disprezzo nei confronti delle parti in causa, è passibile di sanzione disciplinare per violazione del dovere di correttezza.

Nel caso di specie il procedimento disciplinare era stato aperto nei confronti di un magistrato del Tribunale dei Minorenni di Roma, accusato di essersi rivolto con termini inadeguati ad una psicologa durante un'udienza svoltasi nel 2011.

Le espressioni "Lei non sa fare il suo lavoro" e l'esplicita accusa di essere connivente con gli enti territoriali, sono state giudicate del tutto inammissibili e al di fuori di un corretto esercizio dell'attività giurisdizionale.

E il fatto che la condotta fosse stata originata da una discussione vivace e appassionata non ha agito da elemento "scriminante".

(Da studiocataldi.it del 17.4.2014)

martedì 22 aprile 2014

Assiste entrambi i coniugi? Dopo no uno contro l'altro

Cass. Civ., SS.UU., sent. 7.4.2014 n° 8057

Il difensore che abbia svolto attività di assistenza, anche soltanto formale, a favore di entrambi i coniugi nel procedimento di separazione è considerato difensore di entrambi i coniugi anche in assenza di una prova del conferimento formale dell'incarico. L'assistenza, anche solo formale, a favore di entrambi i coniugi nel corso del giudizio di separazione è sufficiente per far scattare il divieto sancito dall'art. 51, primo canone, del codice deontologico forense del 17 aprile 1997, divieto ora ripresto dall'art. 68, quarto comma, del codice deontologico forense attualmente vigente.

In questa sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono ritornate su un tema di particolare rilievo in ambito deontologico, ossia il divieto per il difensore dei coniugi nel procedimento di separazione consensuale di assistere uno dei coniugi in successivi procedimenti relativi ai medesimi rapporti familiari; divieto espressamente stabilito dall’art. 51, primo canone, del codice deontologico forense del 1997 (ora testualmente ripresto dall'art. 68, quarto comma, del nuovo codice deontologico forense). Nello specifico, le Sezioni Unite hanno affermato che tale divieto opera anche nel caso in cui l'avvocato abbia svolto attività di assistenza solo formale nei confronti di entrambi i coniugi (ad esempio, ricevendoli entrambi in studio e assistendoli in udienza); e ciò pure in mancanza di una prova effettiva del conferimento materiale dell’incarico da parte di uno dei due coniugi.



Sommario

    Il fatto

    La domanda

    La decisione delle Sezioni Unite

    La decisione in sintesi



Il fatto

La vicenda presa in esame dalle Sezioni Unite è piuttosto ricorrente nella pratica forense. Si tratta del caso assai diffuso in cui due coniugi, separatisi consensualmente con l’assistenza di un solo difensore (spesso avvocato di fiducia di uno dei coniugi), entrano in disaccordo successivamente alla separazione e uno dei due si rivolge all’avvocato che li aveva assistiti in fase di separazione per farsi tutelare.



La domanda

Il quesito esaminato prima dal Consiglio Nazionale Forense e poi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha ad oggetto essenzialmente la definizione della nozione di “assistenza congiunta” rilevante ai fini del divieto di cui all’art. 51 c.d.f. del 1997 (ora art. 68 nuovo c.d.f.). In particolare, il problema riguarda la configurabilità di tale attività di assistenza anche ove, pur mancando la prova del conferimento formale dell’incarico da parte di uno dei coniugi, il difensore abbia comunque svolto attività nell’interesse di entrambi i coniugi.



La decisione delle Sezioni Unite

In primo luogo, è doveroso precisare come la Corte di cassazione non abbia preso espressamente posizione sul punto. Il ricorso proposto dall’avvocato incolpato nei confronti della decisione emessa dal Consiglio Nazionale Forense a suo carico, infatti, è stato dichiarato inammissibile; in particolare, l’unico motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nella versione risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) è stato ritenuto inammissibile in quanto tendente al riesame del merito della decisione. All'inammissibilità del ricorso è anche conseguita la condanna del ricorrente al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/2002, come inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228/2012.

Tuttavia, le Sezioni Unite, in via meramente incidentale, hanno comunque svolto alcune interessanti considerazioni in merito al divieto sancito dall’art. 51 c.d.f. Del 1997, nella sostanza aderendo all’interpretazione fornita dal Consiglio Nazionale Forense.

Già nel 2006 le Sezioni Unite erano intervenute in materia affermando espressamente che tale divieto prevede un obbligo assoluto di astensione, fondato sull'esigenza di garantire la massima tutela possibile agli alti interessi in gioco nella materia del diritto di famiglia, e che la disposizione contenuta nella predetta norma ha carattere speciale rispetto alla disciplina generale in tema di conflitto di interessi (contenuta nel comma primo dell'art. 37 del vecchio codice deontologico forense).

In particolare, le Sezioni Unite, avallando l'orientamento già emerso nella giurisprudenza disciplinare, avevano rilevato come, nel caso di controversie in materia di diritto di famiglia, la valutazione della sussistenza della situazione di conflitto sia operata direttamente dalla stessa norma; da ciò ovviamente consegue la limitazione del giudizio dell'interprete al mero accertamento del fatto costitutivo di quell'effetto, senza alcuna possibilità di indagine in ordine alla natura reale o meramente potenziale della situazione di conflitto di interessi.

In effetti, nel caso qui esaminato si discuteva proprio dell'esatta individuazione del fatto costitutivo del presupposto di applicazione della norma ossia della definizione della nozione di “assistenza congiunta”. Stando a quanto risulta dalla sentenza, nel caso di specie risultava che il difensore accusato della violazione dell'art. 51 del vecchio c.d.f. avesse sentito entrambi i coniugi nel proprio studio e avesse partecipato all'udienza presidenziale del procedimento di separazione consensuale; non risultava, invece, il conferimento formale dell'incarico professionale, quantomeno da parte del coniuge nei confronti del quale il medesimo avvocato aveva poi promosso un nuovo giudizio nell'interesse dell'altro coniuge.

Le Sezioni Unite hanno incidentalmente avallato la tesi espressa dal Consiglio Nazionale Forense, secondo cui il presupposto dell'assistenza congiunta risulta essere integrato dal semplice svolgimento di attività nell'interesse di entrambi i coniugi, quand'anche avvenuta a livello solamente formale (come appunto nel caso di audizione in studio di entrambi i coniugi e di partecipazione all'udienza presidenziale). La Suprema Corte, al pari del Consiglio Nazionale Forense, ha quindi ritenuto del tutto irrilevante la mancanza di un espresso conferimento di incarico professionale da parte di uno dei coniugi, così di fatto respingendo la tesi difensiva; nel corso del giudizio disciplinare l'avvocato incolpato pare aver sostenuto di aver assistito soltano un coniuge e che l'altro, pur avendo deciso di separarsi consensualmente, aveva scelto di non farsi seguire da alcun difensore.

La posizione assunta dal Consiglio Nazionale Forense e dalle Sezioni Unite è in linea di massima condivisibile, anche se con qualche riserva. Da un lato, la rigidità dell'orientamento espresso sembra motivata dal condivisibile intento di evitare facili “aggiramenti” del divieto previsto dal codice deontologico (e questo, leggendo tra le righe, sembra essere avvenuto nel caso esaminato nella sentenza annotata, in cui i giudici non paiono essere realmente convinti dell'assenza del conferimento dell'incarico). Dall'altro, la soluzione accolta risulta eccessivamente rigida; fino a quando il legislatore non chiarirà il problema, da sempre incerto, dell'assistenza tecnica nei procedimenti camerali in materia di separazione e divorzio, non pare potersi escludere in assoluto che un coniuge voglia difendersi da solo e che in tale veste tratti con il difensore dell'altro coniuge così da addivenire a una separazione consensuale.



La decisione in sintesi

Esito della domanda

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, come inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228/2012.



Precedenti giurisprudenziali:

Cass. civ., sez. un., sentenza 10 gennaio 2006, n. 134;

Consiglio Nazionale Forense, sentenza 15 ottobre 2012, n. 149;

Consiglio Nazionale Forense, sentenza 21 ottobre 2010, n. 90;

Consiglio Nazionale Forense, sentenza 13 settembre 2005, n. 105;

Consiglio Nazionale Forense, parere 22 maggio 2013, n. 56.



Riferimenti normativi:

art. 51, primo canone, del codice deontologico forense del 1997 (ora testualmente ripresto dall'art. 68, quarto comma, del nuovo codice deontologico forense).


(Da Altalex del 18.4.2014. Nota di Paolo Comoglio tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)

Soldi ai professionisti nella Finanziaria 2014-20

Tajani scrive a Delrio, fondi Ue anche loro

L'Italia deve garantire l'accesso ai fondi Ue anche ai liberi professionisti, ormai equiparati alle pmi, e tenerne quindi conto nella programmazione finanziaria 2014-2020. E' il monito del vicepresidente della Commissione Ue Antonio Tajani, che ha inviato una lettera sulla questione al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio. "I liberi professionisti possono essere beneficiari anche di fondi strutturali e spero quindi che l'Italia - scrive Tajani a Delrio - sappia riconoscere il loro ruolo nell'ambito della conclusione degli accordi di partenariato per il periodo finanziario 2014-2020". Bruxelles ha infatti presentato la scorsa settimana un Piano d'azione per le professioni liberali, considerate ormai alla stregua di imprese, che prevede azioni sui fronti dell'accesso al credito e ai mercati, semplificazione e educazione all'imprenditorialità. In particolare, per quanto riguarda i fondi Ue, "ho già chiesto alla mia Direzione generale - ricorda Tajani nella missiva a Delrio - di fare in modo che i liberi professionisti siano a tutti gli effetti soggetti che possono beneficiare delle risorse previste in programmi quali ad esempio Orizzonte 2020 e Cosme".

(Da Mondoprofessionisti del 17.4.2014)

giovedì 17 aprile 2014

AUGURI PER LE FESTIVITA' PASQUALI


AUGURI DI SALUTE E PACE 
A TUTTI I COLLEGHI.
AGA NEWS SI CONCEDE UN RIPOSO 
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martedì 15 aprile 2014

Nozze gay all’estero trascrivibili in Italia, non contrarie all’ordine pubblico

Dopo le aperture di Cedu e Cassazione, si può consentire la registrazione all’anagrafe che ha valore soltanto «certificativo e di pubblicità» di un atto valido di per sé. Ma la Procura annuncia l’appello
Il matrimonio civile contratto all’estero ben può essere trascritto in Italia perché «non contrario all’ordine pubblico» dopo le ultime aperture di Strasburgo: in ogni caso la registrazione all’anagrafe che ha valore soltanto «certificativo e di pubblicità» di un atto valido di per sé. Lo sostiene l’ordinanza del tribunale di Grosseto (giudice Paolo Cesare Ottati), che ordina all’ufficiale dello stato civile del Comune di trascrivere le nozze gay di una coppia di uomini celebrate a New York il 6 dicembre 2012. La Procura ha annunciato l’appello.

Tempus regit actum

Accolta la domanda delle coppia toscana difesa dall’avvocato Claudio Boccini. La Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 24 giugno 2010 ha affermato che «il diritto al matrimonio riconosciuto dall’articolo 12 della Cedu ha acquisito un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto tra due persone dello stesso sesso» e la stessa Cassazione ha riconosciuto con la sentenza 4184/12 che il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero non è in qualche modo inesistente per lo Stato italiano (cfr. “I matrimoni omosex “esistono” ma non si possono trascrivere: gli effetti Cedu sulla giurisprudenza” e “Coppie gay: sì al diritto alla vita familiare, no alla trascrizione delle nozze celebrate all’estero”, pubblicati il 16 marzo 2012). Secondo il giudice, sia pure implicitamente, la Suprema corte avrebbe anche riconosciuto come il matrimonio gay contratto all’estero non è contrario all’ordine pubblico (e ciò nella seconda parte della motivazione della sentenza 4184/12). E ciò proprio per le aperture della Cedu nei confronti delle nozze fra persone dello stesso sesso. In realtà, osserva il giudice, dagli articoli da 84 a 88 Cc non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio. Mentre l’articolo 27 della legge 218/95 contiene un implicito richiamo alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio di cui alla sezione 1 del capo terzo - del titolo VI dei libro primo Cc. Insomma: il matrimonio celebrato all’estero è considerato valido nel luogo dove risulta contratto e, almeno a quanto risulta dal provvedimento, nel nostro ordinamento, non c’è alcun ulteriore e diverso impedimento derivante da disposizioni di legge alla trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all’estero secondo le forme previste dalla legge straniera. Vale il principio tempus regit actum. Staremo a vedere.


Dario Ferrara (da cassazione.net)

venerdì 11 aprile 2014

Pignorabilità stipendio, dubbi di costituzionalità su Salva Italia

Trib. Lecce, sez. commerciale, ordinanza 12.2.2014

Un ordinamento costituzionalmente orientato, come è (o dovrebbe essere) quello italiano, si caratterizza per la presenza di “presidi” legislativi posti a tutela dei soggetti più deboli, in ossequio al dettato costituzionale, il quale, per citare uno solo dei principi che si muovono in questa direzione (art. 2),  impone alla Repubblica “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
In maniera sempre più frequente, tuttavia, si assiste a soluzioni legislative discutibili, sotto un profilo tecnico-giuridico, inique e palesemente in contrasto con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale.
In sede di opposizione all’esecuzione mobiliare, dinanzi al Tribunale di Lecce, è stata seguita la posizione di un titolare di conto corrente, le cui somme ivi presenti erano state interamente pignorate, pur trattandosi di un c/c le cui uniche operazioni “in entrata” erano analiticamente riportate, e rubricate sotto apposita dicitura: “ pagamento di indennità di disoccupazione ASPI”.
L’indennità di disoccupazione si manifesta, nel caso di specie, come l’unica fonte di reddito del pignorato, attraverso la quale lo stesso doveva fare fronte a tutte le esigenze di vita e di sostentamento personale e familiare.
Ci si trovava, insomma, di fronte ad un conto corrente bancario che non si presentava come un complesso “deposito” di somme di denaro rinvenienti da diverse fonti di ricchezza, quanto piuttosto come un’oggettiva vetrina di una condizione di precarietà economica, affrontata dignitosamente attraverso strumenti di assistenza sociale propri di un moderno Stato di diritto.
Lo stesso c/c, lungi dall’essere un’opzione liberamente individuata dal pignorato, risultava piuttosto essere una necessità, imposta da un rinnovato quadro normativo, sul quale ci si sofferma brevemente.
Le origini della questione in analisi possono farsi risalire al decreto legge n. 201/2011 (cd. Decreto “Salva-Italia”, successivamente convertito in legge n. 214/2011).
Tra le tante, questa legge contiene disposizioni finalizzate alla lotta all’evasione, introducendo criteri più stringenti nella tracciabilità dei pagamenti, anche da parte della pubblica amministrazione ( per l’appunto, pensioni, sussidi et similia).
Nello specifico, l’art. 12 della suddetta norma, al comma 2 lett. c), prevede che “lo stipendio, la pensione, i compensi comunque corrisposti dalla pubblica amministrazione (…) e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a cinquecento euro, debbono essere erogati con strumenti diversi dal denaro contante ovvero mediante l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari o postali, (…) Il limite di importo di cui al periodo precedente può essere modificato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze”.
Limite che, di lì a poco, è stato aumentato a mille euro.
Alcuni mesi dopo, con il DL n. 16/2012, convertito in legge n. 44/2012, sono stati introdotti nuovi limiti in tema di pignoramento presso terzi, in particolare per il pignoramento dello stipendio e pignoramento della pensione.
La disposizione di riferimento nel decreto legge n. 16/2012 (cd. “decreto Semplificazioni”) convertito in legge n. 44/2012 è l’art. 3, comma 5, che ha aggiunto, nel D.p.r. n. 602/1973, in materia di pignoramento presso terzi disposto dall’agente della riscossione, quindi sostanzialmente in tema di pignoramenti Equitalia, l’art. 72-ter, recante il titolo “Limiti di pignorabilità” , secondo il quale:
“Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione:
a) in misura pari ad 1/10 per importi fino a 2.500,00 euro;
b) in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500,00 a 5.000,00 euro”.
Si conclude la norma in oggetto, affermando che
“Resta ferma la misura di cui all’articolo 545, comma 4, c.p.c., se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro”.
Nessuna delle summenzionate disposizioni normative, insomma, va nella direzione dell’abrogazione formale dell’art 545 c.p.c., il quale stabilisce la regola generale del limite di pignorabilità dei crediti cd. “alimentari”, in un importo pari ad 1/5 delle somme dovuto a titolo di stipendio, pensione o altri emolumenti equivalenti.
Tuttavia, l’applicazione della prima delle due norme menzionate (l’art. 12 legge n. 214/2011, al comma 2 lett. c), comporta uno svuotamento sostanziale del campo di applicazione della disposizione processualcivilistica.
Il sistema ereditato presenta caratteri di profonda iniquità ed ingiustizia sociale, oltre che storture giuridico - costituzionali evidenti.
In sostanza, il limite di un quinto opera quando il pignoramento avvenga direttamente alla fonte, ossia direttamente da parte dell’ente previdenziale o del datore di lavoro.
Se effettuato in un secondo momento, invece, il pignoramento dello stipendio, della pensione o di altro emolumento pubblico avviene presso la banca dove il dipendente o pensionato deposita le somme ricevute mensilmente, e il limite di un quinto non opera più.
Ciò significa che il limite del quinto pignorabile della pensione o dello stipendio viene legalmente superato, e chi deve riscuotere un credito può rifarsi direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto detiene sul conto, quindi anche su tutta la pensione o tutto lo stipendio.
Questo, si badi bene, avviene in maniera arbitraria ed immotivata, tenendo conto che un conto corrente bancario o postale è un prospetto analitico in cui ogni voce “in entrata” ed “in uscita” è distinta dall’altra, oltre che facilmente identificabile.
In sede di opposizione e nelle successive memorie autorizzate, pertanto, è stata sollevata la questione di costituzionalità dell’art 12 comma 2 lett. c del cd. “decreto Salva-Italia”, evidenziando in particolare due profili di incostituzionalità.
Il primo è certamente quello riconducibile all’art. 38 Cost., (diritto al mantenimento e all’assistenza sociale).
Si può notare infatti come un imponente stop a questo fragile castello di motivazioni giuridiche che hanno aperto la strada al vessatorio pignoramento totale di pensioni, sussidi e altri trattamenti previdenziali, provenga direttamente dalla Corte Costituzionale che, in diverse circostanze, ha rivolto un monito al Legislatore, in merito al valore sociale e solidaristico sotteso a norme come il già citato art 545 c.p.c, collegandole direttamente proprio al disposto dell’art. 38 Cost.
In particolare, investita di questioni inerenti il pignoramento di somme di denaro rientranti nelle categorie di cui sopra, ha la Suprema Corte ha sempre esplicitamente sottolineato l’invalicabile limite contenuto nella disposizione codicistica.
Fondamentale, anche perché richiamata in tutte le sentenze successive sul punto (in misura diversa, sent. 44/2005; sent. 256/2006; sent. 183/2009), è la sentenza n°506/2002, che, rivolgendosi sia alle pensioni erogate dall’I.N.P.S., così come quelle proprie del settore pubblico (I.N.P.D.A.P.), ha confermato la pignorabilità delle pensioni - nella consueta misura del quinto - da determinarsi “sulla parte aggredibile del trattamento in quanto eccedente le esigenze minime di vita del pensionato (diversamente, la parte necessariamente destinata a soddisfare tali esigenze, resta sottratta ad ogni pretesa esecutiva)” .
E’ la stessa sentenza n. 506/2002 della Corte Costituzionale a spiegare la portata solidaristica dell’art 38 della Costituzione e perché il legislatore abbia impostato l’art. 545 del c.p.c. sulla base dello stesso:
“L’art. 38, secondo comma, Cost. è certamente norma che – sancendo il diritto dei lavoratori, in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, a che siano "preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" - si ispira a criteri di solidarietà sociale e "di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione di un minimum", il cui ammontare è ovviamente riservato all’apprezzamento del legislatore”.
Pertanto, il pubblico interesse – in cui si traduce il criterio di solidarietà sociale – a che il pensionato goda di un trattamento "adeguato alle esigenze di vita" può, ed anzi deve, comportare – oltre che un dovere dello Stato - anche una compressione del diritto di terzi di soddisfare le proprie ragioni creditorie sul bene-pensione, ma è anche vero che tale compressione non può essere totale ed indiscriminata, bensì deve rispondere a criteri di ragionevolezza che valgano, da un lato, ad assicurare in ogni caso (e, quindi, anche con sacrificio delle ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita e, dall’altro lato, a non imporre ai terzi, oltre il ragionevole limite appena indicato, un sacrificio dei loro crediti, negando alla intera pensione la qualità di bene sul quale possano soddisfarsi”.
Il presidio costituzionale (art. 38), dunque, non è tale da comportare, quale suo ineludibile corollario, l’impignorabilità dell’emolumento pubblico, ma soltanto l’impignorabilità assoluta di quella parte di esso che vale, appunto, ad assicurare quei "mezzi adeguati alle esigenze di vita" che la Costituzione impone siano garantiti.
E’ sufficiente chiaro, dunque, che il legislatore costituente, nel prevedere l’art. 38, ha immaginato una costruzione giuridica che, in nome di ineliminabili principi di solidarietà sociale, imponga limiti ben determinati, rispettivamente in capo al legislatore ordinario (nel rapporto con i cittadini) e al creditore pignorante (nei rapporti inter privatos).
Nulla rilevando, da questo punto di vista, il fatto che il pignoramento avvenga o meno “presso terzi”.
Secondo profilo di incostituzionalità evidenziato, è quello relativo all’art. 3 Cost.
Si fa riferimento, in particolare, alla lettura che la giurisprudenza della Suprema Corte ha dato del principio di eguaglianza, da intendersi anche come generale principio di ragionevolezza.
Il principio di ragionevolezza ha ormai guadagnato una propria autonomia rispetto al testo della Costituzione[1], assumendo un connotato conformativo rispetto ad ogni parametro costituzionale.
Da qui deriva la pervasività di questo canone di riferimento per l’ordinamento, oltre che la sua natura di principio costante e onnipresente nella giurisprudenza costituzionale, come da più parti è stato osservato[2].
E’ sufficiente far notare che il giudizio sulle leggi non può risolversi in un confronto meccanico tra due regole, ma richiede di valutare la rispondenza di una legge ad un principio o a un valore. Per comprendere la rispondenza di una legge a un principio o a più principi costituzionali occorre introdurre un ulteriore fattore: l’apertura della ragione ai dati della realtà.
Non a caso, in molti modi e in molteplici occasioni la Corte costituzionale ha definito la ragionevolezza come una forma di razionalità pratica[3].
Nel giudizio di ragionevolezza, la ragione è dunque costituita dall’impatto che il dato normativo produce sul caso, sul fatto, sul dato di realtà e di esperienza viva.
Come evidenziato da autorevole dottrina[4], tale giudizio, dunque, suggerisce al giudice una valutazione prudenziale, in cui l’indagine tiene conto delle conseguenze e degli effetti delle leggi. Solo così si può valutare l’adeguatezza del mezzo al fine, l’irragionevolezza intrinseca, gli esiti paradossali che possono prodursi da una regola apparentemente logica, al variare dei dati del contesto, o più semplicemente al trasformarsi dell’ordinamento normativo.
Queste premesse di carattere giuridico-sistematico trovano palese conferma nella giurisprudenza costituzionale.
Si può notare infatti, come la diversità di trattamento giuridico che si viene a determinare tra il pignoramento effettuato alla fonte dal datore di lavoro/ente previdenziale o assistenziale e quello effettuato sulle somme confluite su conto corrente bancario/postale aperto esclusivamente per il transito dell’emolumento, non trovi conforto nella giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte precisato che la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse.
Così, “il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni” (Cort. Cost. sent. n. 15/1960), poiché “l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli” (Cort. Cost. sent. n. 96/1980).
Ne deriva, dunque, la violazione del principio di ragionevolezza “quando, di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee, si ha una disciplina giuridica differenziata, determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate” (Cort. Cost. sent. n. 111/1981).
Illuminante appare sul punto la lettera della sent. n. 163 del 1993: “il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata definita quella determinata categoria di persone”.
E’ stata pertanto posta una seconda pregiudiziale di costituzionalità, giungendo a chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale dell’art. 12 comma 2 lett. c) L.n.  214/2011, per violazione degli artt. 38, e 3 della Costituzione, nella parte in cui non ha previsto che siano fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui all’art. 545 c.p.c.
La natura codicistica di quest’ultima disposizione normativa, tra l’altro, non costituisce assolutamente limitazione alcuna a considerarla norma generale espressione di un principio generale. Tanto per il significato costituzionalmente orientato (in ossequio all’art. 38 Cost), sul quale ci si è soffermati in precedenza, quanto per altro ordine di considerazioni, riconducibile, ancora una volta, all’art. 3 Cost. e al principio di ragionevolezza.
La giurisprudenza costituzionale ha mostrato come la ragionevolezza possa essere, di volta in volta, rappresentata come coerenza, congruenza, congruità, proporzionalità, necessità, misura, pertinenza, e così via.
Con particolare riferimento alla coerenza logica della norma, questa può (anzi, deve) essere riferita anche al sistema, al quadro normativo o ai principi generali del sistema[5].
La valutazione sulla coerenza di una disposizione normativa non può non investire direttamente il sistema, riconoscendone la “intrinseca coerenza/incoerenza ovvero la distonia”[6] .
Si fa notare addirittura, come non siano mancate, nell’evoluzione storica e semantica del principio di ragionevolezza nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, ipotesi nelle quali il sindacato di ragionevolezza si sia realizzato facendo ricorso a concetti esterni all’ ordine giuridico.
Il canone di ragionevolezza è stato dunque configurato come “conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità” (Cort. Cost. n. 2647/1994 e n. 388/1995); oppure è stato fondato “sulla realtà fattuale o sulle conoscenze scientifiche, quali dati condizionanti in modo oggettivo ed incontrovertibile” (sentenza n. 114 del 1998).
Affermazioni quali “...si appalesa irragionevole siccome non rispondente all’esigenza di conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità connaturati al principio sancito dall’ art. 3 della Costituzione...” (Cort. Cost. n. 52 del 1996)  , oppure dichiarazioni di illegittimità costituzionale basate su “una probabile dimenticanza del legislatore” (Cort. Cost. sent. 476/2002), non fanno che confermare quanto appena rilevato.
Il Tribunale di Lecce, nella persona del Dott. Alessandro Maggiore, con ordinanza del 12 febbraio 2014, ha sposato totalmente la tesi difensiva degli scriventi, accogliendo l’eccezione e rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, per violazione degli artt. 38 e 3 Cost.
La Suprema Corte è ora chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di tale norma che, alla luce del dettato costituzionale e di un’abbondante giurisprudenza sul punto, è quanto meno discutibile.
La notizia, rimbalzata su vari giornali, ha subito attratto il consenso popolare (cfr. commenti sul Blog http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/13/pignorabilita-di-stipendi-e-pensioni-adusbef-contro-il-salva-italia/879640/ ), nonché quello politico.
L’auspicio è quello di addivenire ad una pronuncia di incostituzionalità, che dia nuovamente alla norma che prescrive il limite assoluto di pignorabilità di un quinto piena “cittadinanza” nel nostro ordinamento.

(Da Altalex del 17.3.2014. Nota di Antonio Tanza e Alessandro Martines)

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[1] G. Scaccia, Controllo di ragionevolezza delle leggi e applicazione della Costituzione, in Nova juris interpretatio, Roma 2007
[2]  L. Paladin, Ragionevolezza (principio di), in Enc. Dir., Aggiornamento, I, Milano, 1997
[3] Cfr. Corte Cost. sent. n° 1130/1988
[4] Cfr. M. Carabia “I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana”; L. Mengoni, “Il diritto costituzionale come diritto per principi”
[5] Nella sentenza n. 84 del 1997, la Corte Costituzionale ha, sul punto, così chiaramente statuito:
“La semplice constatazione che le due norme poste a raffronto facciano parte di sistemi distinti ed autonomi non basta ad escludere che sia irragionevole il risultato normativo: il canone della ragionevolezza deve trovare applicazione non solo all’ interno dei singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all’intero sistema”.
[6] Corte Cost. sent. nn. 3 e 26 del 2007.

giovedì 10 aprile 2014

Responsabile ginecologo che interviene in ritardo per cesareo

Nessuna possibilità di essere salvato, in virtù delle prescrizioni contenute nella Legge n. 189/2012, di conversione del decreto Balduzzi,  dalla responsabilità per omicidio colposo al sanitario, il quale viola le leges artis, che prescrivono di ricorrere al parto cesareo in caso di brachicardia del feto.
A deciderlo sono i giudici della Cassazione con la sentenza n. 15495 del 7 aprile 2014 che respinge il ricorso del ginecologo contro il giudizio di colpevolezza della Corte d’appello.

Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità non può rientrare nell’ambito della abolitio criminis operata dalla novella del 2012, che restringe la punibilità ex art. 589 del codice penale

ai soli casi in cui risulti manifesto il mancato rispetto delle linee guida nei protocolli terapeutici, salvando le condotte di chi si è attenuto alle leges artis e di chi è imputabile unicamente per colpa lieve.

Non è questa l’ipotesi descritta nel ricorso, però, dicono i giudici, avendo il medico causato la morte del feto per aver posto in essere  tardivamente i meccanismi d’urgenza per l’esecuzione del cesareo; inoltre, le linee guida nazionali ed internazionali raccomandano, nel caso di brachicardia, di intervenire subito chirurgicamente.

Invece, i tracciati hanno segnalato la sofferenza fetale per oltre due ore e trentacinque minuti, mentre il fatto che la donna fosse alla sua prima esperienza di parto, la posizione del feto e l’andamento del ritmo cardiaco avrebbero imposto di attivarsi senza indugio.

Correttamente, quindi, conclude la Cassazione, la Corte territoriale aveva ritenuto che «la condotta omissiva del professionista integrasse uno specifico profilo di colpa per imperizia, anche in riferimento alla mancata osservanza delle linee guida disciplinanti lo specifico settore di attività; con la precisazione che il grado della colpa risultava di particolare gravità, stante la protratta durata temporale della condotta omissiva da parte dello specialista, rispetto al comportamento di elezione, che risultava imposto dalle regole tecniche».

Pertanto, nel caso di specie non è stato possibile applicare alcuna abolitio criminis per la mancata aderenza del medico alle linee guida e per l’assenza della colpa lieve.


Lucia Nacciarone (da diritto.it del 10.4.2014)

Ostacolano convivenza figlia? Molestie

Cass. Sez. I pen., Sent. 9.4.2014 n. 15846

Non accettavano la scelta della figlia di vivere per conto proprio e la avevano seguita per strada, o attesa nei pressi della pensione dove alloggiava, recandole così «molestia e disturbo», dato che ella non voleva più intrattenere rapporti con loro. Per questo due genitori sono stati condannati in via definitiva, per il reato di molestie continuate, al pagamento di un'ammenda di 500 euro ciascuno e al risarcimento danni in favore della figlia.

(Da ilsole24ore.com del 9.4.2014)

IVA non versata, Corte costituzionale alza soglia irrilevanza penale

Corte cost., 9.4.2014, n. 80, Pres. Silvestri, rel. Frigo

Per la sua importanza, anche dal punto di vista pratico, pubblichiamo con immediatezza l'attesa decisione della Corte costituzionale sull'art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, riservandoci di pubblicare a breve una scheda illustrativa dei contenuti del provvedimento.

Questioni erano state sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dai Tribunali di Bologna e Bergamo. Si era osservato, in particolare, come la norma incriminatrice dell'omesso versamento dell'imposta, da parte di chi avesse comunque effettuato una corretta dichiarazione del dovuto, fosse punita a partire da una soglia quantitativa più bassa (50.000 euro) di quella fissata per l'analoga condotta di chi non presentasse la dichiarazione Iva o ne presentasse una fraudolenta (rispettivamente, 77.468,53 e 103.291,38 euro). Una severità irrazionale, secondo i rimettenti, posto che il disvalore della condotta di chi renda palese il proprio debito, con una corretta dichiarazione, è semmai inferiore a quello di chi, omettendo la dichiarazione o falsificandola, renda più difficoltoso l'accertamento dell'evasione compiuta.

La situazione si è modificata, per vero, a partire dal 2011, allorquando, con l'art. 2, comma 36-vicies semel, del decreto-legge n. 138 del 2011, aggiunto dalla legge di conversione n. 148 del 2011, la soglia di punibilità dell'omessa dichiarazione è stata diminuita a 30.000 euro (lettera f) e quella della dichiarazione infedele a 50.000 euro (lettera d). Dunque, come rileva la Consulta, ad un importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a quello della soglia di punibilità dell'omesso versamento dell'Iva, rimasta per converso inalterata: «in tal modo, la distonia dianzi evidenziata è venuta meno». Tuttavia, poiché le nuove soglie si applicano ai soli fatti successivi alla novella (si tratta di modifiche peggiorative del trattamento del reo), la sperequazione in danno dei responsabili dell'omesso versamento è rimasta operante per tutti i fatti antecedenti.

Ecco dunque che la Corte ha deciso di «pareggiare» la soglia di irrilevanza penale della condotta di omesso versamento a quella vigente, nello stesso periodo, per i fatti di dichiarazione infedele.

Di qui la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, «nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38».


GL (da penalecontemporaneo.it del 10.4.2014)

mercoledì 9 aprile 2014

Mediazione tributaria, chiarimenti delle Entrate

In conseguenza  delle modifiche apportate dalla L. 27 dicembre 2013 (legge di stabilità per il 2014) alla disciplina dell’istituto della mediazione tributaria (art. 17-bis, D.Lgs. 546/1992), l’Agenzia delle Entrate, con provvedimento 2 aprile 2014, ha riscritto le avvertenze relative alle modalità di presentazione del reclamo/mediazione e del ricorso.
In particolare, nel provvedimento citato si ricorda che:

1) per le controversie di valore superiore ad euro 20.000, il contribuente deve presentare istanza di reclamo/mediazione all’Agenzia delle Entrate, pena l’improcedibilità del ricorso alla Commissione tributaria. La proposizione del reclamo, a seguito dell’intervento modificativo, è infatti prevista come condizione di procedibilità del ricorso e non più come condizione di ammissibilità dello stesso;

2) la presentazione dell’istanza di reclamo/mediazione comporta la sospensione per 90 giorni della riscossione e del pagamento delle somme dovute in base all’atto impugnato. La sospensione, peraltro, non si applica in caso di improcedibilità del reclamo;

3) qualora il suddetto termine dovesse decorrere senza che vi sia stato accoglimento del reclamo o senza che sia stato formalizzato un accordo di mediazione, la sospensione viene meno e, per il relativo periodo,sono dovuti gli interessi previsti dalla singole leggi d’imposta;

4) con riferimento al termine per la conclusione del procedimento di mediazione (90 giorni dalla presentazione del reclamo) viene prevista l’applicabilità allo stesso delle disposizioni sui termini processuali (computo e sospensione feriale);

5) l’istanza di reclamo/mediazione deve essere intestata e notificata alla Direzione che ha emesso il ruolo;

6) nell’istanza il contribuente deve riportare gli stessi dati del ricorso.


Lilla Laperuta (da diritto.it del 9.4.2014)

martedì 8 aprile 2014

Nata associazione Amministrativisti Sicilia Orientale

Si tratta di un’Associazione senza finalità di lucro, apolitica e apartitica che opera in piena autonomia ed indipendenza. L’Associazione svolge la sua azione per la tutela della posizione e degli interessi dell’Avvocato Amministrativista, per la dignità, l’efficienza e l’effettività della Giustizia Amministrativa, nonché per l’imparzialità ed il buon andamento della Pubblica Amministrazione, perseguendo il rispetto dei principi costituzionali dettati dagli articoli 97 e 111 Cost.
L’Associazione si propone di promuovere e svolgere attività di studio e formazione, anche al fine di consolidare e rafforzare la figura del “Avvocato specialista in diritto amministrativo”. Verranno pertanto organizzati corsi e seminari che potranno essere esclusivamente riservati agli iscritti dell’Associazione, oppure aperti al pubblico, restando sempre salva la partecipazione gratuita per gli iscritti.

Sempre nell’ambito delle attività di studio e formazione, Amministrativisti.it prevede la diffusione di pubblicazioni editoriali, coerenti con lo spirito e gli obiettivi dell’Associazione. In particolare, ogni socio potrà pubblicare i propri approfondimenti sul blog di Amministrativisti.it, disponibile sul sito web dell’associazione. Verrà inoltre avviata una collana editoriale di e-book dedicata ad Amministrativisti.it, riservata ai soci, in cui ciascuno potrà pubblicare i sui testi.

Nell’ambito della promozione e tutela della posizione e degli interessi dell’Avvocato Amministrativista, nonchè della dignità, efficienza ed effettività della Giustizia Amministrativa, l’associazione organizzerà campagne di informazione e sensibilizzazione, condotte attraverso ogni possibile canale di comunicazione, sia tradizionale che telematico, e mediante un confronto serrato con le istituzioni competenti, nonchè mediante eventuali ricorsi amministrativi e azioni giurisdizionali.

Possiamo annunciare che le prime campagne riguarderanno senza dubbio: l’equità del contributo unificato nel processo amministrativo, i ritardi nei pagamenti pubblici alle imprese, la completa digitalizzazione della Giustizia Amministrativa, la pari dignità sostanziale delle parti del processo per la definizione delle cd. buone pratiche processuali.

I soci potranno contare su una serie di accordi e convenzioni con editori, software house e fornitori, stipulati da Amministrativisti.it al fine di ottenere prezzi più convenienti per libri, banche dati, materiale di cancelleria, ed in generale tutto ciò che è necessario per l’esercizio della nostra professione forense.

Inoltre viene messo a disposizione degli avvocati associati, il servizio “Domanda/Offerta Praticanti”, ossia un servizio di abbinamento tra le richieste e le offerte di pratica ricevute.


Carmelo Giurdanella (da leggioggi.it del 7.4.2014)