giovedì 31 gennaio 2013

Niente sgravi per chi versa stipendi sotto il minimo sindacale

Cass. Sez. Lavoro n. 1571del 23.1.2013

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Cadenzare, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda della società F.lli Osso, proposta nei confronti dell'INPS, avente ad oggetto la condanna di detto istituto al pagamento della somma di Euro 290.809,35 a titolo di differenza tra i contributi versati nei periodo 1 gennaio 1984/31 dicembre 1992 e quanto effettivamente dovuto in applicazione del beneficio degli sgravi fiscali.
La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, fondava il proprio decisum sul rilievo che non era di ostacolo alla fruizione dei benefici degli sgravi fiscali la circostanza che non fosse stata corrisposi, a ai dipendenti una retribuzione non inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva. A tal fine, secondo la Corte territoriale, era sufficiente che la retribuzione riportata nei libri paga fosse adeguata ai contratti collettivi o la contribuzione previdenziale adeguata ai minimi tariffari.
Avverso questa sentenza l'INPS ricorre in cassazione sulla base di un unico motivo.
Resiste con controricorso la società intimata che deposita, altresì, memoria con contestuale nomina di nuovo difensore.
Motivi della decisione
Preliminarmente va rilevata la nullità della procura, apposta a margine della memoria ex art. 378 c.p.c., depositata per la società resistente, con la quale risulta conferito mandato, nel presente grado del giudizio pendente innanzi la Suprema Corte di Cassazione, all'avv.to Nicola Piluso.
Infatti è giurisprudenza di questa Corte che nel giudizio di cassazione il nuovo testo dell'art. 83 c.p.c., - secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine od in calce anche di atti diversi, dal ricorso o dal controricorso - si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45, (4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data - quale è il presente - se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e ai controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall'art. 83, comma 2 (vecchio testo) (V. Cass. 26 marzo 2010 n. 7241, Cass. 28 luglio 2010 n..17604 e Cass. 2 febbraio 2012 n. 4476).
Passando all'esame del ricorso rileva il Collegio che con l'unico motivo di censura, il quale si conclude con la formulazione del quesito previsto dall'art. 366 bis c.p.c., l'INPS, deduce violazione del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 4, comma 20, convertito in L. 11 novembre 1983, n. 638, del D.L. 3 luglio 1986, n. 328, art. 3, comma 1, convertito in L. 31 luglio 1986, n. 440, del D.L. 30 settembre 1987, n. 335, art. 1, comma 2, convertito in L. 29 febbraio 1988, n. 48, e del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 6, comma 9, convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389.
Assume l'INPS al riguardo che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte del merito, il datore di lavoro per potere usufruire dei benefici dello sgravio totale e della fiscalizzazione degli oneri sociali, oltre a denunciare all'INPS retribuzioni non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi, ha anche l'onere di corrispondere effettivamente ai propri dipendenti tali retribuzioni.
La censura, alla luce della giurisprudenza più recente di questa Corte, cui il Collegio ritiene di dare continuità giuridica, è fondata.
Deve, infatti, orami considerarsi consolidato l'orientamento secondo il quale il D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 6, comma 9, convertito con modificazioni nella L. 7 dicembre 1989, n. 389, prevede la decadenza dal diritto alla fiscalizzazione degli oneri, sociali e agli sgravi contributivi in relazione ai lavoratori che non siano stati denunciati agli istituti previdenziali, ovvero siano stati denunciati con orar o giornate di favore inferiori a quelli effettivamente svolti o con retribuzioni inferiori a quelle minime previste dai contratti collettivi, ovvero siano stati retribuiti in misura inferiore a tali retribuzioni minime (per tutte v, Cass. 4 aprile 2011 n.7647 e giurisprudenza ivi richiamata per la quali la sanzione della decadenza opera comunque ove risulti la mancata concreta (Ndr: testo originale non comprensibile) del trattamento economico corrispondente a quello denunciato.
Risulta, pertanto, confermata la precedente asserzione di questa Corto in base alla quale il D.L. n. 32 8 del 1986, convertito in L. n. 440 del 1986, nel fissare nuove misure per la riduzione contributiva prevista da precedenti disposizioni, ha recepito le condizioni previste o richiamate dal La precedente normativa per poter usufruire della detta riduzione, e in particolare la condizione che lo imprese interessate assicurino ai propri dipendenti trattamenti economici non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e provinciali, (L. n. 782 del 1980, art. 1, D.L. n. 91 del 1982, art. 2, cit., D.L. n. 463 del 1983, art. 4, cit.); con la conseguenza che l'ulteriore condizione, di tipo negativo, autonomamente prevista dal detto D.L. n. 328 del 1986, art. 3, e cioè non essere state denunciate retribuzioni inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi, non sostituisce, bensì semplicemente integra la indicata condizione positiva, che rimane sempre necessaria, con la conseguenza che i benefici in questione devono essere esclusi. per quello imprese che, pur avendo denunciate retribuzioni non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi, abbiano effettivamente corrisposto retribuzioni inferiori (Cass. 26 luglio 2001 n. 10253).
Di converso è rimasta isolata La contraria pronuncia secondo cui, alla stregua della disciplina degli sgravi contributivi di cui al D.L. n. 328 del 1986, convertito con modificazioni nella L. n. 440 del 1986, la condizione ostativa al godimento dei benefici prevista dall'art. 3, lett. c), dello stesso D.L. sussiste unicamente per i lavoratori denunciali con retribuzioni inferiori a quelle previste dai contrarti collettivi con conseguente irrilevanza della circostanza che i dipendenti, pur denunciati con retribuzioni non inferiori a quello contrattuali, siano di fatto retribuiti in misura inferiore (Cass. 16 maggio 2002 n. 7134).
Alla stregua delle esposte considerazioni la sentenza impugnata, che non si e adeguata al principio di diritto sopra richiamato, va, quindi, cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello indicata in dispositivo che si adeguerà al detto principio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Reggio Calabria.

(Da diritto.it)

Esposto a professionista e accesso agli atti del procedimento disciplinare

Consiglio di Stato n. 316, sez. VI del 21.1.2013

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1.- Il Signori M.M. e L.V. hanno presentato all'Ordine degli Avvocati di Trento una istanza di accesso, depositata in data 23 marzo 2012, agli atti del procedimento disciplinare avviato, su loro segnalazione, nei confronti dell'avvocato K.A.. In particolare, è stato chiesto di avere copie della memoria difensiva, prodotta nel predetto procedimento dal professionista, nonché di conoscere l'esito del procedimento stesso.
Non avendo il predetto Ordine risposto alla domanda nei termini previsti, il Sig. M.
ha impugnato innanzi al Tribunale regionale di giustizia amministrativa, Sezione autonoma di Trento, il silenzio rifiuto.
1.1.- Quel giudice, con sentenza 11 ottobre 2012, n. 298, ha accolto il ricorso. In particolare, ha rilevato che la posizione del ricorrente, quale autore di un esposto, è riconducibile ad una situazione soggettiva rilevante che, in quanto tale, lo legittima a presentare una domanda di accesso.
2.- La predetta sentenza è stata impugnata dall'Ordine degli Avvocati di Trento.
Nel parte in fatto dell'atto si sottolinea come con nota dell'11 aprile 2012, non pervenuta ai richiedenti, l'Ordine avesse rigettato la domanda in quanto non erano state esplicitate "le motivazioni della richiesta di accesso ... con riferimento alla situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare, alla necessità di conoscenza e allo specifico interesse da curare".
Nella parte in diritto sono stati prospettati i motivi indicati nei successivi punti.
3.- L'appello è infondato.
3.1.- Con i primi due motivi l'appellante assume che non è sufficiente essere autore di un esposto per acquisire la legittimazione all'accesso. Infatti, l'autore dell'esposto non è parte del procedimento disciplinare e non può neanche impugnare l'esito del procedimento stesso. Inoltre, i richiedenti la documentazione, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, non sono clienti del professionista denunciato ma del difensore della sua controparte.
I motivi non sono fondati.
L'art. 22 della L. 7 agosto 1990, n. 241 prevede che il "diritto di accesso" sia riconosciuto a "tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso".
L'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con sentenza 20 aprile 2006, n. 7, ha qualificato il "diritto di accesso" come una posizione soggettiva, priva di una autonomia, finalizzata ad offrire al titolare poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di una situazione giuridicamente rilevante (si veda anche Cons. Stato, Ad. plen, 18 aprile 2006, n. 6; da ultimo Cons. Stato, IV, 22 maggio 2012, n. 2974).
Si è così ritenuto che "la qualità di autore di un esposto, che abbia dato luogo a un procedimento disciplinare, è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare nell'autore la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante" cui fa riferimento l'art. 22 (in analogo senso, successivamente Cons. Stato, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3742, secondo cui "ove risulti un suo personale interesse il denunciante ha senz'altro titolo ad avere copia dell'atto disciplinare emesso dall'amministrazione, a seguito dell'esposto da lui presentato ... anche se si tratti dell'atto di archiviazione del procedimento").
Occorre, pertanto, accertare se, nel caso di specie, ricorrano i suddetti requisiti.
Il primo requisito, specifico (essere autore di un esposto), costituisce dato non contestato.
Il secondo requisito, generico (ricorrenza di "altri elementi"), è presente anch'esso. La parte appellata, pur non avendo un rapporto contrattuale con il professionista denunciato, ha avuto con lui un contatto afferente alla sfera professionale, che di suo è idoneo - per quel che si riflette in termini disciplinari - a costituire un fatto giuridicamente produttivo di effetti. Risulta, infatti, dal contenuto dell'esposto che detto professionista fosse il difensore dei soggetti con i quali erano pendenti una serie di controversie. Il Sig. M. (unitamente alla Sig.ra L.) ha, pertanto, contestato all'avvocato di controporte di avere tenuto, per circostanze specificamente indicate, comportamenti contrari ai doveri deontologici di probità, dignità, decoro e lealtà nonché lesivi dei "precetti di buona fede e correttezza". In particolare, vengono denunciati comportamenti relativi alle modalità di esecuzione di somma dovute e di notificazione di atti processuali.
Questi elementi, la cui effettiva portata esula dall'ambito del presente giudizio - che rispetto ai fatti da accertare si pone in limine- sono sufficienti a fare ritenere che nel caso di accertamento di una responsabilità disciplinare il richiedente potrebbe stimare se intraprendere azioni a tutela della propria posizione giuridica eventualmente lesa. Ne consegue che l'appellata è effettivamente titolare di una "situazione giuridicamente rilevante".
3.2.- Con un terzo motivo si assume l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto insussistenti esigenze di tutela della riservatezza del professionista "in quanto si tratta di accedere non a dati sensibili, bensì ad atti aventi stretto riferimento a rapporti contrattuali intercorrenti con il cliente". Si rileva, infatti, che, nella specie, non vi sarebbe, per le ragioni anzidette, alcun rapporto contrattuale tra le parti.
Il motivo non è fondato.
L'art. 24, comma 7, della L. n. 241 del 1990 prevede, al primo inciso, che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici". Nella parte successiva del comma si dispone, tra l'altro, che "nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile", mentre se i dati riguardino lo stato di salute o la vita sessuale (c.d. dati sensibilissimi), l'accesso è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
Nella specie, la natura dei fatti contestati al professionista rende evidente come si tratti di circostanze che afferiscono allo specifico rapporto con il denunciante. Non risultano né sono stati adotti elementi specifici idonei a condurre a diversa conclusione.
Rimane comunque - va qui precisato - fermo il potere dell'Ordine di negare l'accesso agli atti che effettivamente contengano dati qualificabili come sensibili ovvero sensibilissimi del professionista, ovvero di adottare misure idonee ad assicurare la riservatezza dei dati.
4.- In mancanza di costituzione della parte intimata non occorre pronunciarsi sulle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Nulla sulle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

(Da diritto.it)

mercoledì 30 gennaio 2013

Il decalogo dell’OUA ai rappresentanti politici


Prosegue il fitto calendario di incontri che l'Oua, Organismo Unitario di rappresentanza politica dell'Avvocatura, sta portando avanti con i rappresentanti delle forze politiche in campo nella prossima tornata elettorale. Dopo il PD e la Lista Scelta Civica per Monti (Sandro Favi e Stefano Dambruoso), oggi il segretario dell'Oua, Paolo Maldari ha incontrato Luigi Li Gotti della Lista la Rivoluzione Civile – Ingroia. Anche in questa occasione è stato consegnato il documento che contiene le Dieci domande e diversi spunti di riflessione che l'avvocatura ha individuato come Linee Guide per l'Agenda Giustizia per l'Italia (di seguito).  «È stato un colloquio costruttivo, diversi i punti di incontro – ha sottolineato Maldari – su questioni importanti che vedono l’Oua fortemente impegnata: necessità di investimenti in innovazione tecnologica, messa in efficienza della macchina giudiziaria e conseguente abbattimento dei costi, sospensione e riscrittura della riforma della geografia giudiziaria sulla base delle reali necessità del territorio, confronto e dialogo tra politica e avvocatura».  Sulla nuova legge forense il senatore Luigi Li Gotti ha voluto sottolineare come ci sia la “consapevolezza che sia da migliorare in alcuni punti. È importante arrivare a proporre un nuovo testo, inserendo le modifiche e facendo audizioni con l'avvocatura e con gli altri organismi”. Altro punto in comune emerso durante il colloquio è stata la netta contrarietà alla mediazione obbligatoria (poi dichiarata incostituzionale), definita da Li Gotti “una rivoluzione culturale negativa” per il senatore, infatti “il messaggio che è passato è quello che la giustizia si può fare senza giudice, avvocati e codici”.  L'Oua, attraverso le parole del suo presidente Nicola Marino, ha più volte sottolineato la necessità di “rivedere radicalmente il progetto di riforma della geografia giudiziaria avviando un confronto e un'analisi preventiva sul territorio per verificare le esigenze di ogni realtà”. Anche su questo punto Li Gotti si è detto concorde, criticando il progetto ministeriale: “Non è vero che è una riforma a costo zero. Accorpare uffici costa e al momento non c'è nemmeno un piano finanziario al ministero. Inoltre vengono abbandonate sedi appena costruite e su cui lo Stato ha investito enormi risorse finanziarie. Dovrebbe intervenire la Corte dei Conti”. L’Oua, in tal senso, ha messo in evidenza la necessità di fermare un provvedimento che elimina la “giustizia di prossimità” sulla base di una politica basata sul taglio lineare di circa 1000 uffici giudiziari.  Maldari ha anche posto l’accento sui costi e sulle limitazioni all’accesso alla giustizia: «Abbiamo denunciato più volte l'eccessivo aumento del contributo unificato: ingiusto e illegittimo, perché è evidente che la ratio di questo provvedimento è cercare di ridurre il contenzioso. Un intervento che va di pari passo con l'introduzione del filtro in appello e con la previsione di un limite legale alla condanna alle spese che non può superare la somma riconosciuta in sentenza».  Per l’Oua questo deterrente si è rivelato fallimentare dal punto di vista deflattivo (se non in casi particolari e in percentuali residuali), dimostrando che questa è la strada sbagliata e rivelandosi di fatto solo come un'ulteriore tassa sulla pelle degli italiani. E a pagarne maggiormente le conseguenze sono stati i cittadini con meno potere acquisitivo: si sta configurando così una giustizia di serie A e una di serie B. A rendere il quadro ancora più fosco è l'assenza di informazioni su come andrà destinato questo aumento di entrate derivanti dal contributo unificato. Se, per intenderci, rimarrà nel settore giustizia per migliorare il sistema, o se, invece, terminerà in altri ministeri a coprire buchi e sprechi. «L'Oua – conclude Maldari - proseguirà anche nei prossimi giorni gli incontri con tutti gli altri rappresentanti degli schieramenti politici, chiamando i candidati a dare risposte concrete alle “dieci domande per la giustizia”. Sulla base di questo confronto, quindi, l’organismo di rappresentanza politica dell'avvocatura renderà pubblico anche un Decalogo di proposte su cui chiedere un impegno preciso nella prossima legislatura».

 (Da Mondoprofessionisti del 30.1.2013)

Inabitabilità immobile, richiesta la prova effettiva

Cass. Civ., sez. III, sent. 13.12.2012 n° 22923

L'abbandono dell'abitazione senza la prova effettiva dell'inabitabilità non da diritto al risarcimento del danno. Lo ha deciso la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 13 dicembre 2012, n. 22923.

Il caso vedeva un condomino citare in giudizio il condominio per vedersi risarciti i danni derivanti da infiltrazioni. A seguito del decesso dell'attore, succedevano nella sua posizione gli eredi di questo i quali si vedevano riconosciuti, dai giudici di primo grado, sia il diritto al risarcimento dei danni subiti che il mancato godimento dell'immobile abbandonato durante la causa.

I giudici di secondo grado, sebbene confermassero il diritto al risarcimento per i danni derivanti dalle infiltrazioni, negavano il diritto al risarcimento derivante dall'inabitabilità dell'immobile.

La Corte di Cassazione concorda con i giudici di appello. La successione a causa di morte comporta, secondo i giudici di legittimità, la confusione tra la quota ereditaria del patrimonio del de cuius ed il patrimonio del successore in capo a quest’ultimo; egli non costituisce un soggetto di diritto diverso a seconda che faccia valere la sua qualità di erede oppur no: in altri termini, un individuo quale erede non è soggetto suscettibile di differenziarsi da sé medesimo non in qualità di erede, quando faccia valere rapporti giuridici nei quali sia subentrato per effetto di quella successione a causa di morte.

Nonostante tale pacifico principio di diritto, i giudici di legittimità confermano la pronuncia di secondo grado nella parte in cui nega l'esistenza, in capo agli eredi, di un diritto al risarcimento per mancato godimento dell'immobile. Secondo i giudici, infatti, non poteva dirsi esistente un siffatto diritto, a causa della mancanza di una prova reale del fatto che l'abbandono dell'abitazione fosse dovuto ad una effettiva inabitabilità dell'immobile e non da una scelta dei proprietari.

(Da Altalex del 4.1.2013. Nota di Simone Marani)

Provvedimento sospensivo di efficacia esecutiva: ammissibile reclamo

Il reclamo previsto dal combinato disposto degli art. 624 e art. 669-terdecies c.p.c. avverso i provvedimenti in materia di sospensione dell’esecuzione è estensibile anche al provvedimento sospensivo previsto al comma 1 dell'art. 615 c.p.c.
E ancora, la cancellazione dal Registro delle Imprese produce l’estinzione della società di persone anche in presenza di crediti non soddisfatti e di rapporti non ancora definiti: soltanto gli ex soci in comunione tra loro saranno legittimati ad agire in giudizio per ottenere il soddisfacimento dei crediti di cui era titolare la società estinta.

Queste sono le due fondamentali questioni su cui si è espresso il Tribunale di Torino nell’ordinanza in commento, adottata nell’ambito di un processo relativo ai crediti vantati nei confronti di un noto istituto bancario da una società in nome collettivo, trasformatasi, nelle more del giudizio, in un’impresa individuale.

In merito alla prima questione, il giudice ha ritenuto di abbracciare l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito, in forza del quale il reclamo previsto dal combinato disposto degli art. 624 e art. 669-terdecies avverso i provvedimenti in materia di sospensione dell’esecuzione è estensibile anche al provvedimento sospensivo dell’efficacia esecutiva di cui al comma 1 dell’art. 615 c.p.c.

Innanzitutto perché il provvedimento in questione ha natura cautelare. Inoltre, l’art. 624 c.p.c. si riferisce a tutte le decisioni in tema di istanze di sospensione senza che rilevi che l’esecuzione sia concretamente iniziata: in caso contrario vi sarebbe, infatti, una lesione del diritto di difesa della parte interessata. Infine, “la nuova formulazione dell’art. 615 c.p.c. e la modifica introdotta in due tempi all’art. 624 c.p.c., hanno disegnato un nuovo istituto cautelare, che ricomprende non solo la sospensione del processo esecutivo ma anche la sospensione dell’esecutività del titolo: ambedue i provvedimenti debbono ritenersi soggetti a reclamo, attesa la evidente volontà in tal senso dimostrata dal legislatore che, dapprima, aveva introdotto all’art. 624 c.p.c. il reclamo in relazione alla sola ipotesi di opposizione alla esecuzione (615, 2° comma, c.p.c.) poi, a seguito della l. n. 52 del 2006, ha eliminato dal 1° comma dell’art. 624 c.p.c. il riferimento al 2° comma dell’art. 615 c.p.c., così estendendo il rimedio ad entrambe le ipotesi”.

In merito alla seconda questione, l’ordinanza chiarisce che a seguito delle tre pronunce delle Sezioni Unite del 22 febbraio 2010 (n. 4060, n. 4061 e n. 4062), la cancellazione dal Registro delle Imprese produce l’estinzione della società di persone anche in presenza di crediti non soddisfatti e di rapporti non ancora definiti. Tra questi vi rientrano le c.d. sopravvenienze attive e passive. Mentre per queste ultime, il legislatore è intervenuto prevedendo espressamente, dopo la cancellazione, la responsabilità dei soci e/o dei liquidatori nei confronti dei creditori rimasti insoddisfatti, per le sopravvenienze attive non esiste alcuna specifica disciplina. Ad avviso del giudice “considerato, tuttavia, che anche in presenza di sopravvenienze attive non può ritenersi possibile una sopravvivenza della società né una sua reviviscenza, deve concludersi che in tale ipotesi si verifichi un fenomeno di successione delle sopravvenienze nei confronti dei soci, divenendo le stesse oggetto di una comunione potenziale e particolare che non ha titolo nella legge (ex art. 1100 c.c.), ma trova origine nell’estinzione della sovrastruttura cui era imputato il bene residuo”. Pertanto, una volta stabilito che la società cancellata è definitivamente estinta e che non ha piu’ capacità giuridica e processuale per agire per il recupero dei crediti, soltanto gli ex soci saranno legittimati ad agire per soddisfare pro quota i crediti di cui era titolare la società estinta, secondo le norme sulla comunione.

In ultimo, l’ordinanza in commento, coglie l’occasione per chiarire qual è l’orientamento della Cassazione in materia di frazionamento del credito nell’ambito delle procedure esecutive. Notoriamente il creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, non può frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo.

Nell’ambito delle procedure esecutive, invece, “il creditore, in forza del medesimo titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti dello stesso bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo”.


(Da Altalex del 17.1.2013. Nota di Giuseppina Mattiello)

martedì 29 gennaio 2013

La macchina giustizia

In occasione dell'apertura dell'anno giudiziario ho letto alcuni interessanti commenti sulla stampa, come quello del Dott. Ferrarella sul Corriere della Sera di domenica 27 gennaio, che definisce una 'seduta di psicoterapia togata' la cerimonia di apertura dell'Anno Giudiziario presso la Corte d'appello di Milano.  A chi volesse approfondire le cause della 'malagiustizia' suggerisco di riflettere sul tema della separazione della funzione giurisdizionale dalla funzione amministrativa nella magistratura. Infatti buona parte del problema del malfunzionamento della nostra Macchina Giudiziaria è dovuto alla totale incompetenza della magistratura in materia gestionale o, se si vuole, manageriale, il che determina il caos totale di quasi tutti i nostri tribunali, sopratutto quelli più grandi (Roma, Milano, Napoli). In parole povere, i magistrati dovrebbero limitarsi a leggere le carte, celebrare i processi e scrivere le sentenze, mentre il personale amministrativo, dai dirigenti ai semplici funzionari, dovrebbe occuparsi di far funzionare la Macchina (gestire il personale, le sedi degli uffici giudiziari, le forniture, i servizi connessi, per esempio quelli informatici e le notifiche), come dovrebbe fare qualsiasi azienda erogatrice di servizi. I magistrati sono soltanto i primi utenti del 'servizio giustizia', inteso nell'accezione amministrativa, insieme agli avvocati e ai cittadini. Per farlo funzionare in maniera efficiente (basti pensare alle notifiche!) è necessaria una formazione altamente specializzata in materia gestionale, cosa che i magistrati non hanno. Se preferiscono fare i manager della giustizia invece di fare i giudici, si mettano in aspettativa, cessino di svolgere la funzione giurisdizionale, vadano a scuola di management, superino i necessari esami e poi si facciano assumere per svolgere questa funzione, insieme a tutto il personale amministrativo del Ministero della Giustizia. Se poi si vietasse ai circa mille magistrati attualmente in aspettativa di svolgere le altre funzioni extragiudiziali, quali consulenti ministeriali, arbitri e quant'altro, avremmo risolto il 90% dei problemi della nostra Macchina Giustizia. Vogliamo aprire una riflessione e un serio dibattito su questo tema?
Che ne pensano l'avvocatura e la magistratura?
 
Antonio J. Manca Graziadei (da Mondoprofessionisti del 29.1.2013)

Ammissibile istanza di sequestro in citazione

È ammissibile l’istanza di sequestro contenuta nell’atto di citazione e non in separato ricorso come prescrive l’art. 669 bis c.p.c.: si tratta di irregolarità formale, idonea comunque al raggiungimento dello scopo suo proprio, posto che sull’istanza cautelare è competente a decidere il giudice del merito.
Così ha deciso il Tribunale di Lamezia Terme, con ordinanza 6 novembre 2012.
Nel caso in esame l’attrice aveva chiesto, nell’atto di citazione, il sequestro giudiziario del 50% delle quote intestate al marito (con il quale pendeva una causa di separazione giudiziale) di due società costituite in costanza di matrimonio e l’accertamento della comproprietà delle predette quote.
Quanto al fumus boni iuris, l’istante asseriva che le predette quote rientrassero nella comunione ordinaria, cosi’ come stabilito nella convenzione con la quale i coniugi avevano optato per il regime di separazione dei beni, nella quale era espressamente previsto che i beni acquistati in precedenza rimanessero in comunione ordinaria.
Quanto al periculum in mora, l’attrice allegava alcuni comportamenti concludenti del convenuto, indici della sua volontà di ledere gli interessi della stessa e tali da rendere fondato il timore di una diminuzione del valore delle quote nel tempo necessario alla definizione del giudizio di merito.
Resisteva il marito affermando, in ordine all’istanza di sequestro, che la stessa non era stata ritualmente introdotta perché contenuta nell’atto di citazione e non in separato ricorso cosi’ come prescrive l’art. 669 bis c.p.c.
Ad avviso del giudice, tuttavia, “competente a decidere sull’istanza cautelare spiegata in corso di causa è, infatti, indefettibilmente, il giudice della causa di merito, sicché da questo punto di vista nessun vizio è riconducibile alla scelta della M di includere l’istanza nel medesimo atto introduttivo del giudizio di merito, trattandosi di modalità al più inficiata da mera irregolarità formale, ma del tutto idonea al raggiungimento dello scopo suo proprio (vale a dire l’instaurazione del contraddittorio con le controparti)”. Nell’ordinanza in commento, il giudice ha, quindi, applicato i principi di ordine generale di cui all’art. 156 c.p.c., sulla “rilevanza della nullità”, in particolare il comma 3 per cui
”la nullità non puo' mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.
In ordine al fumus boni iuris, parte resistente sosteneva che le quote dovessero ritenersi in comunione de residuo ex art. 178 c.c. e non in comunione legale. Tuttavia, secondo il giudice, le quote societarie sono assimilabili ai beni mobili quanto al loro regime giuridico generale (in tal senso, Cass. 2569/2009 cit.), e, pertanto, le quote acquistate dal singolo coniuge in regime di comunione legale ricadono nella comunione immediata di cui all'art. 177 comma 1 lett. a) c.c., che parla genericamente di acquisti compiuti in costanza di matrimonio. Ciò, peraltro, è conforme alla "ratio" delle norme sulla comunione, che è quella di realizzare pienamente, anche sul piano dei rapporti patrimoniali, la dimensione comunitaria della vita familiare.
Inoltre, anche se si aderisse all’impostazione di parte resistente (per cui le quote ricadono in comunione differita ex art. 178 c.c. in quanto beni strumentali all’esercizio di un’attività di impresa), ciò non escluderebbe, almeno a livello di delibazione sommaria, un diritto dell’attrice alla contitolarità delle quote medesime. Infatti, ai sensi dell’art. 178 c.c. l’esistenza di tale diritto deve essere verificata non al momento (futuro) dello scioglimento della società, bensì al momento (passato) dello scioglimento della comunione legale.
In conclusione, sussistendo il periculum in mora per l’elevata conflittualità tra i coniugi, il giudice ha nominato il marito custode delle quote, obbligandolo alla rendicontazione e a chiedere la previa autorizzazione del Tribunale per l'adozione di tutte le decisioni eccedenti l’ordinaria amministrazione.

(Da Altalex del 15.1.2013. Nota di Giuseppina Mattiello)

Franco Gallo eletto presidente della Consulta ​

È Franco Gallo il nuovo presidente della Corte costituzionale. È stato eletto all'unanimità dai giudici, riuniti a palazzo della Consulta, con 14 voti a favore e una scheda bianca. A dare l'annuncio ufficiale dell'esito della votazione è stato il segretario generale della Corte costituzionale, Giuseppe Troccoli.
Su proposta del neopresidente Gallo, Luigi Mazzella è stato nominato vicepresidente vicario e Gaetano Silvestri vicepresidente. 
Gallo, 75 anni, romano di origine siciliana, è stato nominato giudice costituzionale il 16 settembre 2004 e dal 6 dicembre 2011 ha ricoperto a palazzo della Consulta il ruolo di vicepresidente. Il suo mandato alla presidenza della Corte costituzionale sarà breve, in quanto rimarrà in carica solo fino al settembre prossimo. Laureato in Giurisprudenza all'Università Sapienza di Roma e docente di Diritto tributario nell'ateneo romano Luiss, Gallo è stato ministro delle Finanze nel governo Ciampi negli anni 1993-'94 ed è membro dell'Accademia dei Lincei dal 2005.

 

Elezioni: più operai e meno avvocati

Le elezioni politiche del prossimo mese di febbraio genereranno una piccola rivoluzione nel Parlamento italiano.
Oltre a registrare con ogni probabilità un netto cambio della maggioranza, e quindi dell'indirizzo politico delle Camere, con il quasi certo ridimensionamento - dopo la schiacciante vittoria del 2008 - dello schieramento di centrodestra Pdl-Lega Nord, Palazzo Madama e Montecitorio vedranno cambiare le professioni, gli impieghi, i lavori di provenienza di senatori e deputati. Torna la sinistra, che dopo una legislatura sabbatica rientra nelle aule parlamentari con Sel di Nichi Vendola (in coalizione con il Pd), e riporta sugli scranni delle due aule parlamentari cittadini provenienti dal mondo del sindacato, dell'associazionismo, del volontariato, del mondo operaio e impiegatizio. Arriva prepotentemente la società civile, con da un lato Scelta Civica di Mario Monti (forza moderata alleata con Udc, Fli, Verso la Terza Repubblica di Montezemolo) con i suoi professori universitari e imprenditori; dall'altro Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia (e apparentata con l'Idv di Antonio Di Pietro) e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, espressioni diverse e più urlate sicuramente della formazione montiana ma che comunque immetteranno nelle stanze parlamentari rappresentanti di una società sempre più critica e polemica nei confronti di quella che viene definita la politica tradizionale. È banale dire che la composizione del prossimo Parlamento la si conoscerà all'indomani del 25 febbraio, a voti scrutinati. Anche perché solo allora si sapranno se alcune liste e coalizioni avranno superato lo sbarramento imposto dalla legge, solo allora si conosceranno quanti seggi scatteranno in base ai voti presi e quanti seggi verranno assegnati in base al calcolo dei resti. Ma con una certa sicurezza è possibile tracciare - grazie ai meccanismi della legge elettorale, che di fatto con le liste predisposte dai singoli partiti (anche se c'è chi ha fatto le primarie) produrrà Camere di nominati più che di eletti - una mappa, approssimativa certo ma di un qualche valore indicativo, della nuova composizione parlamentare sotto il profilo delle professioni e degli impieghi lavorativi. I primi dati che emergono dalla comparazione tra la composizione per professioni di Camera e Senato nel 2008 e quella a cui sembra tendere l'assetto del 2013 è quello relativo ai professori universitari, agli operai e ai giornalisti. All'avvio dell'attuale legislatura i docenti d'università erano complessivamente 74. Quelli nuovi dovrebbero essere in linea con il dato precedente se non in numero superiore. Il nuovo gruppo di professori sconterà probabilmente il ridimensionamento del Pdl, da sempre partito ricco di queste figure ma, nello stesso tempo, vedrà l'ingresso dei numerosi docenti universitari candidati da Monti. Altro dato di un certo rilievo è quello degli operai nel senso stretto del termine. In questa legislatura sono stati 4 mentre dalla prossima potrebbero essere un numero decisamente superiore. A questo momento, con dati parziali, con l'arrivo di Sel, di M5S, di Rivoluzione Civile e con la Lega Nord - che hanno il loro bacino elettorale anche fra le fasce più modeste della popolazione - il numero di operai in Parlamento potrebbe arrivare a 8. Al di là del clamore mediatico per l'ingresso in Aula di diverse firme di carta stampata e tv, spicca il calo del numero dei giornalisti, fra professionisti e pubblicisti. Gli uscenti, fra Palazzo Madama e Montecitorio, sono 90. Dalla prossima legislatura il numero sembrerebbe essere ridotto di un terzo. Altra professione in crisi, almeno dentro le aule parlamentari, è quella di avvocato. Nel 2008 ne sono stati eletti 130 mentre dal 25 febbraio lo squadrone di 'azzeccagarbugli' dovrebbe diminuire di alcune decine di unità. Sembra destinato a scendere anche il numero dei magistrati. Erano 17 nel 2008 ma secondo i primi calcoli ne dovrebbero essere di meno nella nuova legislatura. I Medici erano 54 tra Camera e Senato e la tendenza lascia prevedere che anche loro scenderanno di numero. Potrebbe invece mantenersi stabile il numero degli imprenditori. Ad oggi sono 112 e dai primi calcoli fatti la pattuglia dovrebbe mantenere la sua consistenza. Così come in linea, se non in leggero aumento, rispetto alla legislatura che si sta concludendo (sono 23) dovrebbero essere i sindacalisti. Costante sembra essere anche il numero dei funzionari di partito e di coloro che comunque hanno sviluppato la loro attività intorno all'impegno politico. Sono 57 oggi, la cifra non dovrebbe registrare oscillazioni particolari. Gli impiegati (intesi nel senso generale del termine, senza cioè mansioni particolari) sono stati invece 40 in questa legislatura e potrebbero aumentare con la prossima. L'arrivo in Parlamento di formazioni di sinistra e comunque di schieramenti che si propongono di intercettare i disagi della società e cavalcare i temi dell'ambiente, della pace, delle difficolta' degli emarginati, favorirà, dai primi calcoli, la presenza di figure come gli ambientalisti, i pacifisti, gli esperti di migrazione e di cooperazione, rappresentanti dell'associazionismo e di ONG e ONLUS. Non dovrebbero poi mancare alcuni blogger, dei fotografi, un agricoltore, un fisioterapista, un geologo, un documentarista, una educatrice, un manager sportivo, un ex allenatore di calcio, un enologo, una schermitrice. Senza dimenticare un'atleta paralimpica. Non mancheranno poi le altre professioni classiche: gli insegnanti (51 nel 2008, probabilmente leggermente sotto oggi), gli Ingegneri e gli architetti (anch'essi tendenzialmente in calo), i dirigenti pubblici e privati, i commercialisti. Un Parlamento insomma diverso dall'attuale con l'ingresso o l'incremento di professioni, lavori, impegni che poco hanno rappresentato negli anni passati il serbatoio per la 'pesca' di deputati e senatori. Un segno forse che anche dentro il Palazzo la politica sta cambiando.

(Da Mondoprofessionisti del 28.1.2013)

SCOMPARSO GIOVANNI SILIATO

Con incolpevole ritardo e sincera tristezza, apprendiamo della prematura dipartita, nei giorni scorsi, del collega Giovanni Siliato.
Originario di Giarre, l'Avv. Siliato aveva spostato la propria abitazione ed attività professionale in altra zona.
A causa di una brutta malattia, da tempo si era trasferito a Presa, frazione di Piedimonte Etneo, dove ieri si sono svolti i funerali.
Ai familiari le nostre più sentite condoglianze. 

lunedì 28 gennaio 2013

Parametri forensi: Consiglio di Stato boccia decreto correttivo

Consiglio di Stato, parere 22.1.2013 n° 161

Ma perché?

Occorre innanzitutto chiedersi il perché dopo appena quattro mesi circa dalla sua entrata in vigore il Ministero della giustizia abbia approvato uno schema – e non è l’unico considerato l’ulteriore bozza messa a punto di concerto tra i ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture in tema di compensi da porre a base delle gare di progettazione – di decreto ministeriale modificativo del precedente decreto 20 luglio 2012, n. 140 concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Il c.d. (odiato) decreto parametri, insomma.

Se la risposta è, e non può che essere questa, perchè il primo era stato fatto a capocchia sarebbe interessante comprendere chi abbia studiato e redatto il testo del primo decreto perché pensare che esso sia “uscito” dal Ministero della giustizia (vieppiù di un Governo tecnico) non può che far crollare ogni speranza che il sistema Giustizia in Italia possa migliorare.

Fin dall’inizio, infatti, il vituperato decreto ha denotato un’approssimazione, imprecisione ed iniquità tali da far sospettare che non potesse essere stato partorito dal Ministero della giustizia che dovrebbe, invece, essere perfettamente a conoscenza della materia e del settore e saper opportunamente regolare quanto demandatogli.

Eppure la giustificazione addotta dal Ministero a sostegno dell’opportunità del decretino correttivo è stata quella di dover superare alcune criticità emerse dal confronto con gli ordini professionali, con particolare riferimento all’ordine forense.

Si sarà trattato di confronti ex post, posto che non mi risulta ce ne siano stati prima della sua approvazione…

Mi viene da dire che se il confronto fosse stato cercato prima del blitz operato inizialmente dal Governo col succitato decreto legge (che ha abrogato le vecchie tariffe professionali e lo stesso sistema che portava alla loro approvazione) e poi col D.M. 140/2012 le criticità sarebbero state evitate poiché l’avvocatura le avrebbe certamente segnalate all’amministrazione competente.

Il “furore” verso le c.d. liberalizzazioni (di facciata) e i vari provvedimenti dai nomi positivi-evocativi-incitativi-punitivi-impositivi del tipo: “Salva Italia”, “Cresci Italia”, ecc… ha tuttavia forse impedito che ciò accadesse ed ora si corre frettolosamente ai ripari.

Lo stesso Consiglio di Stato non risparmia critiche al Ministero nella parte del suo parere in cui considera che:

Le ragioni di un nuovo intervento normativo a così breve distanza dall’entrata in vigore del D.M. non risultano del tutto chiare, anche perché nulla viene precisato con riferimento alle modalità con cui è avvenuto (o sta avvenendo) il confronto con gli ordini professionali, e in base a quali dati o elementi sono emerse le richiamate criticità.

Il Consiglio di Stato del resto aveva il dente avvelenato con l’ufficio legislativo del Ministero reo (come espressamente in più punti del parere evidenziato) di non aver recepito, nell’adottare il D.M. 20 luglio 2012 n. 140, diverse osservazioni del Consiglio di Stato senza nemmeno indicarne le ragioni.

Il Dicastero della giustizia insomma non ha interpellato gli avvocati (e forse nemmeno le altre categorie professionali regolamentate nel sistema ordinistico), non ha dato retta al Consiglio di Stato, ha tirato dritto per la sua strada e oggi è costretto a fare marcia indietro. Direi sia una gran brutta figura.

La cosa triste, che aggrava ulteriormente le critiche, è che stiamo parlando della mera regolamentazione delle tariffe degli avvocati, non dei massimi sistemi del diritto, ché allora potrebbe, al limite, avere tutto più senso.

Ma tant’è.

Lo schema di regolamentino modificativo si compone di tre articoli e due allegati: l’art. 1 contiene le modifiche al D.M. n. 140/2012; l’art. 2 richiama gli allegati che modificano le tabelle A e B relative agli avvocati, del citato decreto; l’art. 3 prevede una clausola sulla sua entrata in vigore.

La proposta modifica delle spese forfetarie (generali)

La prima modifica proposta col decretino riguarda l'art. 1, comma 2, del D.M. 140/2012 in materia di spese, attraverso la previsione che al compenso sia aggiunto un importo per quelle c.d. “spese forfettarie” che il professionista “inevitabilmente sopporta ma che, per la natura delle stesse, non può documentare o comunque provare precisamente (secondo la relazione, si tratta, tipicamente, delle spese relative alla gestione complessiva dello studio professionale)”.

Si tratta delle vecchie spese generali ex artt. 14 tabella A, 8 tabella B, 12 tabella C dell’abrogata tariffa (D.M. 127/2004).

Per tale voce sarebbe stato previsto dal Ministero un incremento del compenso liquidato, in misura compresa tra il 10 e il 20 per cento.

Da notare che la modifica riguarderebbe tutte le professioni, come risulta anche dalla sua collocazione sistematica, e non solo l’avvocatura.

Secondo il Consiglio di Stato la modifica proposta cozzerebbe col concetto di compenso omnicomprensivo previsto dall’art. 9, comma 4 penultimo periodo, del D.L. 1/2012 in base al quale la misura del compenso deve essere: “pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.

Il Consiglio di Stato, benché rimasto sul punto inascoltato dal Ministero, aveva già suggerito, nell’ambito della sua funzione consultiva, di modificare il comma 2 dell’art. 1 del D.M. 140/12 nel senso che il compenso è unitario e omnicomprensivo e comprende anche le spese, ferma restando la possibilità di indicarle in modo distinto come componente del compenso stesso.

Tenuto conto dell’indicato principio di onnicomprensività del compenso anche nel nuovo parere sul decretino viene mantenuto fermo tale punto di vista.

Non viene, infatti, ritenuto coerente con la richiamata norma primaria: “introdurre il rimborso delle spese forfettarie, che si aggiungono a quelle documentate, considerato anche che le spese relative alla gestione complessiva dello studio professionale, richiamate dall’Amministrazione nella relazione, devono ritenersi già incluse nel compenso e prese in considerazione ai fini della liquidazione dello stesso”.

Vieppiù in quanto la segnalata criticità si aggraverebbe: “con la proposta modifica, introducendo un livello di spese forfettarie in misura peraltro rilevante (di regola, tra il 10 e il 20 % del corrispettivo)”.

La proposta modifica del compenso per l’attività stragiudiziale

Per l'attività stragiudiziale degli avvocati il decretino prevedrebbe due modifiche.

La prima stabilisce che il compenso possa essere quantificato in una percentuale calcolata tra il 5 e il 20% del valore dell'affare, mentre ora, come noto, il D.M. 140/2012 stabilisce all’art. 3, commi 1 e 2, che si debba genericamente tener conto: “del valore e della natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione e delle ore complessive impiegate per la prestazione, valutate anche secondo il valore di mercato attribuito alle stesse”.

Secondo il Ministero la modifica proposta consentirebbe di evitare il ricorso al criterio del compenso orario, che non sarebbe risultato ancorabile (che gran scoperta! bastava rifletterci prima) a un parametro di riferimento sufficientemente certo in sede di vaglio giudiziale.

A tale proposta il Consiglio di Stato pur condividendo la ratio della modifica, oppone l’esigenza di non prevedere un minimo per il compenso, ma solo una misura massima, rilevando tuttavia come quella proposta appaia elevata.

La seconda modifica, che interesserebbe l'attività stragiudiziale, riguarda la mediazione di cui al decreto legislativo 28/2010 (proprio ora che quella obbligatoria è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza 272/2012!).

Grazie al decreto correttivo il compenso potrebbe infatti essere aumentato fino ad un terzo in favore dell'avvocato che assista una parte nel relativo procedimento.

A prescindere dall’esito dunque, mentre ora il comma 3 dell’art. 3 si limita a prevedere che: “Quando l'affare si conclude con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 40 per cento rispetto a quello altrimenti liquidabile a norma dei commi che precedono”.

E la maggiorazione è dunque attualmente ancorata al “successo” del tentativo di mediazione.

Secondo il Ministero la modifica proposta avrebbe la finalità di incentivare in modo significativo il ricorso assistito alla procedura di mediazione e, quindi, in un'ottica deflattiva, di ridurre l'instaurazione di procedimenti davanti all'organo giurisdizionale.

Il Consiglio di Stato nel suo parere obietta giustamente che sarebbe allora preferibile non far conseguire l’aumento del compenso solo in ragione dell’assistenza nel procedimento di mediazione, ma di farlo derivare dall’esito positivo del procedimento e dal contenuto dell’attività svolta dall’avvocato al fine di favorirlo (specie, se si vuole incentivare la finalità deflativa dell’istituto). Ciò al fine di premiare non l’assistenza ad una qualsiasi attività di mediazione, ma l’ausilio ad una mediazione coronata da buon esito, o comunque svolta dal professionista con proposte idonee a favorire il buon esito.

Il Consiglio suggerisce poi addirittura una sorte di penalizzazione per l’avvocato (sotto forma di diminuzione del compenso) in caso di assistenza nel procedimento di mediazione non rispondente a tali principi, anche ad es. con riguardo alla mancata accettazione di proposte, poi risultate coerenti con l’esito del giudizio.

La proposta introduzione della fase di studio per la fase esecutiva

Il Consiglio esprime parere negativo in ordine all’introduzione, nel settore civile, della voce “studio” per la fase esecutiva sia mobiliare sia immobiliare con valori corrispondenti al 35-50 per cento degli importi previsti nel D.M. 140/12.

Viene infatti sostenuto che siccome la fase esecutiva deve essere vista come un completamento per la realizzazione del bene della vita perseguito nel settore civile, amministrativo (comprensivo del contenzioso contabile) e tributario, e quale segmento terminale nel penale non vi sarebbe alcuna ragione per inserire all’interno di tale (unica) fase una voce “studio” che finirebbe per costituire una duplicazione della fase di studio già prevista con dignità autonoma.

È noto infatti che tra le varie fasi dell'attività giudiziale civile, amministrativa e tributaria previste dall’art. 4 del D.M. 140/2012, prima di quelle d’introduzione del procedimento, istruttoria, decisoria ed esecutiva, vi sia quella di studio della controversia.

Le proposte di modifica dei compensi per decreti ingiuntivi e precetti

Il Consiglio di Stato boccia l’incremento (in misura oscillante tra il 30% e il 50%, in modo logicamente regressivo) – proposto dal Ministero onde riferire anche a tali attività la componente di “studio” – dei valori “parametrici” previsti per il procedimento di ingiunzione e per il precetto.

Sostiene infatti, senza troppo motivare, che non vi siano le dedotte ragioni per aumentare i parametri numerici dei compensi per l’ingiunzione monitoria e per il precetto.

E dire che quanto ai precetti fin da subito era apparsa evidente l’assoluta inadeguatezza e iniquità degli importi previsti unita alla difficoltà di valorizzare in precetto alcune attività (richiesta copia titolo esecutivo, ritiro detto, ecc…) il cui compenso era stato dal contestato D.M. incluso solo nella (eventuale) fase esecutiva…

Le proposte di modifica condivise per l’attività giudiziale civile

Il Consiglio di Stato ha invece espresso parere favorevole ad alcune delle proposte di modifiche del decreto parametri.

La prima è quella avente ad oggetto la previsione di un aumento fino al triplo (in sostituzione dell’attuale doppio) del compenso spettante all'avvocato che difenda più persone con la medesima posizione processuale al fine di evitare l'incentivazione dell’instaurazione di più giudizi aventi identici petita e causae petendi per conseguire un maggior compenso sommando la liquidazione prevista per ciascun procedimento.

La seconda consiste nella “restaurazione” della differenza (difficilmente comprensibile) tra la difesa in ambito civile e quella ambito penale introdotta dal DPR n. 115/2002 (dove i compensi per la difesa nel procedimento civile dei soggetti sopra citati sono ridotti alla metà) in un'asserita ottica di “recupero della funzione sociale dello Stato, che si fa carico per intero di delicate difese di soggetti con insufficienti mezzi economici”.

In pratica viene approvata la proposta soppressione della possibile riduzione a metà del compenso (prevista dall'articolo 9 del D.M. n. 140/2012 - cause per l'indennizzo da irragionevole durata del processo e patrocinio a spese dello Stato) spettante all'avvocato che presti la sua assistenza nel procedimento penale in favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato nonché a soggetti a questi equiparati dal DPR n. 115/2002.

La terza proposta di modifica viene approvata benchè se ne suggerisca una modifica. Il nuovo comma 6 bis dell’art. 4 del D.M. disciplina la così detta “soccombenza qualificata” che prevede un significativo aumento del compenso liquidato a carico della parte soccombente quando le difese della parte vittoriosa siano risultate manifestamente fondate con lo scopo, non solo di scoraggiare pretestuose resistenze processuali, ma di premiare anche l'abilità tecnica dell'avvocato che sia riuscito a far emergere che la prestazione del suo assistito era chiaramente e pienamente fondata nonostante le difese avversarie.

Secondo il Consiglio di Stato tale previsione dovrà trovare applicazione in tutti i giudizi e non appare opportuno limitarla (come proposto dal Ministero) solo a quelli non contumaciali.

La quarta proposta concerne la soppressione del comma 9, dell’art. 1, del D.M. n. 140/2012, che richiamava l'applicazione dei criteri generali di cui all'art. 4, commi da 2 a 5, per la determinazione del compenso nelle controversie il cui valore supera euro 1.500.000 e l’introduzione di due ulteriori scaglioni: uno da euro 1.500.001 a euro 5.000.000, l'altro oltre euro 5.000.000.

Il Consiglio di Stato, pur concordando che la modifica rende più obiettivi i parametri di liquidazione dei compensi nelle controversie il cui valore supera euro 1.500.000, suggerisce di contenere nel quantum i parametri per i due nuovi scaglioni in ragione “delle esigenze di contenere la misura dei parametri di liquidazione”, già segnalate nel precedente parere allo schema del D.M. 140/2012, e poste in relazione alla crisi finanziaria in atto nel Paese.

In pratica gli avvocati dovrebbero essere chiamati a far la loro parte di sacrifici in nome della crisi… si sconosce, tuttavia, il fondamento giuridico e comunque logico di una tale valutazione.

Le proposte di modifica condivise per l’attività giudiziale penale

Anche per l’attività giudiziale penale il Consiglio di Stato approva alcune proposte di modifica.

La prima ad essere valutata positivamente è quella che consiste nella soppressione della possibilità di riduzione alla metà del compenso dell'avvocato che assista d'ufficio nei giudizi penali un minorenne (art. 12 comma 5 D.M. 140/12). Si ritiene infatti che ciò consenta di evitare che la difesa di soggetti deboli sia considerata di minore dignità, determini un minor impegno e non le sia attribuito quel riconoscimento che le è invece dovuto per la delicatezza dell’incarico.

La seconda è quella avente ad oggetto l’aggiunta alle altre di una nuova fase: quella dell’investigazione.

E ciò in quanto tale nuova autonoma fase valorizzerebbe: “un’attività particolarmente impegnativa e delicata, come quella investigativa appunto, che è stata introdotta al fine di porre su un piano paritario accusa e difesa nel giudizio penale”.

Osservazioni finali

Gli articoli 13, comma 6 e 1, comma 3 della L. 31 dicembre 2012, n. 247 (nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) prevedono che entro due anni dalla sua entrata in vigore (ed in seguito a cadenza biennale), con decreto del Ministro della giustizia, su proposta del Consiglio nazionale forense, dovranno essere approvati per gli avvocati dei nuovi parametri per la determinazione dei loro compensi.

L'odioso decreto parametri (fortunatamente) a prescindere dall’esito che avrà il decretino correttivo in commento è quindi destinato ad essere superato da un nuovo regolamento dei compensi professionali caratterizzato da un diverso procedimento d’adozione (consultazione del CNF).

I compensi degli avvocati torneranno, tra l’altro, ad essere regolamentati con un decreto ad hoc a differenza di quanto oggi previsto col vituperato D.M. 140/12 che è norma “condivisa” con altri professionisti liberali.

A tal fine prevede il comma 7 della nuova legge professionale forense che tra gli specifici criteri che devono guidare la formulazione dei nuovi parametri vi siano la trasparenza, l’unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali.

In attesa che il nostro CNF si faccia promotore dell’approvazione dei nuovi parametri per la determinazione del compenso degli avvocati ci auguriamo che ci si ricordi di aggiungere a tali criteri anche quello dell’adeguatezza della determinanda retribuzione all’importanza dell’incarico e al decoro della professione (art. 2233 c.c.).

Non paiono affatto valori superati, vieppiù in un’ottica di effettiva tutela del valore costituzionale del ruolo svolto dall’avvocatura (artt. 2, 3, 24-28, 111 Cost.) che non può e non deve più tollerare attacchi basati su infondate esigenze di liberalizzazione e rilancio dell’economia che paiono costituire meri e vuoti alibi per introdurre norme penalizzanti per un’intera categoria a vantaggio dei soliti noti...che peraltro non ne hanno affatto bisogno.


(Da Altalex del 23.1.2013. Nota di Andrea Bulgarelli)

domenica 27 gennaio 2013

Moglie hard in chat: non commette reato marito che collabora

Non ha alcuna valenza penale la condotta del marito che aiuta la moglie - in una attività svolta di "comune accordo", con "comune intraprendenza" - a gestire il traffico di immagini hard della consorte verso clienti contattati in chat che pagano foto, filmini e videochiamate, con ricariche telefoniche. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1164/2013.

Il caso. Un uomo si vedeva sequestrare dalla Procura di Sondrio i conti correnti e vari telefonini ritenendo che agevolasse la prostituzione della moglie. In particolare, il pm gli contestava di "aver attivato numerosissime utenze telefoniche sulle quali confluivano, sotto forma di ricariche telefoniche, i proventi di tale meretricio che si sostanziava nella realizzazione di immagini hard che venivano inviate a clienti individuati, anche grazie ad attività di ricerca effettuata dallo stesso, che aveva spinto i clienti a chattare con la moglie e a richiedere le predette immagini". Contro il sequestro, il marito ha proposto ricorso per cassazione facendo presente che lui e la moglie "sono in regime di comunione dei beni e sono cointestatari dei conti su cui confluivano i ricavi di una attività che la donna svolgeva in assoluta libertà, non essendo emersa alcuna prova di coartazione".

Il giudizio di legittimità. I supremi giudici non hanno potuto che dargli ragione, tant’è che affermano: "non é emersa nessuna forma di coazione o semplicemente induzione da parte del marito nei confronti della moglie, bensì esattamente il contrario, vale a dire una comune intraprendenza nell'avviare i contatti sulle chat-lines". In proposito, piazza Cavour osserva che dalle carte giudiziarie della vicenda risulta che "ciascuno dei coniugi, dopo aver attivato un nickname su una chat on-line, inviava messaggi con cui faceva intendere di essere una donna interessata a contattare uomini per scambiare foto e filmati a contenuto erotico-pornografico e per organizzare incontri; una volta ricontattati da persone presenti sulla chat-line, i due, all'inizio si limitavano a conversare, per poi esplicitamente richiedere ricariche telefoniche in cambio dell'invio di immagini e film hard". Alla Cassazione non è rimasto che prendere atto "senza ulteriori commenti, della lucrosa, ma non illecita (per lo meno non nei termini di favoreggiamento) attività posta in essere dall’uomo, di intesa e con la collaborazione della moglie".


(Da avvocati.it del 24.1.2013)

Mancato uso cinture di sicurezza e quantificazione danni

Chi non usa la cintura di sicurezza quanto è responsabile del danno che deriva dall’eventuale sinistro stradale?

Il caso

Nei casi in cui il mancato uso delle cinture di sicurezza sia stato una concausa del danno prodotto dal sinistro, in che percentuale è quantificabile la responsabilità di chi non le ha usate? Inoltre, a chi spetta provare che il danno non si sarebbe verificato (o avrebbe avuto conseguenze meno gravi) se l'interessato avesse usato le cinture di sicurezza?

La soluzione

L'accertamento dell'incidenza avuta dal mancato uso delle cinture di sicurezza sul danno dev'essere condotto in concreto, anche in relazione al tipo di danno occorso al conducente o al passeggero; il Tribunale di Cassino (sentenza del 15/6/2000), per esempio, ha quantificato questa incidenza in ragione del 20% nel caso di trauma craniofacciale, mentre il Giudice di pace di Catanzaro (sentenza del 4/10/2000) l'ha quantificata nel 30%,  il Giudice di pace di Brescia (sentenza del 12/7/1999) nel 25%, il Tribunale di Chieti (sentenza n. 21 del 12/1/2009) nel 50% e il Tribunale di La Spezia (sentenza del 30/3/2005) nella misura di un terzo a carico della passeggera che non aveva posizionato il neonato, rimasto vittima dell’incidente,  nell’apposito seggiolino. In tali ipotesi, ovviamente, il risarcimento viene  ridotto in proporzione al concorso di colpa del danneggiato.

Se una parte sostiene che il conducente di un veicolo (o un trasportato) non ha fatto uso delle cinture di sicurezza, rilevandone l'incidenza negativa perché se le avesse usate avrebbe evitato le lesioni o quanto meno  le avrebbe rese meno rilevanti o gravi, spetta alla medesima parte l'onere di tale prova (Giu. pa. Casamassima  2/4/1998).


(Da avvocati.it del 22.1.2013)

sabato 26 gennaio 2013

INAUGURATO L'ANNO GIUDIZIARIO A CATANIA

Con l'esecuzione dell'Inno di Mameli, stamane alle 9,15 ha avuto inizio, nell'androne del Palazzo di Giustizia di Catania, la cerimonia di inaugurazione dell'Anno Giudiziario.
Alla presenza di autorità istituzionali, militari e religiose (ma anche dei dirigenti dell'AGA!), il presidente del distretto di Corte d'Appello Alfio Scuto ha letto la propria relazione, evidenziando luci ed ombre della Giustizia catanese nell'anno trascorso, non mancando di sottolineare i buoni risultati raggiunti sul piano dell'informatizzazione da un lato, e le ben note problematiche d'ordine logistico legate alla prospettata soppressione delle sezioni distaccate del Tribunale. 
Numerosi gli interventi successivi: il Procuratore generale Tinebra, rappresentanti del CSM, del Consiglio Giudiziario, del Governo e di associazioni.
Molto interessante l'intervento del Presidente del Consiglio dell'Ordine Avvocati di Catania Maurizio Magnano di San Lio, il quale si è soffermato sull'anno impegnativo per l'Avvocatura (dalla battaglia contro la mediazione obbligatoria a quelle contro l'aumento del contributo unificato, contro la soppressione delle sezioni staccate e la riduzione dei magistrati), culminato con l'approvazione della riforma forense. 
Tra gli ultimi interventi -per noi molto importante-, l'Avv. Salvatore Asero di Paternò ha chiesto, a nome di tutte le associazioni forensi territoriali, la proroga di cinque anni che la legge prevede prima della chiusura dei cosiddetti "tribunalini". 
Nella speranza che le sue parole salgano in Cielo...