mercoledì 22 gennaio 2014

No censura se querela collega per conto del cliente

Così hanno stabilito le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di cassazione, le quali con sentenza n. 1002 del 20 gennaio 2014, hanno accolto il ricorso di un legale, incorso nella sanzione della censura, a seguito di una presunta violazione dell’art. 22 del codice deontologico.
Nella fattispecie il legale aveva proposto ricorso avverso la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati territorialmente competente, con cui le veniva irrogata la sanzione disciplinare della censura per aver presentato, nell’interesse di un proprio assistito, una querela nei confronti del primo difensore senza aver adeguatamente esaminato la fondatezza delle accuse rivolte al collega e senza avere tempestivamente informato di tale iniziativa il Consiglio dell’Ordine competente. L’atto di querela era stato, in ogni caso, materialmente presentato da un collega di studio.
In particolare, con l’atto di querela si contestava al primo difensore di essere venuto meno ai propri doveri professionali per non aver adeguatamente assistito il proprio cliente nel corso di un giudizio civile da questi intentato nei confronti dei suoi coeredi a seguito della morte del loro dante causa. Il legale, nello specifico, veniva accusato di non aver informato il proprio cliente in merito alla attività svolta dal proprio consulente di parte nell’ambito delle operazioni peritali disposte dal giudice, conclusesi con esito sfavorevole per il cliente.
Con la sentenza in oggetto, i giudici di piazza Cavour hanno accolto le motivazioni di ricorso avanzate dall’avvocato censurato, sostenendo che “contrariamente a quanto statuito in sede di condanna disciplinare, l’avvocato censurato non ha mai presentato personalmente alcun atto di denuncia-querela nei confronti del collega né sotto il profilo formale (la presentazione era avvenuta da parte di altro legale) né sotto il profilo sostanziale (nel contenuto veniva riportata la volontà del soggetto querelante, ossia dell’assistito, unico sottoscrittore dell’atto). Il legale si era limitato solo alla autentica della sottoscrizione come richiesto dal disposto normativo del codice di rito penale.
“Infine, – hanno continuato, tra l’altro, gli Ermellini – la norma deontologica non imponeva né impone una valutazione fattuale improntata ad un ben maggiore approfondimento dovendo agire contro i colleghi. Tale singolare affermazione appare, difatti, in contrasto con elementari principi costituzionali, oltre che foriera di una sorta di impredicabile “riguardo di categoria” imposta all’esercente la professione forense in guisa di lex specialis ex non scripto dal massimo organo disciplinare”.

Biancamaria Consales (da diritto.it del 22.1.2014)