sabato 18 gennaio 2014

LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE OUA, NICOLA MARINO

Diamo voce alla gente che soffre, al Paese che soffre!

La giustizia italiana è in uno stato di perenne emergenza, la professione di avvocato in una crisi profonda e i partiti, chiusi nei Palazzi della Politica, sono complici di questa grave situazione. Questo il quadro con cui si confronta l’VIII Conferenza Nazionale dell’Avvocatura, durante la quale cercheremo di fare un’analisi della società italiana, delle profonde trasformazioni del tessuto economico del Paese e del ruolo e dei problemi, appunto, della professione forense. Un’avvocatura, che anche sulla scorta di elementi di autocritica, si propone ancora oggi come ceto intellettuale, con forti radici nei valori liberali, con l’auspicio di poter continuare ad essere in futuro protagonista delle necessarie riforme, per un effettivo cambiamento della nostra malandata democrazia. In Italia con una “Giustizia Umiliata” e con i “diritti” ridotti a “privilegi”, come recita il titolo stesso dell’assise, assistiamo a un costante deterioramento delle garanzie costituzionali e dello stesso Stato di diritto. La strada che ha portato a questo status quo è lastricata da un decennio di cattive leggi, da un’assenza costante di confronto con l’avvocatura, da un pericoloso, ma permanente ricorso alla decretazione di urgenza e alla marginalizzazione del Parlamento e del ruolo di deputati e senatori, come rappresentanti dei cittadini e dei territori. Desidero, pertanto, introdurre la mia riflessione partendo dalle parole di un Avvocato che fa parte della storia del diritto e della Giustizia italiana:

“Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore.

Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce.

L’avvocatura è una professione di comprensione, dedizione e carità”

(L’Avvocato - di Piero Calamandrei)

Le autorevoli e intramontabili parole di Piero Calamandrei, padre fondatore del nostro codice di procedura civile, senza dubbio tra i più illustri giuristi del secolo scorso, impongono una prima importante riflessione, ad apertura di questa VIII Conferenza dell’Avvocatura: contrariamente alle tendenze politico-sociali degli ultimi anni, che cercano di svilire progressivamente il ruolo dell’Avvocatura nella società moderna, occorre ribadire subito che per essere un buon avvocato è necessario essere preparati, capaci ed efficienti, ma non basta.  Diversamente dalle altre professioni, infatti, la scelta di esercitare l’avvocatura comporta l’assunzione di un vero e proprio impegno sociale, per il perseguimento del quale sono richieste doti umane che non si possono improvvisare e per le quali bisogna essere, in certo senso, intimamente predisposti. Del resto, le testimonianze dell’impegno sociale dell’Avvocatura italiana nella costruzione dell’attuale Stato di diritto sono numerosissime, a partire dal contributo dato dagli avvocati padri fondatori della Costituzione, primo tra tutti Enrico De Nicola, avvocato, padre costituente, primo Presidente della Repubblica Italiana, per continuare con la fondazione ad opera di altri illustri nomi dell’Avvocatura del nuovo diritto civile e commerciale, del nuovo diritto penale, amministrativo e del nuovo diritto del lavoro e sindacale. Il contributo qualificato degli avvocati e degli accademici durante la costruzione dello Stato italiano, era considerato talmente tanto determinante che costoro, in virtù del proprio titolo, appartenevano automaticamente all’élite culturale e politica dell’epoca. La forza e la nobiltà dell’Avvocatura, infatti, da sempre sono state legate alla sua principale funzione di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della legalità, ragion per cui la considerazione sociale nutrita nei confronti della nostra categoria è sempre stata storicamente altissima. Non a caso lo stesso termine “onorario”, riferito al compenso dovuto all’avvocato per la propria prestazione professionale, affonda le radici nel concetto di “onore della tutela”, che il professionista assume nei confronti del cliente. Tuttavia, a fronte del ruolo di grande rilievo ricoperto in passato dalla figura dell’avvocato, negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un progressivo declassamento della categoria forense, direttamente collegato anche all’abnorme aumento del numero di avvocati ed alla inevitabile dequalificazione generale dell’intera categoria, che tale fenomeno ha comportato. È necessario che gli avvocati abbiano come riferimento lo spirito che nel secondo dopo guerra spinse gli italiani a rinascere, dimostrando di avere dignità e voglia di emergere con il sacrificio e la devozione alla professione, a servizio dei cittadini e delle imprese, che mai come in questi anni di enormi difficoltà hanno bisogno di competenza e preparazione per risolvere i gravi problemi che li assillano. La crisi in cui versa attualmente l’Avvocatura non può, infatti, semplicisticamente essere attribuita alla crisi economico-finanziaria che si è abbattuta negli ultimi anni su buona parte dei Paesi occidentali: la parabola discendente per l’Avvocatura, piuttosto, è cominciata quando l’attività professionale è stata assimilata alle comuni attività imprenditoriali, nella convinzione che le regole del libero mercato concorrenziale potessero applicarsi anche alle professioni intellettuali ed in particolare alla professione forense che coinvolge, più di ogni altra, tutta una serie di interessi e di diritti costituzionalmente garantiti, che richiedono per la loro tutela la predisposizione di regole ad hoc. La liberalizzazione selvaggia delle professioni intellettuali, accompagnata da una grave perdita di prestigio dell’Avvocatura registrata presso i cittadini, ha segnato indelebilmente una certa sfiducia nel ceto forense, sensibilmente aggravata anche dalla lentezza della Giustizia Italiana, tanto in ambito penale che civile. Per i tempi di quest’ultima, è da escludere che il prolungarsi del giudizio sia addebitabile all’avvocato, essendo pura fantasia la storia che l’onorario aumenti in maniera direttamente proporzionale al protrarsi della causa. È vero piuttosto il contrario: soltanto con la conclusione della vertenza, l’avvocato riesce ad ottenere il compenso per l’attività professionale, e non sempre! Non è facile offrire una ricetta che possa essere considerata quale vademecum per la risoluzione delle annose questioni che stritolano l'amministrazione della giustizia. E mentre tutto tende a realizzare correttivi adeguati, troppo spesso , per incapacità ed incultura, non ci si rende conto di alimentare una giustizia che viene percepita dai cittadini come profondamente ingiusta. Al fine di evitare fraintendimenti e vuote speculazioni di maniera, tese a creare stucchevoli ed inadeguate correnti di pensiero, la cui unica cifra è l'arroccamento arrogante di fazioni che si contrappongono, ritengo sia doveroso analizzare i temi oggetto delle tavole rotonde della nostra conferenza. Per operare correttamente (anche al fine di evitare di esautorare argomenti ed offrire anticipatamente soluzioni), credo sia opportuno soltanto sollevare una serie di interrogativi che spero saranno recuperati da parte degli illustrissimi relatori, divenendo oggetto di confronto dialettico. Uno dei temi essenziali dell'Avvocatura è riconducibile al problema relativo alla corretta gestione della giustizia civile. Col titolo della tavola rotonda abbiamo inteso fotografare una realtà che annulla, purtroppo, le conquiste centenarie del diritto. Del resto, che cosa rappresenta il diritto? Un insieme di regole tese a garantire la pacifica convivenza sociale e civile. Credo di non essere lontano dal vero, se affermo che il diritto rappresenta lo strenuo baluardo della difesa delle aspettative dei cittadini ed è la base per la realizzazione dell'eguaglianza sostanziale. È evidente, che quando faccio tali affermazioni, le stesse sono afferenti ad un sistema democratico in cui la norma è il principio di difesa dei più deboli. A questo punto, quindi, la domanda da porsi rispetto alla attualità è la seguente :“la giustizia per come è concepita oggi, è un diritto od un privilegio?”. Tutti i correttivi o presunti tali, tutte le innovazioni che sono state proposte a livello legislativo, sono realmente confacenti ad una giustizia che non sia privilegio? Credo che in quest'ottica ci si debba interrogare, rispetto al tema essenziale dell'amministrazione della giustizia e cioè: "la temporalità"! Un sistema non è giusto, quando per riconoscere un diritto offre una risposta a distanza di decenni. Un sistema non è giusto, quando i costi di un procedimento sono superiori all'eventuale beneficio, che la parte riceverà dal risultato positivo del processo che la vede protagonista. Un sistema non è giusto, quando e fino a quando si tenti e si tenda a delegittimare l'Avvocatura sulla base di uno sconsiderato e falso imperativo categorico, secondo cui i problemi della giustizia si possono risolvere bypassando la figura dell'avvocato. Da qui deriva e riparte una legittima considerazione, che pone un ulteriore importante interrogativo: “perché sembra che le ultime riforme siano orientate a colpire gli avvocati e non, invece, ad affrontare seriamente i problemi di gestione della giustizia?”. Rispondendo correttamente a tali quesiti, forse, inizieremo a porci nella giusta ottica, per tentare di risolvere i problemi che ci assillano. Problemi che alla fine, se pur affrontati separatamente nella attuale conferenza, sono legati da un unico comune denominatore, che ne rappresenta la vera essenza. Un unico comune denominatore, individuabile nel sostanziale disagio dei cittadini e delle imprese.  Il disagio rappresentato da quel senso di frustrazione ed abbandono che pervade le persone nel momento in cui avvertono la distanza dello Stato, rispetto alla propria legittima aspirazione a veder riconosciuti i propri diritti. In tal senso ed in quest'ottica, va affrontato il tema della giustizia penale, che si interfaccia col diritto sacro ed inviolabile della libertà. Molto spesso le prove raccolte sono suggestive e finiscono per vanificarsi in sede dibattimentale ovvero determinano l’emissione di Sentenze contraddittorie, che a volte fanno ritornare il caso al punto di partenza, con la conseguenza che sia le vittime sia l’imputato-presunto innocente crollino psicologicamente, coinvolgendo anche familiari e affini, logorati ed estenuati dalla liturgia processuale. Un limite a tale anomalia è paradossalmente rappresentato dall’istituto della prescrizione, che risale al diritto Romano e si fonda su ragioni di certezza giuridica oltre che di civiltà, al fine di porre un freno ai poteri pubblici, potenzialmente in grado di tenere imputati e vittime in un’attesa infinita. Quante volte in questi anni abbiamo assistito ad una gestione anche mass mediatica, in cui sono stati calpestati i più elementari diritti ed il rispetto della dignità umana? Quante volte sono stati sbattuti in prima pagina mostri costruiti a tavolino e demolite persone, che dopo l'amaro calice di un processo ingiusto e dopo un'assoluzione, non sono mai state adeguatamente riabilitate all'occhio dell'opinione pubblica? Quante volte in questi anni ci siamo sentiti osservati e spiati da un sistema di intercettazioni, inadeguato ed abusato nell'utilizzo? Quante volte abbiamo assistito silenti ad ascese straordinarie, create ad arte sulla base di processi eufemisticamente definibili fantasiosi ed il cui l'unico risultato è stato quello di assicurare carriere politiche, a soggetti che forse non lo meritavano? Quante volte e per quanto tempo, mentre da un lato ci riempivamo la bocca col concetto di risocializzazione del reo e di rieducazione della pena, dall'altro accettavamo un  sistema in cui il carcere è abbrutimento e troppo spesso diviene il luogo in cui un soggetto si sente privato della propria umanità? La ulteriore domanda, quindi, da porsi è: "se veramente tutto questo è  accaduto(ed è accaduto) , non abbiamo, forse, il dovere di denunciare un tale evidente fallimento? Ecco parchè questa conferenza ambisce a porsi come la pietra da cui ripartire, per ricostruire tutti insieme un sistema senza privilegi e privilegiati. Dove ognuno attende al proprio ruolo, nella consapevolezza che solo remando nella stessa direzione riusciremo a rinsaldare il contratto sociale e lo stato, passando attraverso una buona amministrazione della giustizia. Una giustizia in cui i ruoli siano chiari e definiti. Una giustizia in cui il cittadino risulta al centro, l'avvocato rappresenta la difesa dei diritti ed il giudice la amministra attraverso l’applicazione delle regole. Siamo stanchi, infatti, di verificare che troppo spesso negli ultimi anni, alcuni giudici abbiano immaginato di svolgere una funzione salvifica, ergendosi a giudici etici. Tanto non può e non deve avvenire, in quanto ai giudici non è dato censurare i costumi, ma applicare le norme del diritto! Ed è con questo spirito che dobbiamo perorare un sistema in cui sia garantito, anche e soprattutto ai più giovani che si avvicinano a questa straordinaria professione, la possibilità di veder riconosciuto ed assicurato un percorso formativo di alto livello qualitativo. In questo senso si dovrà immaginare un percorso, in cui sin dall'università si debbano acquisire strumenti di elevata caratura e preparazione per il futuro esercizio della professione forense. Per realizzare tutto questo, bisogna che l'avvocatura faccia vibrare le corde della propria passione e si riproponga fortemente quale classe dirigente, di un paese che ha sempre onorato col proprio sacrificio e con la propria storia. Un'avvocatura che, rispetto alla insipienza di politici troppo spesso inadeguati ed impreparati, non accetti supinamente riforme quali quelle dell'ordinamento giudiziario, in cui la cifra non è il contenimento dei costi e l'interesse dei cittadini, bensì, il mantenimento di rendite parassitarie riconducibili a novelli feudatari, che ricercano la propria sopravvivenza in partiti politici superati ed inadeguati. Per questo motivo, oggi, abbiamo il dovere di cogliere una opportunità irripetibile, offertaci dalla previsione dell'art. 39 della Legge professionale. Abbiamo la possibilità, abbandonando la logica delle divisioni, di intraprendere la strada di un'avvocatura forte e coesa. Un'avvocatura in cui tutte le associazioni costituiscano una risorsa in un percorso che, attraverso il ruolo centrale dell'Oua , esprima una posizione unica. Per troppi anni, hanno parcellizzato le nostre istanze rendendole meno forti. È arrivato, dunque, il momento di parlare attraverso una voce sola! Abbandoniamo le logiche divisive ed intraprendiamo una battaglia che non sia, finalmente, di retroguardia, ma che ci ponga al centro del dibattito culturale e sociale del paese. Tutto questo, per affermare e rivendicare che le riforme vanno fatte parlando con la gente, vivendo i territori e non restando colpevolmente seduti dietro scrivanie di cui non si conosce il valore, perché non guadagnate col sacrificio. Diamo voce alla gente che soffre, al paese che soffre! Ed anche se tutto, in questi ultimi anni sembra sfiorire ed appassire, io continuo a coltivare una speranza ed ad inseguire un sogno. Continuo ad immaginare che possa esistere una risposta positiva rispetto alla legittima domanda: "Quale giustizia senza diritti?" La mia risposta è semplice e breve: "la giustizia è diritto, e sino a quando ci sarà un uomo, un cittadino, un avvocato pronto a battersi per la tutela di un altrui diritto, avremo la certezza di vivere in un tempo in cui lo stato non è ordine, ma società".


(Da Mondoprofessionisti del 17.1.2014)