giovedì 24 marzo 2011

Avvocato: i limiti al dovere di collaborazione con il Consiglio dell’Ordine

 Cass. Civ. SS.UU., sentenza 28.2.2011 n. 4773

L’art. 24 del Codice Deontologico Forense impone all’avvocato il dovere di collaborazione con il Consiglio dell’Ordine di appartenenza o con altro che ne faccia richiesta, al fine del perseguimento delle finalità istituzionali, in ossequio al dovere di verità.
L’apporto collaborativo del professionista, secondo il tenore letterale dell’art. 24, consiste nel dovere di riferire fatti a sua conoscenza relativi all’ambito della vita forense ed a quello più generale dell’amministrazione della giustizia, laddove si renda necessario attuare iniziative o interventi collegiali.
La tutela delle finalità istituzionali dei Consigli dell’Ordine impone quindi all’avvocato, parte attiva nelle dinamiche istituzionali del sistema, un generale obbligo di collaborazione consistente nel dovere di esporre agli organi richiedenti tutte quelle circostanze in sua conoscenza utili alla attuazione delle finalità istituzionali stesse.
La norma, nel modulare poi le conseguenze disciplinari scaturenti dall’inottemperanza al descritto dovere di collaborazione, prevede misure diverse a seconda che la condotta consistente nel mancato apporto collaborativo del professionista, rimasto inerte alle istanze del Consiglio dell’Ordine richiedente, si verifichi nell’ambito di un procedimento disciplinare attivato nei suoi confronti o, diversamente, nell’ambito di un procedimento iniziato nei confronti di un altro iscritto.
Difatti il primo capoverso dell’art. 24, disciplinante le implicazioni della mancata reazione dell’iscritto agli addebiti mossi nei suoi confronti, dispone: “Nell’ambito di un procedimento disciplinare, la mancata risposta dell’iscritto agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non costituisce autonomo illecito disciplinare, pur potendo tali comportamenti essere valutati dall’organo giudicante nella formazione del proprio libero convincimento”.
Il dato letterale della norma è chiaro nel non ricollegare autonome conseguenze disciplinari alla mancata reazione difensiva del professionista nell’ambito di un procedimento disciplinare già attivato nei suoi confronti, salva la possibilità di valutazione di tale contegno da parte dell’organo giudicante nella formazione del proprio convincimento.
Di diverso tenore il secondo capoverso dell’art. 24, che, al contrario, configura l’illecito disciplinare nell’ipotesi in cui il l’avvocato non fornisca al Consigli dell’Ordine richiedente “chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione ad un esposto presentato da una parte o da un collega tendente ad ottenere notizie o adempimenti nell’interesse dello stesso reclamante”.
Tale ultima disposizione sembra riguardare un contegno omissivo consistente nel mancato apporto collaborativo del professionista nell’ambito di un procedimento - attivato da una parte o da un altro iscritto - non avente ad oggetto la sua eventuale responsabilità disciplinare.
La questione posta al vaglio della Corte di Cassazione
La Suprema Corte viene investita della questione relativa all’ambito soggettivo ed oggettivo di operatività del secondo capoverso dell’art. 24 del Codice deontologico, laddove esso, come anzidetto, configura un illecito disciplinare derivante dalla mancata collaborazione del professionista in relazione ad un esposto prospettante addebiti disciplinari presentato da una parte o da un collega.
Gli ermellini si pronunciano sulla configurabilità del descritto illecito disciplinare nell’ipotesi particolare in cui il fatto del mancato apporto collaborativo del professionista, consistente nel non fornire chiarimenti, notizie o adempimenti, si riferisca ad un esposto presentato nei confronti di lui stesso e sia attinente a fatti in cui sia ravvisabile un illecito disciplinare.
La posizione del Consiglio Nazionale Forense
Il Consiglio dell’Ordine ritiene che l’ambito oggettivo di applicazione del secondo capoverso dell’art. 24 corrisponda ad una fase preliminare del procedimento disciplinare, nella quale l’avvocato, a nulla rilevando che l’esposto sia mosso nei suoi stessi confronti, ha “l’obbligo (oltre al diritto) di chiarire il suo comportamento nei confronti dei reclamante, e dall’altro ha il dovere di fornire al Consiglio, investito con l’esposto del dovere di valutare la sussistenza delle condizioni per aprire un procedimento, elementi che consentano ad esso il pieno e corretto esercizio delle sue funzioni istituzionali che tutelano prioritariamente un interesse pubblico”. L’ambito soggettivo di applicazione della norma ricomprenderebbe quindi anche l’avvocato rimasto inerte nell’ipotesi di addebiti mossi nei suoi stessi confronti, con conseguente configurabilità a suo carico dell’illecito disciplinare ivi previsto.
La tesi della Suprema Corte
La Corte di Cassazione confuta le argomentazioni del Consiglio Nazionale Forense, enunciando il seguente principio di diritto: “Non costituisce l’illecito disciplinare sanzionato dal secondo capoverso dell’art. 24 del codice deontologico forense la mancata risposta dell’avvocato alla richiesta del Consiglio dell’ordine di chiarimenti, notizie o adempimenti in relazione a un esposto presentato, per fatti disciplinarmente rilevanti, nei confronti dello stesso iscritto”.
Invero, secondo l’opinione dei giudici di Piazza Cavour, ai sensi dell’art. 47 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 non sussiste alcuna fase predibattimentale del procedimento disciplinare, dovendosi ritenere inclusi nell’ambito dei “procedimenti disciplinari che siano stati iniziati” il momento della raccolta delle “opportune informazioni”, dei “documenti... necessari” e delle “deduzioni che... pervengano dall’incolpato e dal pubblico ministero”.
Non costituendo la istruzione predibattimentale una fase precedente ed esterna al procedimento disciplinare, laddove in essa vengano prospettate responsabilità disciplinari in capo ad un iscritto, deve ritenersi operante “la regola, basilare del diritto processuale in ogni campo, del nemo tenetur contra se edere, che è espressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito e prevale quindi sull’esigenza del “pieno e corretto esercizio delle... funzioni istituzionali” dei Consigli degli ordini degli avvocati.
Deve quindi ritenersi che il secondo capoverso dell’art. 24 del Codice Deontologico Forense va interpretato - come il suo tenore testuale consente – “nel senso che sanziona la mancata risposta dell’avvocato alla richiesta del Consiglio dell’ordine relativa a un esposto presentato nei confronti di un altro iscritto” e non nei suoi stessi confronti.

(Da Altalex del 9.3.2011. Nota di Filippo Di Camillo – cfr. AGANews del 3.3.2011)