martedì 16 novembre 2010

L'effettività dell'esercizio dell'azione penale e i rimedi contro i casi d'inerzia


di Amedeo Ciuffetelli – Giunta nazionale AIGA, coordinatore Centro

Nel sistema attuale gli strumenti normativi introdotti a tutela dell’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale si scontrano con le difficoltà della loro concreta attuazione. Ne discende che, quello che sulla carta è un valore garantito dalla Costituzione, nella realtà non trova attuazione. Numerose, in effetti, sono le norme che vengono eluse. La sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti oltre la scadenza dei termini, grazie all’escamotage del ritardo dell’iscrizione al registro delle notizie di reato, prassi addirittura difesa dalla Suprema Corte di Cassazione, degrada da “garanzia” a “mero precetto” il termine di durata massima delle indagini preliminari. L’introduzione del “registro delle notizie non costituenti reato” consente di fatto alle procure di “cestinare” senza indagine alcuna, o possibilità di controllo, un assai rilevante numero di notizie di reato. La recente introduzione del potere di verifica del corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale, conferito ai Procuratori Generali della Repubblica dall’art. 6 del D. Lvo 106/06,  seppure prevede la possibilità di una generica attività vigilanza sull’operato dei Procuratori territoriali, resta lettera morta nella misura in cui non specifica quali siano i precipui poteri di controllo e non prevede l’applicazione di sanzioni nei casi di conclamata inerzia. Anche l’istituto dell’avocazione delle indagini, a causa della sua attuale strutturazione, è assai scarsamente utilizzato. A mero titolo di esempio, il termine di 30 giorni concesso alle procure generali per l’esecuzione delle indagini omesse dalle procure territoriali, termine entro il quale andrebbero anche assunte le determinazioni in materia di esercizio dell’azione penale, appare assolutamente incongruo, atteso che, allo stato, gli uffici delle procure generali non sono strutturate come un vero e proprio organo inquirente. L’analisi che precede porta senza dubbio a considerare come l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, lungi dal costituire principio effettivo e garantito, è rimessa troppo spesso alla discrezionalità del magistrato. A parere di chi scrive, pertanto, fermo restando il dettato di cui all’art. 112 della Costituzione, appare orami improrogabile una rivisitazione delle norme poste a tutela della durata della fase delle indagini. Tale obbiettivo deve essere perseguito attraverso l’individuazione di precisi limiti e criteri per l’iscrizione del nome dell’indagato nell’apposito registro, attraverso la fissazione di sanzioni in caso di inerzia e/o inazione del pubblico ministero nei termini prefissati, nonché attraverso la riforma dell’istituto della avocazione delle indagini. Nell’ottica, poi, di una maggiore professionalizzazione e specializzazione della magistratura inquirente, appare utile la proposta finalizzata ad ottenere la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e inquirenti a condizione, però, che sia garantita l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Non sembra, di contro, perseguibile la strada di chi proponga di affidare alla polizia giudiziaria i poteri investigativi, sganciandoli dalla direzione e dal coordinamento del pubblico ministero, in quanto tale soluzione rischia di pregiudicare il corretto equilibrio tra i poteri dello Stato. Tale auspicabile percorso, però, non può prescindere da una coraggiosa rivisitazione dei rapporti tra dirigenti degli uffici delle procure e sostituti, con la previsione di precisi obblighi di controllo e l’introduzione di un adeguato ed effettivo sistema sanzionatorio e, non ultimo, dall’adeguamento dellenorme in materia di responsabilità civile dei magistrati. Al fine di perseguire l’obiettivo di offrire una effettiva tutela al cittadino in presenza di un pregiudizio derivante da una cattiva amministrazione della giustizia è, infatti, necessario che il anche giudice venga chiamato a rispondere dei propri errori e delle proprie omissioni con criteri uguali a quelli che valgono per tutti gli altri operatori della giustizia.

(Da Mondoprofessionisti n. 200 del 16.11.2010)