mercoledì 5 marzo 2014

Il “tempo tuta” deve essere retribuito

Cass. Sez. Lavoro, Sent. 7.2.2014, n. 2837

Fa parte dell’orario di lavoro il tempo impiegato per mettere e dismettere gli indumenti necessari per lo svolgimento delle mansioni lavorative. Lo ha stabilito una recente sentenza della Cassazione su ricorso presentato da un lavoratore impiegato in un’industria alimentare, addetto alla lavorazione di gelati e surgelati.

Nel caso di specie, il ricorrente chiedeva all’autorità giudiziaria di attribuire al tempo necessario per eseguire le operazioni di vestimento e di dismissione degli abiti, richiesti dalle norme igienico-sanitarie, natura lavorativa e dunque di imputarlo nella retribuzione.

Il dipendente, per la particolarità delle mansioni svolte, era costretto ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche, copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda. Tale operazione richiedeva dai 15 ai 20 minuti che costringevano il lavoratore a presentarsi sul luogo di lavoro in anticipo rispetto all’orario di inizio dell’attività. La medesima operazione si svolgeva alla fine della giornata lavorativa.

Il giudice della Corte d’Appello, riformando la sentenza del giudice di prima istanza, il quale aveva rigettato il ricorso, ha accolto le richieste del lavoratore, condannando l’azienda a retribuire il tempo necessario per svolgere le suddette attività preparatorie alle mansioni ordinarie.

L’impresa datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che le operazioni di vestimento, come le conseguenti operazioni di dismissione degli abiti, sono richieste da norme imperative di legge, sottratte al potere datoriale e, dunque, da questo non dipendenti. Inoltre, il CCNL applicato ai dipendenti dell’azienda non fa alcun riferimento al “tempo tuta” ai fini della definizione della retribuzione e dei riposi individuali.

I giudici di legittimità hanno confermato la sentenza impugnata statuendo che “per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera, e ciò consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 comma 2 cod. civ.) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva”.

In conclusione, “in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n.692, art. 3, in base al quale è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”, il tempo necessario per indossare la divisa fa parte dell’orario lavorativo perché attività strettamente necessaria e obbligatoria per lo svolgimento delle mansioni lavorative.

La Suprema Corte ha, dunque, definito la disciplina di un fenomeno, che è quello del “tempo tuta”, in genere poco presente nei contratti di lavoro sia individuali sia di categoria e dato una più precisa definizione di orario di lavoro ai fini della retribuzione.


Lorenzo Pispero (da filodiritto.com)