lunedì 15 aprile 2013

Pausa caffè? Si rischia il licenziamento

Cass. Civ., sez. lavoro, sent. 28.3.2013 n° 7819

Una cosa è certa: il caffè gli sarà andato sicuramente per traverso.
Trattiamo oggi dell’avvincente avventura processuale di un cassiere di banca che, a detta della Cassazione, avendone combinate di tutti i colori, veniva licenziato.
La banca contestava al cassiere quattro episodi denotati, a suo avviso, da gravità tale da costituire giusta causa di licenziamento: il 10 ed il 20 novembre il cassiere avrebbe rifiutato di eseguire un’operazione chiesta da un cliente allo sportello nonostante detta operazione fosse esplicata in una pubblicazione interna destinata ai dipendenti; il 26 novembre si sarebbe allontanato dalla propria postazione senza preventiva chiusura della cassa e registrazione dell’operazione in corso creando un pericolo per il denaro incustodito e un rallentamento delle operazioni nella mattinata successiva e, infine, il 27 novembre si sarebbe l’allontanato dalla propria postazione senza permesso per la “pausa caffè”, nonostante la presenza una dozzina di clienti in coda, creando un rallentamento delle operazioni sulle altre casse aperte.
Impugnato il licenziamento, il cassiere risultava vincitore del primo e del secondo grado di giudizio, ma soccombente in cassazione, ove la sentenza di appello veniva cassata con rinvio.
Riassunta la causa dalla Banca, i giudici del rinvio si pronunciavano a favore del datore di lavoro ritenendo preclusa la valutazione della prima condotta, per non avere la banca impugnato la statuizione con cui la prima sentenza d’appello aveva ritenuto l’addebito non sufficientemente dimostrato (pertanto, la mancata contestazione costituisce prova ex art. 115 c.p.c.) e ritenendo connotate le altre da sufficiente gravità integrante giusta causa di licenziamento.
Non contento dello shekeraggio subito, il lavoratore proponeva ricorso in cassazione contro la sentenza pronunciata a seguito del rinvio, deducendo, per quel che qui rileva, i seguenti motivi:
    in relazione al primo episodio il ricorrente lamenta una omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi ai fini del decidere e, in particolare in relazione alla mancata prova, nei precedenti gradi di giudizio, dell’intervenuta consegna da parte della banca del manuale esplicativo dell’operazione che il cassiere si era rifiutato di eseguire;
    con il secondo motivo assume la mancanza di motivazione riguardo all’esistenza di una prassi aziendale idonea a giustificare il comportamento del cassiere: in caso di allontanamento dalla postazione con la cassa aperta, il collega assente veniva temporaneamente sostituito da un altri lì presente secondo buon senso;
    con i terzo motivo, relativamente all’episodio di allontanamento per la pausa caffè, censura il fatto che il giudici del rinvio abbiano omesso di considerare che, durante l’assenza, erano operative altre casse per servire i clienti in attesa, con la conseguenza che nessun danno si sarebbe prodotto.
A fronte delle doglianze espresse, la Suprema Corte ha dichiarato che, mentre con riferimento ai primi due episodi, la cassazione della sentenza d’appello è stata operata per violazione di norme di diritto (per non essere la valutazione di proporzionalità della sanzione applicata stata ancora a norme di legge, di contratto o a criteri di ragionevolezza), con riguardo all’“episodio del caffè” è stata operata una cassazione con rinvio perché solo in relazione ad esso i giudici di merito avevano “escluso di aver raggiunto un positivo convincimento sulla sussistenza e sul relativo rilievo disciplinare”, diversamente risultando “incensurabilmente accertati” nei fatti gli altri episodi.
Fatta questa premessa, la Corte ricorda che “la sentenza di annullamento con rinvio vincola il giudice del rinvio al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla "regola" giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell'ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità costituiscono il presupposto stesso della pronuncia di annullamento, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto col principio di intangibilità. (ex plurimis, Cass. n. 17353 del 2010), è da escludere la violazione del dictum della sentenza di cassazione con riguardo al profilo relativo alla materiale ricostruzione dei fatti oggetto di addebito, con riferimento agli episodi del 20 e del 26 novembre 1997.
Altrimenti detto, il giudice del rinvio non può riesaminare e ripronunciarsi sugli elementi di fatto che fondano il principio di diritto alla cui applicazione è tenuto e ciò perché l’accertamento in fatto costituisce, la base per la costruzione del ragionamento giuridico enucleato nel principio: togliendo la base o rimettendola in discussione, quindi, non potrebbe sussistere alcun principio di diritto da applicare.
Il primo motivo di doglianza viene, pertanto, respinto.
Riguardo al secondo motivo del ricorso – parimenti ritenuto infondato e respinto - relativo alla mancata argomentazione in ordine a prassi aziendali legate al buon senso, gli Ermellini, richiamando il passaggio della sentenza rescindente, affermano che la Corte di merito (in prima istanza) ha errato in diritto nel ritenere non grave tale episodio, avendo parametrato la valutazione di proporzionalità della sanzione disciplinare solo all’interesse patrimoniale della banca e non anche all’interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito governato da leggi, il cui rigoroso rispetto non può certamente essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso.
Veniamo, quindi, al terzo motivo del ricorso.
Sebbene la sentenza d’appello no sia richiamata, dal tenore delle argomentazioni espresse sembra di capire che, a seguito del rinvio, abbia apprezzato le circostanze di fatto nel senso di ritenere proporzionata la sanzione del licenziamento.
Ciò posto, la Suprema Corte ritiene che questo motivo sia inammissibile posto che un diverso apprezzamento del fatto è precluso al giudice di legittimità. A ogni buon conto, sottolinea la Corte, la circostanza che, durante l’assenza-caffè del cassiere fossero presenti altri sportelli non è un fatto decisivo ed idoneo ad escludere la gravità della condotta ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione disciplinare, posto che la carenza di operatività di una cassa ha determinato, comunque, un rallentamento delle operazioni sulle altre casse cui i clienti erano indirizzati.
Ad avviso di chi scrive, questa sentenza più che per il fatto di classificare l’allontanamento dal posto di lavoro per la pausa caffè quale condotta idonea ad integrare causa legittima di licenziamento – classificazione che, va ricordato, viene espressa in un quadro di ripetuti comportamenti inadempienti del lavoratore, per cui non è dato comprendere se sia da intendersi anche di per sé idonea in tal senso– si segnala per il veloce ripasso di procedura civile in termini di impugnazioni che consente.
Ricorda infatti alle parti – e agli avvocati in particolare – che, se l’accoglimento della tesi difensiva esposta nei motivi di impugnazione passa attraverso un diverso apprezzamento dei fatti di causa, si rischia di andare incontro ad una dichiarazione di inammissibilità del motivo, essendo tale apprezzamento precluso al giudice di legittimità, sia che si tratti di cassazione secca, sia che si tratti di cassazione con rinvio.
Questo principio non è certo una novità, ma lo diventa se coniugato con la recente riforma del rito civile in grado d’appello.
Ci si chiede, infatti, se l’appello – sede in cui un diverso apprezzamento sul fatto è astrattamente ottenibile, - dovesse essere dichiarato inammissibile, quali altre vie di giustizia restano da percorrere al cittadino vittima di un errore giudiziario in primo grado nell’interpretazione dei fatti (cioè in un caso diverso dall’omesso esame di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.)?
Considerata la “fretta nella trattazione” che molti giudici di prime cure sembrano dimostrare ultimamente nel tentativo di garantire una risposta celere – ma spesso superficiale – alla domanda di giustizia e, soprattutto, allo scopo di evitare allo Stato Italiano spese per risarcimenti del danno da irragionevole durata del processo, sembra prospettarsi un periodo difficile per l’utente della giustizia che, dopo aver bussato alla prima porta e trovato un giaciglio di paglia, rischia di trovare tutte le altre chiuse.

(Da Altalex del 10.4.2013. Nota di Marta Buffoni)