martedì 23 aprile 2013

Medico obiettore deve assistere paziente dopo l'aborto

Cass. Pen., sez. VI, sent. 2.4.2013 n° 14979

Il medico obiettore di coscienza è tenuto ad assistere la paziente nelle fasi precedenti e successive al parto. E' quanto emerge dalla sentenza 2 aprile 2013, n. 14979 della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva un medico, a seguito di una specifica richiesta di intervento nei confronti di una paziente, sottoposta ad una operazione di interruzione di gravidanza mediante somministrazione farmacologica, rifiutarsi di visitare ed assistere quest'ultima, in quanto obiettore di coscienza, nonostante le varie istanze di intervento che costringevano, alla fine, il primario a recarsi in ospedale per intervenire d’urgenza.
Per tale motivo, la Corte di Appello di Trieste, confermando la sentenza del Tribunale di Pordenone, condannava il medico in servizio presso il presidio ospedaliero di San Vito di Tagliamento, ad un anno di reclusione per il reato di cui all’art. 328 c.p. (Rifiuto di atti di ufficio. Omissione).
Sotto il profilo strettamente normativo, l'art. 9, comma 3, della legge n. 194/1978, esclude che l'obiezione possa riferirsi anche all'assistenza antecedente e conseguente all'intervento, riconoscendo al medico obiettore il diritto di rifiutare di determinare l'aborto, ma non di omettere di prestare l'assistenza prima ovvero successivamente ai fatti causativi dell'aborto, in quanto deve comunque assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell'intervento di interruzione della gravidanza.
Come specificato dal giudice nomofilattico, secondo la disciplina della legge ora richiamata, l'obiezione esonera il medico esclusivamente dal "compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza", diritto che peraltro trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che il comma 5 dell'art. 9 della legge citata esclude ogni operatività all'obiezione di coscienza nei casi in cui l'intervento del medico obiettore sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo".
Nel caso di specie, il rifiuto, da parte del medico, ad intervenire per prestare assistenza alla donna riguardava la fase del c.d. "secondamento", avvenuta successivamente all'aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario, con la conseguenza che deve escludersi che sia stata richiesta l'assistenza in una fase "diretta a determinare l'interruzione della gravidanza"; non si può ritenere che il diritto di obiezione di coscienza esoneri il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella normativa.
In sostanza, la legge tutela il diritto di obiezione entro lo stretto limite delle attività mediche dirette alla interruzione della gravidanza, esaurite le quali il medico obiettore non può opporre alcun rifiuto dal prestare assistenza alla donna. D'altra parte, come ricordato dai giudici della Suprema Corte, il diritto all'aborto è stato riconosciuto come ricompreso nella sfera di autodeterminazione della donna e se l'obiettore di coscienza può legittimamente rifiutarsi di intervenire nel rendere concreto tale diritto, tuttavia non può rifiutarsi di intervenire per garantire il diritto alla salute della donna, non solo nella fase conseguente all'intervento di interruzione della gravidanza, ma in tutti i casi in cui vi sia un imminente pericolo di vita.
Dal punto di vista oggettivo deve ritenersi integrato il reato di cui all'art. 328 c.p., dal momento che il rifiuto ha riguardato un atto sanitario, richiesto con insistenza da personale infermieristico e medico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente che non aveva ancora espulso la placenta, essendo del tutto irrilevante che le condizioni di salute non sono risultate particolarmente gravi: in questi casi il medico ha comunque l'obbligo di recarsi immediatamente a visitare il paziente al fine di valutare direttamente la situazione, soprattutto se a richiedere il suo intervento sono soggetti qualificati, in grado di valutare la effettiva necessità della presenza del medico.
Dal punto di vista soggettivo, invece, gli ermellini hanno affermato che l’esercizio del diritto di obiezione di coscienza da parte di un medico presuppone la sua piena consapevolezza circa i limiti entro cui tale diritto possa essere esercitato. Non è possibile, dunque sostenere la presunta buona fede o la ignoranza sulla legge extrapenale da parte della imputata, a maggior ragione, se si considera che la stessa ha opposto un continuo ed ingiustificato rifiuto, anche dopo le ripetute richieste di intervento e le spiegazioni fornitele da parte del primario e del direttore sanitario.

(Da Altalex del 10.4.2013. Nota di Simone Marani)