domenica 28 aprile 2013

Diffamare su Facebook

Riflessioni sulla sentenza n. 38912/2012 del GIP di Livorno

La sentenza in commento costituisce un importante precedente in materia di diffamazione sul web e chiarisce che l’uso di espressioni offensive e lesive della reputazione altrui tramite Facebook integra il reato di cui all’art. 595 c. 3 c.p., ossia diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della pubblicità. La vicenda all’origine della pronuncia è ormai nota agli “addetti ai lavori”: M.R., a seguito della conclusione di un rapporto lavorativo con il Centro Estetico Eterea di Livorno, scriveva sulla propria bacheca Facebook frasi ingiuriose ed offensive rivolte sia al suddetto Centro estetico sia alla titolare dello stesso. Quest’ultima pertanto querelava M.R. per diffamazione e il procedimento penale si concludeva con la sentenza in  oggetto.
Una corretta disamina della pronuncia non può esimersi dal rilevare come la stessa lasci aperte alcune questioni che necessitano invece di accurata riflessione.
La prima riguarda la prova della diffamazione.
Com’è noto, nel caso di diffamazione tramite Internet, occorre dimostrare:
-la condotta diffamatoria in senso stretto (il che può presentare notevoli difficoltà, essendo il contenuto web sempre modificabile e, anche, eliminabile);
-la riconducibilità della suddetta condotta, con ragionevole certezza, ad un certo utente della rete;   
Il GUP di Livorno non si sofferma per nulla sul primo aspetto, limitandosi a considerare che le “risultanze istruttorie”, ossia alcuni documenti allegati all’atto di querela, danno prova della condotta diffamatoria.
Ora, pur non conoscendo il contenuto questi documenti, è possibile fare alcune osservazioni, ricordando anzitutto che la prova del contenuto di una pagina web non è validamente fornita attraverso la produzione in giudizio di una mera copia cartacea o di back-up della stessa.
La pagina diffamatoria, infatti, dovrà essere raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato momento e, pertanto, prodotta in copia conforme. Detta copia potrà essere eseguita dal pubblico ufficiale o su supporto informatico (in questo caso il Notaio o altro p.u. dovrà eseguire la copia delle informazioni visualizzate e, inoltre, apporre l’attestazione di conformità indicando il browser, l’ora, eventuali certificati di sicurezza, l’URL della pagina e firmare digitalmente tutti i file) o cartaceo (in tale ipotesi andranno indicati: il sito internet; il tipo di browser utilizzato; la data e l’ora in cui la copia viene effettuata; eventuali certificati di sicurezza per la verifica dell’identità del sito).
Per quanto queste informazioni possano apparire banali, troppo spesso ci si ferma alla sola stampa della pagina web. In realtà, seppur comporti maggiore dispendio economico, rispettare dette minime formalità è essenziale al fine dell’efficacia probatoria dei documenti prodotti: la mera copia della pagina incriminata, per converso, avrà l’efficacia soltanto di un principio di prova scritta (ai sensi dell’art. 2717 c.c.).
In secondo luogo, il GUP ritiene dimostrata la riferibilità soggettiva degli scritti all’imputata, sulla base della circostanza che il profilo Facebook utilizzato per la pubblicazione dei messaggi era nominativamente intestato alla M.R., nonché considerando il fatto che tra M.R. e il Centro Estetico Eterea era in effetti intercorso un rapporto di lavoro (il che collimerebbe col contenuto diffamatorio incriminato, relativo proprio ad un pregresso rapporto lavorativo ed alla sua conclusione).
Ferma restando la validità di questo assunto, vale però la pena sottolineare che la sentenza n. 8824/2011 della Corte di Cassazione, ha affermato essere l’indirizzo IP prova determinante della riconducibilità di un messaggio postato sul web ad un certo soggetto. Infatti, al momento della connessione Internet da una postazione fisica, il gestore del servizio telefonico (provider) associa un determinato codice numerico (l’indirizzo IP, appunto) alla linea telefonica utilizzata per la connessione. Questo codice numerico identifica in modo univoco sulla rete mondiale un certo computer connesso. Una volta ricondotto il messaggio diffamatorio all’indirizzo IP usato per la connessione e, quindi, alla relativa linea telefonica, è ovvio che il campo dei possibili colpevoli si restringe agli effettivi utilizzatori di quella linea.
Passo successivo è verificare a chi è intestato il nickname utilizzato per l’immissione del messaggio. Ovvio che se il nome dell’utente corrisponde a quello dell’utilizzatore della linea telefonica, residua ben poco spazio per la prova contraria!
Assai ben sorretta dovrà essere la dimostrazione della circostanza che un altro soggetto si è servito delle credenziali dell’accusato (e della sua linea telefonica) per “postare” il messaggio diffamatorio, o ancora che un altro utente della rete si è intromesso nella connessione identificata dall’IP per manomettere i messaggi del presunto colpevole.
La lettura della sentenza spinge però anche ad una più approfondita ed attenta riflessione, riguardo alla prova dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Com’è noto, l’aggravante di cui all’art. 595 c. 3 c.p. è integrata nel caso in cui la condotta diffamatoria abbia raggiunto un numero indeterminato di persone. Il Tribunale di Livorno ha fondato la sussistenza dell’aggravante sulla circostanza che Internet si configura al pari di un mezzo stampa a causa della sua «diffusione incontrollata» che permette al messaggio di un qualunque utente di «entrare in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti». Il GUP, pertanto, ha applicato questo ragionamento trascurando di osservare che Facebook, attualmente, consente ai propri utenti di scegliere il livello di riservatezza delle proprie pubblicazioni: i contenuti pubblicati dall’utente possono infatti essere visualizzati da “amici di amici”, “solo amici” o da una cerchia di soggetti ancora più ristretta, individuati di volta in volta dal titolare del post (anche una sola persona).
Sarebbe quindi stata opportuna un’indagine più approfondita: l’aggravante del mezzo di pubblicità avrebbe potuto configurarsi solo nel caso in cui il soggetto avesse scelto il maggior grado di visibilità per i suoi contenuti (“amici di amici”), perché solo in tal caso il messaggio diffamatorio avrebbe potuto raggiungere una moltitudine indeterminata di destinatari.
Nel caso contrario, a parere di chi scrive, il reato da contestare avrebbe dovuto essere derubricato nell’ipotesi non aggravata di cui all’art. 595 c. 1 c.p..

Anna Gabbolini (da telediritto.it del 27.4.2013)