sabato 26 novembre 2011

I numeri non mentono (chi si ferma è perduto…)

I numeri non mentono. L’esame dei dati reddituali della categoria nel 2010 conferma il trend negativo degli ultimi due anni: crescita numerica ed abolizione dei minimi tariffari, come ampiamente previsto, hanno determinato un complessivo depauperamento degli avvocati, unica certezza sottoscrivibile anche nel breve-medio termine.
Le novità introdotte con la legge di stabilizzazione finanziaria, a tacere del quadro d’insieme complessivo, potrebbero assestare un colpo definitivo all’indipendenza della categoria, non più tutelata dalla riserva di legge e soggetta ad una mera potestà regolamentare legata agli indirizzi dell’esecutivo di turno.
Inoltre, la possibilità dell’ingresso del socio di capitale, partecipe ed artefice, senza alcun limite, dei destini del professionista, apre scenari di possibile crescita economica per pochissime privilegiate law firm ma sicuramente determina dipendenza dall’investitore, con buona pace del concetto stesso di libera professione.
Resta il fatto che la presenza di un enorme numero di professionisti sempre più poveri suggerirebbe altra strada rispetto all’abolizione dell’esame di stato e degli ordini, anche perché i risultati di questa combinazione si sono già manifestati, sopratutto nell’attività stragiudiziale.
La strada è stata aperta dalle associazioni di consumatori, sovente presiedute da Avvocati (va detto per onestà intellettuale) che svolgono di fatto la funzione di procacciamento della clientela. Il “cliente” viene intercettato, fidelizzato; la parcella è incassata dal legale, ma una parte va alla struttura, identificata in luogo di chi effettivamente svolge l’attività ed intercambiabile come il meccanismo di una catena di montaggio dei diritti.
Oggi, oltre a queste associazioni, numerose imprese stanno occupando il mercato proprio in quelle materie soggiogate alla mediazione obbligatoria e ciò non può apparire casuale nell’ambito di quel disegno di privatizzazione della giustizia civile che comincia a delinearsi.
Certo è che la categoria deve, anche in quest’ambito, operare una forte analisi critica.
Non siamo stati capaci negli anni, al netto di alcuni singoli, di adeguarci alla trasformazione della società. Non c’è uno studio di categoria che possa guidarci per immaginare una ridefinizione del nostro ruolo, per segnalare i nuovi spazi di mercato, le opportunità che un “sapere” qualificato può offrire.
Come può essere utile un avvocato al sistema produttivo del Paese?
Tutti conveniamo sulla necessità di formare una nuova generazione di professionisti specializzati, in modo da proporci al mercato con le nostre competenze, con la tanto decantata “qualità”, unico vero antidoto al mercante all’ingrosso degli ex diritti soggettivi, ora visti solo in chiave economicistica.
E’ certamente il punto di partenza (anche se siamo sempre fermi ai blocchi) ma occorre indirizzare le risorse in maniera proficua. Nei programmi di tante scuole forensi, nei numerosissimi seminari che distribuiscono crediti formativi – spesso un’occasione sprecata nel raggiungimento minimo dei crediti - tocchiamo con mano la mancanza di progettualità, l’assenza di una “politica del lavoro” di categoria.
Il primo passo è certamente quello di non limitarci all’idea di specializzazione ma di caratterizzarla con un contenuto positivo, di sostanza. Il secondo deve consentire la possibilità di “spendere” il nostro sapere. Senza un collegamento forte con il mondo produttivo è molto difficile che accada.
Perché le imprese non vogliono pagare gli avvocati? Fondamentalmente, perché veniamo rappresentati come un peso non desiderato. Non è sicuramente così ma è anche vero che generalmente interveniamo solo nei momenti di conflittualità, quando invece occorre interagire prima, nel momento della crescita e non solo in quello della patologia.
Semplificando, occorre maggiore attività stragiudiziale, interpretandone in senso ampio l’ambito. Quanti avvocati si occupano di sicurezza del lavoro, di modelli organizzativi, di credito agevolato, di finanziamenti comunitari? Quanti sono di valido supporto alla buona imprenditoria di “prossimità” od a quella che delocalizza; quanti la indirizzano nelle scelte fiscali e tributarie?, chi di noi conosce il diritto dei paesi dell’Est Europeo o dei paesi emergenti? Le domande potrebbero essere numerose e molto spesso la risposta sarebbe: “pochi”.
Un monitoraggio serio delle aree di interesse della domanda e delle competenze di cui dispone la nostra “offerta” consentirebbe certamente di intuire le potenzialità di taluni ambiti. Riuscire a farlo insieme a chi domani potrà usufruire delle nostre prestazioni e muoversi nell’ottica di un processo formativo condiviso e congiunto rappresenta un concreto collegamento con il mondo delle imprese e, in definitiva, una seria opportunità per tanti di noi, in particolare per i più giovani.
Cassa Forense sul punto non può limitarsi a rilevare l’impoverimento della categoria o, a voler essere ottimisti, l’assenza di crescita sul piano reddituale ma, disponendo di competenze e risorse, deve adeguare anch’essa il proprio ruolo e porsi a “motore” del faticoso, ma possibile, cammino del cambiamento.
E’ necessario un salto culturale, immaginare e proporre una professione nuova e diversa, che non rimanga intrappolata nel “contenzioso” ma che si apra, si confronti e si contenda importanti settori di mercato ora appannaggio pressoché esclusivo di altre categorie professionali.
Studiare il “mercato”, aprirsi al confronto con il mondo produttivo, favorire iniziative formative e specialistiche che tengano conto delle nuove esigenze dettate dalle specificità dei territori e dei mercati allargati, agevolare l’inserimento professionale e la “spendita” del titolo, sono alcuni dei punti da inserire in un’ideale agenda di lavoro. Agenda da riempire in fretta: i numeri, si sa, non mentono e ci stanno dicendo con estrema chiarezza che chi sta fermo è destinato ad essere travolto dal mondo che cammina.

Valter Militi (da cassaforense.it)