lunedì 13 dicembre 2010

Se dico al capo "non mi rompere il c....", cosa succede? Nulla

Cassazione civile, sez. lavoro, sent. 16.11.2010 n° 23132

Dire al capo "non mi rompere il c...." è legittimo secondo la Corte di Cassazione: "assoluzione piena", quindi, per la frase incriminata.
Così, infatti, i giudici della Cassazione hanno stabilito nella sentenza 16 novembre 2010, n. 23132.
I giudici di legittimità hanno, infatti, provveduto alla reintegra nel posto di lavoro del dipendente che si era riferito ad un’azionista della società per cui lavorava (non essendo, peraltro, a conoscenza del ruolo di tale soggetto) apostrofandolo con una parolaccia durante una lite “di lavoro” (quindi in un clima di tensione e conflittualità), in quanto non può essere ignorato il fatto della mancanza “di precedenti addebiti nei confronti del dipendente che non aveva mai avuto altri episodi di intemperanza in tal senso”.
L’inconsapevolezza, quindi, durante una lite lavorativa, con la pronuncia di parolacce, del prestatore di lavoro, riguardo alla posizione di spicco del soggetto “offeso” rende scusabile il suo comportamento determinando l’illegittimità del licenziamento posto in essere dall’azienda proprio a causa dello stesso.
La ricostruzione della vicenda “giustificativa” del comportamento può così essere sintetizzata.
Il dipendente il giorno dell’evento “incriminato” era già stato “provato da tre ore di colloqui con gli autisti dell’azienda, i quali si erano rifiutati di rendere prestazioni di lavoro straordinario, vanificando, in tal modo, tutti gli sforzi intrapresi dal dipendente tesi all’organizzazione del servizio.
La protrazione del colloquio telefonico (per oltre 15 minuti) con l’azionista della società (del quale lui, tra l’altro ignorava il ruolo di spicco) la gravità della situazione organizzativa nel quale si trovava, sfociata, altresì, nella interruzione del servizio di trasporto, avevano portato alla “concitazione dei toni” assunti durante lo stesso colloquio.
Il soggetto licenziato in tronco dall’azienda, era stato reintegrato dalla Corte d’Appello, anche sulla base che non vi era un rapporto di subordinazione diretta con la persona “offesa”.
Da qui il ricorso in Cassazione da parte della società, al fine di dimostrare la gravità del comportamento assunto dal dipendente, per mancanza di rispetto nei confronti del “diretto superiore” e socio di riferimento della stessa azienda.
La Corte, però, respinge il ricorso evidenziando, altresì, che il dipendente non aveva “certamente percepito che quel soggetto facesse parte dell’assetto gerarchico della società”.
Nella sentenza in oggetto che qui si commenta si legge testualmente che …….”in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso è rimesso al giudice di merito (per tutte Cass. 22 marzo 2010, n. 6848) il cui apprezzamento, che deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta, è sottratto a censure in sede di legittimità se la relativa valutazione è sorretta da adeguata e logica motivazione (per tutte Cass. 27 settembre 2007, n. 2021)”.

(Da Altalex del 3.12.2010. Nota di Manuela Rinaldi)