sabato 15 gennaio 2011

Responsabilità professionale dell’avvocato: si cambia rotta?


di Mario Zana

Che dagli inizi del 2000 qualcosa sia cambiato nel sistema della responsabilità civile del professionista, è un dato di fatto: alcune sentenze della Cassazione, rese con l’autorevolezza delle Sezioni Unite, hanno sottoposto ad una sistematica rilettura critica regole consolidate: si pensi al significato e al ruolo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, ai criteri di ripartizione dell’onere della prova nel giudizio di responsabilità, all’individuazione del nesso di causalità tra inadempimento e danno.
La tendenza è nel senso di riportare la relazione professionista-cliente alla logica codicistica del rapporto tra (semplice) debitore e (semplice) creditore; con il risultato di alterare gli equilibri auspicati dalla Relazione al Codice civile sub art. 2236 (n. 917), determinando un regime di tutela preferenziale degli interessi del cliente.
E tuttavia, se tale tendenza ha messo salde radici, ed anzi ha conosciuto significativi sviluppi nel campo della responsabilità medica, non altrettanto si è verificato in quello della responsabilità dell’avvocato, nel quale la Suprema Corte alterna segnali di novità a decise riaffermazioni di indirizzi consolidati: il che certo non giova alla coerenza del sistema.

Sommario: 1. Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato - 2. Onere della prova - 3. Nesso di causalità - 4. Recenti indirizzi - 5. Conclusioni.

1. Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato

E’ fin troppo noto che la tanto discussa distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato ha consentito alla giurisprudenza di stabilire un regime di prova dell’inadempimento senz’altro più favorevole al professionista-debitore: e ciò, nonostante le critiche che in dottrina sono state rivolte a tale distinzione fin dal suo ingresso nel panorama giuridico italiano: basti qui ricordare le lucide considerazioni di Mengoni agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso.
Bisogna attendere il 2005 perché la Cassazione faccia proprie tali critiche, sancendo il superamento della distinzione sul piano del diritto sostanziale, verosimilmente sull’onda di altri pronunciamenti, che nel settore-pilota della responsabilità medica ne avevano già decretato il tramonto proprio quale criterio regolatore dell’onere di prova nei giudizi di responsabilità.
La sentenza del 28 luglio 2005, n. 15781, resa a Sezioni Unite, interviene con ampia e dotta motivazione a comporre un contrasto giurisprudenziale circa l’applicabilità delle disposizioni, di cui all’art. 2226 c.c., in tema di decadenza e prescrizione dell’azione di garanzia per vizi e difetti dell’opera, dettate in riferimento al contratto d’opera manuale, alla diversa ipotesi in cui i vizi e i difetti si manifestino in relazione al contratto d’opera intellettuale; nella fattispecie, alla prestazione del professionista che abbia assunto l’obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria e della direzione dei lavori.
Rilevato che la definizione del contenuto della prestazione professionale secondo la dicotomia mezzi/risultato “non è immune da profili problematici”, posto che “un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni”, richiedendosi in ogni caso “la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile”, la Corte afferma che il contenuto dell’obbligo del professionista si trae in ogni caso dalle “comuni regole di correttezza e di diligenza”, con la conseguenza che “al rapporto scaturente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale debbono essere applicate, in linea generale e di tendenza ... le norme che determinano le conseguenze dell’inadempimento (art. 1218 c.c.)”. In altri, e più espliciti termini, “il regime di responsabilità del professionista (la c.d. colpa professionale) è sempre il medesimo”, posto che la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato “non ha ... alcuna incidenza” su di esso.
Tali argomentazioni trovano puntuale riscontro in una successiva sentenza della Sezione III (13/4/2007, n. 8826) in materia di responsabilità medica, laddove la menzionata distinzione viene giudicata “il frutto di una risalente elaborazione dogmatica accolta dalla tradizionale interpretazione e tralatiziamente tramandatasi, priva invero di riscontro normativo e di dubbio fondamento”; ponendosi in rilievo che “anche nelle c.d. obbligazioni di mezzi lo sforzo diligente del debitore è in ogni caso rivolto al perseguimento del risultato dovuto”, e che, d’altro canto, “nelle ipotesi tipicamente indicate come obbligazioni di risultato (es., l’obbligazione del depositario) non è comunque garantito il risultato, giacché l’impegno del debitore è pur sempre obbligatorio, e non si sostanzia invero in un’assicurazione”.
Da ultimo, pronunciandosi in punto di responsabilità per danni da emotrasfusioni, le Sezioni Unite (sent. 11/1/2008, n. 577) sono tornate, seppur incidenter tantum, sul valore della distinzione, ritenendola “dogmaticamente superata”, pur riservandole una “funzione descrittiva”.
Con buona pace del principio di diritto così perentoriamente enunciato, la Cassazione in materia di responsabilità professionale dell’avvocato continua ad affermare -confermando una giurisprudenza monolitica sul punto (ex plurimis, anche di recente, Cass., 16846/2005; 6967/2006; 974/2007)- che “il rapporto professionale che lega l’avvocato al cliente comporta un’obbligazione di mezzi e non di risultato” (da ultimo, Cass., 11/01/2010, n. 230), e che quindi “l’inadempimento del suddetto professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, ma soltanto dalla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura dell’attività esercitata” (Cass., 16846/2005). E’ pur vero che non mancano le eccezioni, individuate in ipotesi di attività specificamente individuate -quali, a titolo esemplicativo, lo studio di una pratica per trovare una soluzione al fine di ottenere il riconoscimento di una qualifica superiore (Cass. 230/2010), ovvero la mancata informazione, in sede di parere stragiudiziale, della possibilità che venga eccepita la prescrizione (Cass. 16023/2002), o la decadenza dalle prove (Cass. 5325/1993)-, ma l’àmbito di rilevanza dell’obbligazione di mezzi copre pur sempre la quasi totalità dell’attività forense.
Le ripercussioni sul piano (processuale) dell’onere della prova dell’inadempimento sono ben note: accollandosi al cliente-creditore la prova del comportamento non diligente nel caso di obbligazioni ritenute di mezzi, e al professionista-debitore la prova della causa non imputabile nel caso di obbligazioni ritenute di risultato.

2. Onere della prova

Sotto quest’ultimo profilo la crisi della menzionata distinzione è ormai risalente: il punto di partenza è costituito dalla sentenza 30/10/2001, n. 13533, delle Sezioni Unite della Cassazione, tendente a ricondurre ad unità il regime probatorio da applicare in riferimento alle azioni previste dall’art. 1453 c.c..
La Corte, sulla base di criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità o vicinanza della prova, di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, enuncia il principio che “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento”; ed estendendolo all’ipotesi in cui il creditore deduca l’inesatto inadempimento: cosicché “al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.
Il passo ulteriore lo compie la Sezione III della Cassazione con due sentenze rese a breve distanza l’una dall’altra (28/5/2004, n. 10297; 21/6/2004, n. 11488) in tema di responsabilità medica, operando una decisiva svolta nell’orientamento consolidato, che chiedeva al paziente la prova dell’inadempimento del medico (o della struttura sanitaria): sulla premessa che “la relazione che si instaura tra medico (nonché tra struttura sanitaria) e paziente dà luogo ad un rapporto di tipo contrattuale”, si afferma che in base alla regola, di cui all’art. 1218 c.c., “non compete al paziente provare la colpa, né, tantomeno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art. 2236 c.c.) essere allegate e provate dal medico”.
Siffatta ripartizione dell’attività delle parti nel giudizio di responsabilità professionale ha ricevuto un ulteriore avallo delle Sezioni Unite nella già citata sentenza n. 577 del 11/1/2008, con la precisazione che “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”.
E tuttavia, la Cassazione in materia di responsabilità dell’avvocato si mostra insensibile al criterio della semplice allegazione dell’inadempimento, imponendo al cliente, in applicazione di “un principio consolidato seguito dalla giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide”, “l’onere di fornire la prova di idonei dati obiettivi in base ai quali il giudice valuterà se, in relazione alla natura del caso concreto, l’attività svolta dal professionista possa essere giudicata sufficiente” (Cass., 18/4/2007, n. 9238: nella specie, l’avvocato si era costituito tardivamente in giudizio e aveva omesso di chiedere la prova testimoniale su circostanze qualificanti della controversia, ma la Corte conferma la decisione di merito, che aveva ritenuto non sufficientemente provata la negligenza dell’avvocato). In altra occasione si precisa che “il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dall’insufficiente o inadeguata attività del professionista, e cioè, dalla difettosa prestazione professionale” (Cass., 27/5/2009, n. 12354; in termini, ex multis, anche Cass., 16/10/2008, n. 25266): il legale non aveva comunicato tempestivamente agli attori il deposito della sentenza che li aveva visti soccombenti, sicché non era stato possibile proporre la relativa impugnazione; peraltro -osserva la Corte nel confermare la sentenza di merito- “la perdita del diritto di impugnare la sentenza non può configurarsi di per sé come una conseguenza patrimoniale pregiudizievole”, né i soccombenti avevano dimostrato “in concreto i riflessi pregiudizievoli offrendo la prova dell’erroneità della decisione e della concreta possibilità di essere riformata in appello”. Analogamente, in un caso di redazione e notifica di un atto di appello privo dell’indispensabile indicazione della data di udienza di comparizione, si è ritenuto che il danno sarebbe stato “ravvisabile” ove fosse risultato sulla base di non meglio precisati “criteri necessariamente probabilistici” che senza quella omissione “il risultato sarebbe stato conseguito” (Cass., 27/3/2006, n. 6967).
La distanza di tali affermazioni dai principi sanciti dalle Sezioni Unite e dalla stessa Sezione III in altro settore della responsabilità professionale è fin troppo evidente; per tacere della discutibile commistione tra profili di determinazione del danno risarcibile (causalità giuridica) e profili di causalità materiale, sottesa all’onere di prova imposto al cliente relativamente al pregiudizio lamentato: id est, la dimostrazione di una diversa strategia processuale in grado di fargli conseguire il risultato favorevole. Al confronto la probatio diabolica richiesta al debitore in mora, ex art. 1221 c.c., appare ben poca cosa.

3. Nesso di causalità

L’affermazione del nesso di causalità rappresenta senz’altro il passaggio più difficile e delicato dei giudizi di responsabilità; ma in questo settore della responsabilità professionale assume connotazioni particolari in ragione del presupposto (obbligazione di mezzi) su cui si fonda la valutazione dell’inadempimento dell’avvocato.
L’orientamento prevalente fino a tempi recenti era nel senso che l’affermazione della responsabilità del difensore “implica l’indagine –positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha l’onere di fornire- circa il sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, in definitiva, la certezza morale [o, sic et simpliciter, “la certezza” (Cass., 16/10/2008, n. 25266)] che gli effetti di una diversa sua attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo” (Cass., 11/8/2005, n. 16846; 28/4/1994, n. 4044). Un indirizzo tuttavia non condiviso da numerose decisioni, che al criterio della certezza circa gli effetti di una diversa condotta sostituivano -pur con diverse formulazioni- quello della probabilità di tali effetti e dell’idoneità di tale condotta a produrli (Cass. 6/2/1998, n. 1286; 18/4/2005, n. 7997; 18/4/2007, n. 9238).
Questa impostazione può ritenersi ormai dominante -nonostante qualche isolata battuta d’arresto (v. Cass., 25266/2008, cit.)- nei termini che “l’affermazione della responsabilità professionale dell’avvocato non implica l’indagine sul sicuro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e, perciò, la ‘certezza morale’ che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente. Ne consegue che al criterio della certezza della condotta può sostituirsi quello della probabilità di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli” (Cass., 9238/2007, cit.: sulla base di questo principio viene confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto che non vi era certezza, ma neppure possibilità di accertare che la domanda potesse essere accolta, posto che non era dato conoscere quali fossero esattamente le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto deporre; Cass., 3 aprile 2009, n. 8151: conferma della sentenza di merito, che aveva riconosciuto la responsabilità dell’avvocato per mancata riassunzione di una causa per risarcimento danni da circolazione stradale dopo l’interruzione del giudizio a sèguito della messa in liquidazione coatta amministrativa della Compagnia di assicurazione convenuta in giudizio dallo stesso avvocato).
Da ultimo, la Suprema Corte (Sez. III, 29/9/2009, n. 20828), nell’ennesimo caso di mancata comunicazione al cliente dell’avvenuto deposito di una pronuncia sfavorevole, con conseguente preclusione della possibilità di proporre impugnazione, ritorna sulla necessità (per il cliente) di produrre “mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto”, richiamandosi nell’applicazione dell’enunciato controfattuale, adottato per l’accertamento del rapporto di causalità ipotetica derivante da condotta omissiva, al criterio del “più probabile che non”: criterio già formulato dalla sentenza “scolare” della Cass. 16/10/2007, n. 21619 -ancora una volta in materia di responsabilità medica- sul presupposto che il nesso di causalità rappresenti “la misura della relazione probabilistica concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso”; e successivamente confermato dalle Sezioni Unite (Sent. 11/1/2008, n. 581).

4. Recenti indirizzi

Le caute aperture sul nesso di causalità sono un primo indice di cambiamento negli schemi consolidati del giudizio di responsabilità: tanto più significativo se considerato contestualmente ad altri segnali provenienti in tempi assai recenti dalla Cassazione su problemi specifici.
Così, con riferimento alle c.d. “cause perse”, la Corte, nell’enunciare un principio di deontologia professionale ancor prima che di diritto, indulge a valutazioni di merito attinenti, in ultima analisi, al contenuto della diligenza tecnica che deve informare l’attività procesuale dell’avvocato. Si afferma infatti in motivazione che “il difensore può non accettare una causa che prevede di perdere, ma non può accettarla e poi disinteressarsene del tutto, con il pretesto che si tratta di causa persa” (il cliente aveva acquistato a non domino una Ferrari e ne aveva subìto l’evizione); l’attività del difensore in questi casi “se bene svolta, può essere preziosa al fine di limitare o di escludere il pregiudizio insito nella posizione del cliente (se non altro, sollevando le eccezioni relative ad eventuali errori di carattere sostanziale o processuale della controparte)”, evitando di esporre il cliente all’incremento del pregiudizio iniziale, “a causa delle spese processuali a cui va incontro per la propria difesa e per quella della controparte” (Cass. 2 luglio 2010, n. 15717).
Un’incursione ancor più incisiva nella sfera delle attività c.d. discrezionali si registra con l’ordinanza della Sez. VI, 26/7/2010, n. 17506, che respinge per manifesta infondatezza il ricorso contro una sentenza di condanna di un avvocato a risarcire i danni al proprio cliente per violazione del dovere di diligenza professionale nella scelta della strategia processuale da seguire. L’avvocato aveva promosso un giudizio ordinario per ottenere il pagamento dei compensi di architetto che il suo cliente vantava verso terzi, invece di ricorrere al procedimento monitorio che avrebbe garantito -stante l’abbondante documentazione a disposizione- un sollecito soddisfacimento del credito. E’ noto che per costante giurisprudenza “nelle ipotesi di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questioni opinabili” -ivi incluse le scelte processuali- “deve ritenersi esclusa la responsabilità [dell’avvocato], a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave” (ex multis, Cass., 11/8/2005, n. 16846; 18/11/1996, n. 10068). Del resto, pochi giorni prima la stessa Corte, Sez. III, aveva ritenuto “affetta da vizio di motivazione la sentenza che escluda la responsabilità professionale del difensore allorquando la soccombenza sia dipesa da errori di impostazione attinenti alla sfera processuale” (Sent. 2/7/2010, n. 15718).
La sfera di intangibilità (rectius, irresponsabilità) della prestazione professionale sembra dunque destinata a ridursi in vista di una più efficace tutela del miglior interesse del cliente, già assicurata in ipotesi di errori inerenti ad attività c.d. rituali (a titolo meraminte esemplificativo, tra i casi più recenti, Cass., 2/11/2010, n. 22274: tardiva riassunzione di una causa di lavoro dopo sei mesi dalla definizione della pregiudiziale penale; Cass., 7/7/2009, n. 15895: mancato deposito di ricorso in Cassazione nel termine di cui all’art. 369 c.p.c.).
Da ultimo, merita un cenno l’obbligo di informazione del cliente, che la Cassazione espressamente ricomprende nel contenuto della diligenza, ex art. 1176, co. 2, c.c., specificandolo nei “doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente”, in adempimento dei quali l’avvocato è tenuto a “rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato”, nonché a “sconsigliarlo dall’intraprendere un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole” (Cass., 30/7/2004, n. 14597; e, più recentemente, 12/10/2009, n. 21589; 18/11/2009, n. 24344).
Di fronte a tali affermazioni, non è escluso il rischio che anche nel campo della responsabilità professionale dell’avvocato l’obbligo di informazione diventi per il cliente un “cavallo di Troia” per ottenere un risarcimento in caso di esito sfavorevole della causa, secondo uno schema ormai ben collaudato in sede di giudizio di responsabilità medica. Ciò, anche considerando che l’obbligo di informazione ha ormai superato il recinto giurisprudenziale per approdare nel testo del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sulla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”: dove, all’ art. 4, co. 3, si prevede che all’atto di conferimento dell’incarico l’avvocato debba fornire al cliente, secondo precise formalità, tutte le informazioni inerenti al procedimento di mediazione, pena l’annullabilità del contratto con l’assistito. La specialità della previsione fa per ora baluardo ad una sua generalizzazione, ma la prospettiva qui paventata non appare poi così peregrina.

5. Conclusioni

In conclusione, siamo ad un cambio di rotta nella (fin qui, relativamente) tranquilla navigazione nel pelago della responsabilità professionale dell’avvocato?
Certamente le nuove regole elaborate dalla Cassazione per la responsabilità del professionista influenzeranno sempre di più quelle ancora seguite in questo settore: e le recenti applicazioni di criteri di determinazione del nesso di causalità materiale, più favorevoli al cliente che lamenta un danno per esito sfavorevole della causa, ne sono la prova più consistente.
Anche a non voler condividere le profezie recentemente avanzate in dottrina su un prossimo allineamento del regime (giurisprudenziale) della responsabilità dell’avvocato a quello ormai instaurato nel campo della responsabilità medica, non si può negare che la tendenza sia nel senso di un maggior rigore nella valutazione del comportamento tenuto dal professionista forense.
E tuttavia, l’impressione è che la situazione non sia destinata a cambiare in tempi brevi: almeno fino a quando resisterà la barriera delle obbligazioni di mezzi.

(Da Altalex del 10.1.2011. Relazione per l'incontro di studio “La responsabilità professionale dell’avvocato” - Pisa, 17.12.2010)