martedì 18 gennaio 2011

Danno da insidia o trabocchetto: l’eterna lotta tra art. 2051 e 2043 c.c.

Cassazione civile, sez. III, sent. 18.11.2010 n° 23277

Che fosse caro agli ermellini il tema dell’individuazione della norma applicabile alle ipotesi di responsabilità della PA per i danni subiti dall’utente della strada, è cosa nota.
E tuttavia, il flusso ininterrotto di pronunce sul punto potrebbe avere – o, forse, ha già– l’effetto di produrre una grande confusione, anzichè una grande chiarezza, tra gli operatori del diritto che, soli, si trovano a dover spiegare all’ignaro, dolente, attònito, assistito i motivi di opportunità o sconvenienza dell’intrapresa di una causa per ottenere il risarcimento dei danni patiti.
In un contesto giurisprudenziale così fluido ed instabile, la Giustizia che non dà certezze, ci rimette la faccia, ma con le sembianze dell’avvocato di turno.
Se, poi, si considera che, come nel caso in esame, per arrivare a capo della questione si deve passare attraverso 21 anni (la citazione è stata notificata il 12 gennaio 1989!!) di processo, durante i quali l’avvocato fa in tempo anche morire (e non è una battuta) e bisogna pure trovarne un altro, beh, lo scenario diviene oltremodo sconfortante.
Vediamo il caso nel dettaglio.
Dal punto di vista fattuale, la vicenda è molto lineare: un pedone che cammina sul marciapiede, improvvisamente, inciampa in un tombino sporgente non segnalato e cade, riportando lesioni personali di cui chiede il risarcimento al Comune.
La domanda attorea, respinta in primo grado ed accolta in appello, perviene in Cassazione a seguito di ricorso promosso da Comune per insufficiente motivazione sull’eziologia dell’evento lesivo: secondo la Corte d’appello, infatti, l’instabilità del tombino in carenza di segnalazione costituiva evento imprevedibile per il pedone, idoneo a provocarne la caduta e, quindi, a configurarsi quale antecedente necessario e sufficiente alla determinazione della stessa, diversamente la PA ricorrente ritiene che, considerate le circostanze di tempo e di luogo in cui si trovava a transitare, ben avrebbe il pedone, potuto prevedere la presenza di pericoli e, quindi, adottare comportamenti atti ad evitare di incapparvi,come, ad esempio, camminare sul marciapiede situato dal lato opposto.
La Corte di Cassazione accoglie la tesi difensiva della Corte territoriale già “percorsa dal pedone” in primo grado sostenendo che l’assenza di segnalazioni atte ad avvertire della presenza di pericoli, ingenera nell’utente della strada il legittimo affidamento in ordine alla stabilità e regolarità della superficie su cui si trova a transitare.
Laddove la superficie stradale si riveli, in concreto, priva delle qualità attese, allora ogni pericolo ivi presente costituirebbe insidia perché caratterizzato oggettivamente dalla non visibilità e, soggettivamente dell’imprevedibilità.
L’insidia così descritta è antecedente logico ed ontologico necessario e sufficiente a determinare evento caduta che, a sua volta, determina l’insorgenza di danno alla persona.
Se, dunque, l’insidia è causa della caduta e la caduta dei danni, allora, per proprietà transitiva, l’insidia è causa dei danni ed il Comune dovrà risarcirli, stante la Sua condotta colposa dovuta a negligenza.
In base a quale norma, però?
Insegna la Cassazione: ”Qualora non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., in quanto sia accertata, in concreto, l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte dei terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente secondo la regola generale dell’art. 2043 c.c., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. alle ipotesi di esistenza di un'insidia o trabocchetto”.
Riguardo all’onere della prova, graverà sul danneggiato di dimostrare l’anomalia del bene (che, in uno all’assenza di segnalazioni di pericolo, integra di per sé, comportamento colposo) oltre che i danni subiti, e sulla P.A. di dimostrare la presenza di fatti impeditivi dell’insorgenza della propria responsabilità, ovvero l’impossibilità di rimuovere la situazione di pericolo, pur avendo adottato tutte le misure idonee.
In quest’ottica, dunque, l’utente della strada gode di un vantaggio processuale non indifferente in termini istruttori, perché in un colpo solo, cioè tramite la prova dell’anomalia del bene, riuscirà a provare anche la sussistenza degli altri elementi richiesti per l’accertamento di responsabilità da atto illecito, cioè l’elemento soggettivo della colpa ed il nesso di causalità tra condotta colposa ed evento.
Nel variegato panorama giurisprudenziale che la tematica in questione offre, la sentenza in commento sale, dunque, agli onori della cronaca non soltanto per la sua attualità cronologica, ma anche perché ispirata a un principio che, pur permeando di sé tutto l’ordinamento giudico, è poco noto e, soprattutto, poco applicato: il buon senso.

(Da Altalex del 14.1.2011. Nota di Marta Buffoni)