martedì 10 marzo 2015

Trattato da “tappabuchi”? Non è mobbing

Cass. Sez. Lavoro, sent. 2.3.2015 n. 4174

La Corte di legittimità ritorna sul fenomeno del mobbing con una nuova sentenza con la quale afferma la necessaria presenza di comportamenti persecutori, discriminatori o lesivi della dignità o della salute del dipendente affinché si possa configurare la condotta in esame (illegittima e idonea a far sorgere il diritto al risarcimento del danno originato).

Nel caso di specie, il dipendente di un’amministrazione comunale ricorreva in giudizio, denunciando di essere stato vittima di comportamenti persecutori posti in essere dall’amministrazione comunale, attraverso l’assegnazione di vari e diversi incarichi dequalificanti, tanto da essere utilizzato, affermava il dipendente comunale, come “tappabuchi”, e di essere stato oggetto di sanzioni disciplinari arbitrarie, sfociate poi in un provvedimento di licenziamento.

Tali circostanze ed eventi erano fonte di un profondo stato di stress del lavoratore, che lo avevano portato a far ricorso a cure psichiatriche per la patologia contratta, ascrivibile al mobbing, di cui era stato vittima. Chiedeva dunque il risarcimento del danno subito e l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di licenziamento.

Nel corso della fase istruttoria, la consulenza tecnica d’ufficio aveva attestato che il disturbo di cui il ricorrente soffriva non aveva origine dal rapporto lavorativo.

I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, respingevano la domanda attorea, constatando la mancanza di idonea prova di comportamenti persecutori, discriminatori o lesivi della dignità o della salute del dipendente.

A giudizio della Corte d’appello territoriale, inoltre, i diversi incarichi assegnati, seppur non definiti nel contratto, erano ricompresi nel livello professionale in cui era stato inquadrato il dipendente pubblico, escludendo che l’amministrazione avesse posto in essere comportamenti vessatori e discriminatori in danno del lavoratore o comunque contribuito ad aggravarne lo stato di salute mentale.

Avverso quest’ultima sentenza, il dipendente pubblico proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo che la Corte d’appello era incorsa in errore nel non rilevare la vessatorietà, l’offensività e la capacità di danno della condotta posta in essere dall’Amministrazione. Il giudice di merito non avrebbe proceduto ad una verifica attraverso la valutazione complessiva dei singoli episodi dedotti in giudizio e il fatto che il lavoratore avesse svolto il ruolo di “tappabuchi”, svolgendo mansioni assegnate ad altri dipendenti e diverse da quelle riferibili al proprio inquadramento professionale.

La Corte di Cassazione ha ritenuto i motivi del ricorso infondati.

La Corte ha affermato che la fattispecie del mobbing si realizza attraverso continue condotte vessatorie, poste in essere a danno del lavoratore, in virtù di un disegno persecutorio. Indispensabile è che l’interessato, in sede processuale, dimostri il nesso causale tra l’evento dannoso e l’insorgere della patologia, nonché la idoneità dei comportamenti posti in essere dal datore di lavoro di generare un protratto stress psicofisico.

Poiché nel caso in esame il dipendente pubblico non era riuscito a soddisfare tale onere probatorio e poiché le mansioni che era stato costretto a svolgere sono state ritenute dal giudice di merito rientranti in quelle del proprio inquadramento professionale, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.


Lorenzo Pispero (da filodiritto.com del 9.3.2015)