lunedì 9 febbraio 2015

Allegato alla PEC non visionabile: conseguenze

TAR Friuli V.G., sez. I, sent. 3.12.2014 n° 610

Nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del destinatario, si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte di quest'ultimo analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall'art. 1335 c.c.; sicché spetta a lui, in un'ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all'utilizzo dello strumento telematico.
Con la sentenza in forma semplificata 3 dicembre 2014, n. 610, la Sez. I del G.A. di Trieste – prendendo le mosse dallo scrutinio di legittimità di un provvedimento concernente il divieto di prosecuzione di un’attività oggetto di SCIA disposto, fra l’altro, perché uno dei file digitali contenenti la documentazione allegata alla segnalazione non risultava apribile e dunque visionabile - ha chiarito come la trasmissione a mezzo PEC di istanze e dichiarazioni, se effettuata con il rispetto dei requisiti formali e normativamente fissati, determini una presunzione di conoscenza del contenuto della comunicazione in capo al destinatario.
Da tale premessa ha tratto, quale logico corollario, il principio per cui incombe sul destinatario l’onere di informare il mittente nel caso in cui il contenuto del messaggio non risulti visionabile, non potendo tale problema tecnico legittimare l’adozione di un provvedimento negativo nei confronti del mittente incolpevole.
Analisi del caso
Una società di telecomunicazioni ha compulsato il competente T.A.R. al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento con cui il Comune gli aveva inibito la prosecuzione dell’attività avviata a seguito di presentazione a mezzo PEC di una SCIA. Il divieto era motivato, tra l’altro, con riferimento al fatto che uno dei file, contenente la documentazione allegata alla segnalazione, non risultava apribile e dunque visionabile.
Varie le censure dedotte dalla ricorrente avverso tale capo motivazionale del provvedimento. Ha in particolar modo lamentato una violazione della disciplina della cd. “amministrazione digitale”, oltreché dei principi del giusto procedimento, di buona fede, buon andamento e trasparenza dell’azione amministrativa, invero significando come l’Ente avrebbe dovuto, dinanzi a un’inaccessibilità del file digitale, avvalersi non già dei poteri inibitori, bensì di quelli istruttori, chiedendo la produzione – anche in formato cartaceo – dei documenti mancanti.
La civica P.A. si è costituita in giudizio e ha chiesto il rigetto del ricorso, allegando a sostegno della legittimità del proprio operato la convinzione circa l’inefficacia della SCIA in caso di incompletezza documentale, da cui scaturirebbe il legittimo esercizio dei poteri inibitori, per contro non sussistendo – in tale caso – alcun obbligo per l’Amministrazione di domandare l’integrazione documentale.
La soluzione
Il Tribunale, respinta l’eccezione sollevata dal Comune di difetto di interesse della ricorrente alla proposizione del gravame, è passato a vagliare la legittimità del provvedimento impugnato, segnatamente concludendo per la fondatezza delle doglianze dedotte dalla società interessata avverso le ragioni giustificatrici portate dall’Ente a sostegno del divieto.
E così il Collegio ha, fra le altre cose, censurato la ritenuta idoneità, da parte della P.A., delle difficoltà cognitive riscontrate in relazione a uno dei file digitali a sorreggere l’inibizione all’esercizio dell’attività. Dopo aver posto l’accento sull’equiparazione, quanto al valore giuridico, della PEC alla posta cartacea raccomandata ha difatti osservato come, a fronte di una SCIA presentata in via telematica, l’Amministrazione procedente sia innanzitutto tenuta al rispetto delle regole che ordinariamente informano i rapporti con i privati e, fra queste, del principio di leale collaborazione.
Ha in particolar modo posto in rilievo come comportamento conforme a tale principio sarebbe quello dell’Amministrazione che, trovatasi dinanzi a un messaggio telematico non visionabile, proceda a informare il mittente delle difficoltà riscontrate, atteso che nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del destinatario, viene a determinarsi una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte di quest’ultimo analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c.
Sicché, ha osservato il G.A., nel caso di specie il Comune avrebbe dovuto informare la società del disguido riscontrato fissandole nel contempo un termine per ovviare al problema, con l’avvertimento che il mancato tempestivo adempimento dell’incombente avrebbe determinato l’esercizio dei poteri inibitori. Il tutto si sarebbe peraltro tradotto non già in una richiesta di integrazione documentale, considerato che i documenti erano stati già inviati, ma in una sollecitazione alla riproduzione degli stessi in formato visionabile dall’Amministrazione.
I precedenti e i possibili impatti pratico-operativi
Solitamente, a finire sotto la lente del Giudice, sono le questioni concernenti la validità delle notifiche e delle comunicazioni effettuate via PEC all’interno del processo. Nella pronuncia in esame, invece, la posta elettronica certificata viene scrutinata da un diverso angolo visuale, ossia quello relativo all’utilizzo della stessa nei rapporti tra privati o imprese da un lato e pubblica Amministrazione dall’altro. È ormai a tutti noto il radicale mutamento determinatosi, nell’azione amministrativa, a seguito dell’impiego di nuovi strumenti legati allo sviluppo tecnologico; e, ugualmente noto, è il potenziamento del cd. “e-government” che ne è scaturito. Non può a tal proposito non citarsi il padre legislativo di tale cambiamento di rotta, ossia il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 contenente il Codice dell’amministrazione digitale. Se infatti è vero che già anteriormente a esso era possibile ritrovare all’interno dell’ordinamento giuridico dei riferimenti normativi all’uso dell’informatica pubblica – si pensi ad esempio all’art. 3-bis inserito dalla L. n. 15/2005 nella L n. 241/1990 o, procedendo più a ritroso nel tempo, all’art. 1 del D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 – è altresì vero che tali disposizioni, attualmente in vigore, si traducevano in affermazioni di principio meramente programmatiche, di certo lontane dal corpo verosimilmente organico e precettivo cui il Codice dell’amministrazione digitale ha dato vita. È invero con esso che i cittadini e le imprese sono stati forniti di rilevanti diritti in materia, primo fra tutti del diritto, giurisdizionalmente tutelato, di richiedere e ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche Amministrazioni (art. 3). Un diritto che poi con il passare degli anni ha via via assunto contorni più definiti. E così, il D.Lgs. n. 235/2010 ha provveduto a inserire nel Codice l’art. 5-bis, il quale prevede che la presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le Amministrazioni pubbliche avvenga esclusivamente utilizzando le tecnologie dell'informazione e della comunicazione e che le Amministrazioni debbano, con le medesime modalità, adottare e comunicare atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese. Ancora, lo stesso decreto ha provveduto a modificare il contenuto dell’art. 6 del Codice rubricato “Utilizzo della posta elettronica certificata”, il quale ora prevede che per le comunicazioni di cui all’art. 48, comma 1 – ossia per quelle telematiche che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna – e con i soggetti che hanno preventivamente dichiarato il proprio indirizzo ai sensi della vigente normativa tecnica, le pubbliche Amministrazioni utilizzano la posta elettronica certificata. Quest’ultima modalità di trasmissione, peraltro, deve alla stregua di quanto previsto dal già citato art. 48, comma 1 del Codice – nella versione risultante a seguito delle modifiche portate dal D.Lgs. n. 235/2010 – essere utilizzata da chiunque si trovi a effettuare una comunicazione che necessiti di una ricevuta di invio, nonché di consegna. La norma, dunque, procede a delimitare i contenuti dell’obbligo di utilizzo della PEC avendo riguardo all’obiettivo che con la comunicazione si vuole raggiungere e non già ai soggetti che si accingono a effettuarla. Trattasi peraltro di un metodo di trasmissione che, come innanzi rilevato, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta (art. 48, comma 2); il che è quanto dire che la consegna si perfeziona nel momento in cui il messaggio perviene nella casella di posta elettronica del destinatario. In particolar modo la comunicazione effettuata a mezzo PEC si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario, atteso che la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario, certificando il momento della consegna mediante un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione. È dunque pienamente condivisibile l’assimilazione – forgiata dalla pronuncia che qui si annota - fra presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario, che punto viene a determinarsi nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della PEC e di consegna della stessa alla casella del destinatario, e quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c. Come altrettanto condivisibile è la conclusione che da tale assunto il Giudice ha tratto. È infatti indubbio che così stando le cose, il destinatario debba, nel caso in cui riscontri delle difficoltà nella presa visione dei documenti trasmessi via PEC, informare il mittente di una tale circostanza, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente. Una diversa soluzione, invero, oltre a porsi in contrasto con i basilari principi di civiltà giuridica, verrebbe a collidere con alcune disposizioni presenti nel sistema che, seppur normando altri e diversi aspetti, paiono comunque dettare delle linee guida da seguire in questa fattispecie che presenta i caratteri dell’atipicità.
Per quel che ad esempio concerne la SCIA, è sufficiente soffermarsi sul contenuto del comma 3 dell’art. 19 della L. n. 241/1990 per rendersi conto di quanto fondata sia la conclusione attinta nel caso di specie dal Collegio triestino. Siffatta disposizione disciplina, fra l’altro, il potere di inibizione di cui l’Amministrazione dispone per sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione. Si prevede, in particolar modo, che ove in tale lasso di tempo la P.A. riscontri una carenza dei requisiti e dei presupposti normativi per l’esercizio dell’attività oggetto di segnalazione, essa debba adottare un motivato divieto di prosecuzione della stessa e di rimozione degli eventuali effetti dannosi. Se, dunque, il potere inibitorio può essere esercitato soltanto in caso di accertata carenza dei requisiti e presupposti normativi di cui al comma 1 della medesima norma, non può che apparire eccedente da tale potere il provvedimento di inibizione sorretto da una mera difficoltà di consultazione, da parte della P.A., della documentazione tempestivamente allegata alla SCIA ma non visionabile, se non altro perché appare difficile in tal caso parlare di carenza in senso tecnico; senza peraltro considerare che seppur di carenza, magari in senso atecnico, voglia parlarsi essa non sarebbe neanche imputabile al segnalante. Ma v’è di più. Se, infatti, si prosegue nella lettura del comma 3 succitato si legge come l’Amministrazione possa, ove possibile, e in alternativa alla comminatoria del divieto di prosecuzione dell’attività, invitare l’interessato a conformare l’attività e i suoi effetti alla normativa vigente entro un termine stabilito dall’Amministrazione, comunque non inferiore a trenta giorni. Sicché è evidente che se il legislatore ha consentito una sanatoria da parte dell’interessato, benché ove possibile e su invito dell’Amministrazione, nel caso in cui a venire in rilievo sia la difformità dell’attività iniziata e dei suoi effetti rispetto alla normativa vigente, non si possa poi negare al soggetto incolpevole la possibilità di sanare un mero disguido collegato all’utilizzo di uno strumento, la PEC, il cui utilizzo è peraltro ex lege imposto.
Allargando l’orizzonte non si può poi fare a meno di rilevare come, anche in altri ambiti, la voluntas legis sia orientata a un favor nei confronti del soggetto che con l’Amministrazione viene a confrontarsi. Si pensi ad esempio al soccorso istruttorio disciplinato in termini generali dall’art. 6, comma 1, lett. b) della L. n. 241/1990 e, in relazione alle gare d’appalto, dal combinato disposto dei commi 2-bis dell’art. 38 e 1-ter dell’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006, per come recentemente introdotti dal D.L. n. 90/2014 conv. dalla L. n. 114/2014. Non ci si vuole in questa sede soffermare sul contenuto specifico di tali disposizioni. Preme soltanto dire ch’esse paiono creare l’immagine di un’Amministrazione pronta a concedere una seconda chance (più o meno gratuita) a coloro che nell’interfacciarsi con essa si siano resi responsabili di irregolarità, omissioni, dimenticanze. Un’immagine che, a parere di chi scrive, non pare potersi legittimamente dissolvere quando, come nel caso qui esaminato, il soggetto non sia reso responsabile di alcunché bensì risulti soltanto vittima incolpevole di un inconveniente facilmente rimediabile.

(Da Altalex del 16.1.2015. Nota di Michele Didonna tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)