venerdì 11 aprile 2014

Pignorabilità stipendio, dubbi di costituzionalità su Salva Italia

Trib. Lecce, sez. commerciale, ordinanza 12.2.2014

Un ordinamento costituzionalmente orientato, come è (o dovrebbe essere) quello italiano, si caratterizza per la presenza di “presidi” legislativi posti a tutela dei soggetti più deboli, in ossequio al dettato costituzionale, il quale, per citare uno solo dei principi che si muovono in questa direzione (art. 2),  impone alla Repubblica “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
In maniera sempre più frequente, tuttavia, si assiste a soluzioni legislative discutibili, sotto un profilo tecnico-giuridico, inique e palesemente in contrasto con i principi sanciti dalla Carta Costituzionale.
In sede di opposizione all’esecuzione mobiliare, dinanzi al Tribunale di Lecce, è stata seguita la posizione di un titolare di conto corrente, le cui somme ivi presenti erano state interamente pignorate, pur trattandosi di un c/c le cui uniche operazioni “in entrata” erano analiticamente riportate, e rubricate sotto apposita dicitura: “ pagamento di indennità di disoccupazione ASPI”.
L’indennità di disoccupazione si manifesta, nel caso di specie, come l’unica fonte di reddito del pignorato, attraverso la quale lo stesso doveva fare fronte a tutte le esigenze di vita e di sostentamento personale e familiare.
Ci si trovava, insomma, di fronte ad un conto corrente bancario che non si presentava come un complesso “deposito” di somme di denaro rinvenienti da diverse fonti di ricchezza, quanto piuttosto come un’oggettiva vetrina di una condizione di precarietà economica, affrontata dignitosamente attraverso strumenti di assistenza sociale propri di un moderno Stato di diritto.
Lo stesso c/c, lungi dall’essere un’opzione liberamente individuata dal pignorato, risultava piuttosto essere una necessità, imposta da un rinnovato quadro normativo, sul quale ci si sofferma brevemente.
Le origini della questione in analisi possono farsi risalire al decreto legge n. 201/2011 (cd. Decreto “Salva-Italia”, successivamente convertito in legge n. 214/2011).
Tra le tante, questa legge contiene disposizioni finalizzate alla lotta all’evasione, introducendo criteri più stringenti nella tracciabilità dei pagamenti, anche da parte della pubblica amministrazione ( per l’appunto, pensioni, sussidi et similia).
Nello specifico, l’art. 12 della suddetta norma, al comma 2 lett. c), prevede che “lo stipendio, la pensione, i compensi comunque corrisposti dalla pubblica amministrazione (…) e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a cinquecento euro, debbono essere erogati con strumenti diversi dal denaro contante ovvero mediante l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari o postali, (…) Il limite di importo di cui al periodo precedente può essere modificato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze”.
Limite che, di lì a poco, è stato aumentato a mille euro.
Alcuni mesi dopo, con il DL n. 16/2012, convertito in legge n. 44/2012, sono stati introdotti nuovi limiti in tema di pignoramento presso terzi, in particolare per il pignoramento dello stipendio e pignoramento della pensione.
La disposizione di riferimento nel decreto legge n. 16/2012 (cd. “decreto Semplificazioni”) convertito in legge n. 44/2012 è l’art. 3, comma 5, che ha aggiunto, nel D.p.r. n. 602/1973, in materia di pignoramento presso terzi disposto dall’agente della riscossione, quindi sostanzialmente in tema di pignoramenti Equitalia, l’art. 72-ter, recante il titolo “Limiti di pignorabilità” , secondo il quale:
“Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione:
a) in misura pari ad 1/10 per importi fino a 2.500,00 euro;
b) in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500,00 a 5.000,00 euro”.
Si conclude la norma in oggetto, affermando che
“Resta ferma la misura di cui all’articolo 545, comma 4, c.p.c., se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro”.
Nessuna delle summenzionate disposizioni normative, insomma, va nella direzione dell’abrogazione formale dell’art 545 c.p.c., il quale stabilisce la regola generale del limite di pignorabilità dei crediti cd. “alimentari”, in un importo pari ad 1/5 delle somme dovuto a titolo di stipendio, pensione o altri emolumenti equivalenti.
Tuttavia, l’applicazione della prima delle due norme menzionate (l’art. 12 legge n. 214/2011, al comma 2 lett. c), comporta uno svuotamento sostanziale del campo di applicazione della disposizione processualcivilistica.
Il sistema ereditato presenta caratteri di profonda iniquità ed ingiustizia sociale, oltre che storture giuridico - costituzionali evidenti.
In sostanza, il limite di un quinto opera quando il pignoramento avvenga direttamente alla fonte, ossia direttamente da parte dell’ente previdenziale o del datore di lavoro.
Se effettuato in un secondo momento, invece, il pignoramento dello stipendio, della pensione o di altro emolumento pubblico avviene presso la banca dove il dipendente o pensionato deposita le somme ricevute mensilmente, e il limite di un quinto non opera più.
Ciò significa che il limite del quinto pignorabile della pensione o dello stipendio viene legalmente superato, e chi deve riscuotere un credito può rifarsi direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto detiene sul conto, quindi anche su tutta la pensione o tutto lo stipendio.
Questo, si badi bene, avviene in maniera arbitraria ed immotivata, tenendo conto che un conto corrente bancario o postale è un prospetto analitico in cui ogni voce “in entrata” ed “in uscita” è distinta dall’altra, oltre che facilmente identificabile.
In sede di opposizione e nelle successive memorie autorizzate, pertanto, è stata sollevata la questione di costituzionalità dell’art 12 comma 2 lett. c del cd. “decreto Salva-Italia”, evidenziando in particolare due profili di incostituzionalità.
Il primo è certamente quello riconducibile all’art. 38 Cost., (diritto al mantenimento e all’assistenza sociale).
Si può notare infatti come un imponente stop a questo fragile castello di motivazioni giuridiche che hanno aperto la strada al vessatorio pignoramento totale di pensioni, sussidi e altri trattamenti previdenziali, provenga direttamente dalla Corte Costituzionale che, in diverse circostanze, ha rivolto un monito al Legislatore, in merito al valore sociale e solidaristico sotteso a norme come il già citato art 545 c.p.c, collegandole direttamente proprio al disposto dell’art. 38 Cost.
In particolare, investita di questioni inerenti il pignoramento di somme di denaro rientranti nelle categorie di cui sopra, ha la Suprema Corte ha sempre esplicitamente sottolineato l’invalicabile limite contenuto nella disposizione codicistica.
Fondamentale, anche perché richiamata in tutte le sentenze successive sul punto (in misura diversa, sent. 44/2005; sent. 256/2006; sent. 183/2009), è la sentenza n°506/2002, che, rivolgendosi sia alle pensioni erogate dall’I.N.P.S., così come quelle proprie del settore pubblico (I.N.P.D.A.P.), ha confermato la pignorabilità delle pensioni - nella consueta misura del quinto - da determinarsi “sulla parte aggredibile del trattamento in quanto eccedente le esigenze minime di vita del pensionato (diversamente, la parte necessariamente destinata a soddisfare tali esigenze, resta sottratta ad ogni pretesa esecutiva)” .
E’ la stessa sentenza n. 506/2002 della Corte Costituzionale a spiegare la portata solidaristica dell’art 38 della Costituzione e perché il legislatore abbia impostato l’art. 545 del c.p.c. sulla base dello stesso:
“L’art. 38, secondo comma, Cost. è certamente norma che – sancendo il diritto dei lavoratori, in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, a che siano "preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" - si ispira a criteri di solidarietà sociale e "di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione di un minimum", il cui ammontare è ovviamente riservato all’apprezzamento del legislatore”.
Pertanto, il pubblico interesse – in cui si traduce il criterio di solidarietà sociale – a che il pensionato goda di un trattamento "adeguato alle esigenze di vita" può, ed anzi deve, comportare – oltre che un dovere dello Stato - anche una compressione del diritto di terzi di soddisfare le proprie ragioni creditorie sul bene-pensione, ma è anche vero che tale compressione non può essere totale ed indiscriminata, bensì deve rispondere a criteri di ragionevolezza che valgano, da un lato, ad assicurare in ogni caso (e, quindi, anche con sacrificio delle ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita e, dall’altro lato, a non imporre ai terzi, oltre il ragionevole limite appena indicato, un sacrificio dei loro crediti, negando alla intera pensione la qualità di bene sul quale possano soddisfarsi”.
Il presidio costituzionale (art. 38), dunque, non è tale da comportare, quale suo ineludibile corollario, l’impignorabilità dell’emolumento pubblico, ma soltanto l’impignorabilità assoluta di quella parte di esso che vale, appunto, ad assicurare quei "mezzi adeguati alle esigenze di vita" che la Costituzione impone siano garantiti.
E’ sufficiente chiaro, dunque, che il legislatore costituente, nel prevedere l’art. 38, ha immaginato una costruzione giuridica che, in nome di ineliminabili principi di solidarietà sociale, imponga limiti ben determinati, rispettivamente in capo al legislatore ordinario (nel rapporto con i cittadini) e al creditore pignorante (nei rapporti inter privatos).
Nulla rilevando, da questo punto di vista, il fatto che il pignoramento avvenga o meno “presso terzi”.
Secondo profilo di incostituzionalità evidenziato, è quello relativo all’art. 3 Cost.
Si fa riferimento, in particolare, alla lettura che la giurisprudenza della Suprema Corte ha dato del principio di eguaglianza, da intendersi anche come generale principio di ragionevolezza.
Il principio di ragionevolezza ha ormai guadagnato una propria autonomia rispetto al testo della Costituzione[1], assumendo un connotato conformativo rispetto ad ogni parametro costituzionale.
Da qui deriva la pervasività di questo canone di riferimento per l’ordinamento, oltre che la sua natura di principio costante e onnipresente nella giurisprudenza costituzionale, come da più parti è stato osservato[2].
E’ sufficiente far notare che il giudizio sulle leggi non può risolversi in un confronto meccanico tra due regole, ma richiede di valutare la rispondenza di una legge ad un principio o a un valore. Per comprendere la rispondenza di una legge a un principio o a più principi costituzionali occorre introdurre un ulteriore fattore: l’apertura della ragione ai dati della realtà.
Non a caso, in molti modi e in molteplici occasioni la Corte costituzionale ha definito la ragionevolezza come una forma di razionalità pratica[3].
Nel giudizio di ragionevolezza, la ragione è dunque costituita dall’impatto che il dato normativo produce sul caso, sul fatto, sul dato di realtà e di esperienza viva.
Come evidenziato da autorevole dottrina[4], tale giudizio, dunque, suggerisce al giudice una valutazione prudenziale, in cui l’indagine tiene conto delle conseguenze e degli effetti delle leggi. Solo così si può valutare l’adeguatezza del mezzo al fine, l’irragionevolezza intrinseca, gli esiti paradossali che possono prodursi da una regola apparentemente logica, al variare dei dati del contesto, o più semplicemente al trasformarsi dell’ordinamento normativo.
Queste premesse di carattere giuridico-sistematico trovano palese conferma nella giurisprudenza costituzionale.
Si può notare infatti, come la diversità di trattamento giuridico che si viene a determinare tra il pignoramento effettuato alla fonte dal datore di lavoro/ente previdenziale o assistenziale e quello effettuato sulle somme confluite su conto corrente bancario/postale aperto esclusivamente per il transito dell’emolumento, non trovi conforto nella giurisprudenza costituzionale, la quale ha più volte precisato che la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse.
Così, “il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni” (Cort. Cost. sent. n. 15/1960), poiché “l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli” (Cort. Cost. sent. n. 96/1980).
Ne deriva, dunque, la violazione del principio di ragionevolezza “quando, di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee, si ha una disciplina giuridica differenziata, determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate” (Cort. Cost. sent. n. 111/1981).
Illuminante appare sul punto la lettera della sent. n. 163 del 1993: “il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata definita quella determinata categoria di persone”.
E’ stata pertanto posta una seconda pregiudiziale di costituzionalità, giungendo a chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale dell’art. 12 comma 2 lett. c) L.n.  214/2011, per violazione degli artt. 38, e 3 della Costituzione, nella parte in cui non ha previsto che siano fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui all’art. 545 c.p.c.
La natura codicistica di quest’ultima disposizione normativa, tra l’altro, non costituisce assolutamente limitazione alcuna a considerarla norma generale espressione di un principio generale. Tanto per il significato costituzionalmente orientato (in ossequio all’art. 38 Cost), sul quale ci si è soffermati in precedenza, quanto per altro ordine di considerazioni, riconducibile, ancora una volta, all’art. 3 Cost. e al principio di ragionevolezza.
La giurisprudenza costituzionale ha mostrato come la ragionevolezza possa essere, di volta in volta, rappresentata come coerenza, congruenza, congruità, proporzionalità, necessità, misura, pertinenza, e così via.
Con particolare riferimento alla coerenza logica della norma, questa può (anzi, deve) essere riferita anche al sistema, al quadro normativo o ai principi generali del sistema[5].
La valutazione sulla coerenza di una disposizione normativa non può non investire direttamente il sistema, riconoscendone la “intrinseca coerenza/incoerenza ovvero la distonia”[6] .
Si fa notare addirittura, come non siano mancate, nell’evoluzione storica e semantica del principio di ragionevolezza nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, ipotesi nelle quali il sindacato di ragionevolezza si sia realizzato facendo ricorso a concetti esterni all’ ordine giuridico.
Il canone di ragionevolezza è stato dunque configurato come “conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità” (Cort. Cost. n. 2647/1994 e n. 388/1995); oppure è stato fondato “sulla realtà fattuale o sulle conoscenze scientifiche, quali dati condizionanti in modo oggettivo ed incontrovertibile” (sentenza n. 114 del 1998).
Affermazioni quali “...si appalesa irragionevole siccome non rispondente all’esigenza di conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità connaturati al principio sancito dall’ art. 3 della Costituzione...” (Cort. Cost. n. 52 del 1996)  , oppure dichiarazioni di illegittimità costituzionale basate su “una probabile dimenticanza del legislatore” (Cort. Cost. sent. 476/2002), non fanno che confermare quanto appena rilevato.
Il Tribunale di Lecce, nella persona del Dott. Alessandro Maggiore, con ordinanza del 12 febbraio 2014, ha sposato totalmente la tesi difensiva degli scriventi, accogliendo l’eccezione e rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, per violazione degli artt. 38 e 3 Cost.
La Suprema Corte è ora chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di tale norma che, alla luce del dettato costituzionale e di un’abbondante giurisprudenza sul punto, è quanto meno discutibile.
La notizia, rimbalzata su vari giornali, ha subito attratto il consenso popolare (cfr. commenti sul Blog http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/13/pignorabilita-di-stipendi-e-pensioni-adusbef-contro-il-salva-italia/879640/ ), nonché quello politico.
L’auspicio è quello di addivenire ad una pronuncia di incostituzionalità, che dia nuovamente alla norma che prescrive il limite assoluto di pignorabilità di un quinto piena “cittadinanza” nel nostro ordinamento.

(Da Altalex del 17.3.2014. Nota di Antonio Tanza e Alessandro Martines)

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[1] G. Scaccia, Controllo di ragionevolezza delle leggi e applicazione della Costituzione, in Nova juris interpretatio, Roma 2007
[2]  L. Paladin, Ragionevolezza (principio di), in Enc. Dir., Aggiornamento, I, Milano, 1997
[3] Cfr. Corte Cost. sent. n° 1130/1988
[4] Cfr. M. Carabia “I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana”; L. Mengoni, “Il diritto costituzionale come diritto per principi”
[5] Nella sentenza n. 84 del 1997, la Corte Costituzionale ha, sul punto, così chiaramente statuito:
“La semplice constatazione che le due norme poste a raffronto facciano parte di sistemi distinti ed autonomi non basta ad escludere che sia irragionevole il risultato normativo: il canone della ragionevolezza deve trovare applicazione non solo all’ interno dei singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all’intero sistema”.
[6] Corte Cost. sent. nn. 3 e 26 del 2007.