Nota a Cass. Sez. I Civ., Sent.
11.11.2013, n. 25843
1.
Le massime
La
domanda di addebito implica l’imputabilità al coniuge del comportamento lesivo
dei doveri coniugali, nonché la sussistenza di un rapporto di causalità tra il
comportamento lesivo e la intollerabilità della convivenza (nella specie, la Suprema Corte ha
confermato la pronuncia di merito con cui il giudice di appello aveva disposto,
con motivazione adeguata e non illogica, l’addebito della separazione a carico
della moglie, su cui era stata riscontrata – all’esito della consulenza tecnica
di ufficio – una affezione da shopping compulsivo, nevrosi attinente all’uso
incontrollato del denaro per effettuare ossessivamente l’acquisto di beni.
Simile condotta antidoverosa era ritenuta, nel giudizio di merito, causa della
intollerabilità della convivenza tra i coniugi).
Nel
novero delle cause di inimputabilità rientrano non solo le malattie mentali in
senso stretto, bensì pure le nevrosi, le psicopatie, i disturbi della
personalità, purché siano di intensità e gravità tali da incidere concretamente
sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente
ed a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta
antidoverosa, per effetto del quale il fatto illecito sia ritenuto causalmente
determinato dal disturbo mentale (nella specie, la Corte ritiene incensurabili,
in sede di legittimità, le risultanze della consulenza tecnica, recepite dal
giudice di merito, secondo cui la moglie, pure essendo affetta da shopping
compulsivo, non era comunque priva della capacità di intendere o volere).
2.
Il caso
In
un procedimento di separazione giudiziale, il Tribunale adito rigettava la
richiesta di addebito reciprocamente proposta dalle parti e condannava Tizio a
corrispondere alla moglie un assegno di mantenimento di duemila euro mensili.
Tizio
impugnava la sentenza del Tribunale, chiedendo al Giudice di appello di
pronunciare l’addebito a carico di Caia; quest’ultima, costituitasi in
giudizio, chiedeva il rigetto del gravame proposto da Tizio e la conferma della
sentenza di primo grado. La
Corte di appello, in riforma, pronunciava la separazione
personale dei coniugi, con addebito alla moglie e conseguente esclusione
dell’assegno di mantenimento in favore di lei. Il giudice di seconde cure
valorizzava, in particolare, quanto emerso all’esito della consulenza tecnica
di ufficio, secondo cui Caia, pur perfettamente capace di intendere e volere,
era affetta da shopping compulsivo, un disturbo della personalità connotato da
un impulso irrefrenabile ad acquistare, attenuato solo dall’acquisto di beni,
acquisto che veniva effettuato depauperando – in misura vieppiù ingente – le
casse familiari.
Caia
proponeva ricorso per cassazione, deducendo tre motivi: 1) la sentenza
impugnata, nell’offrire una lettura riduttiva della consulenza tecnica
d’ufficio, sarebbe incorsa in difetto di motivazione; 2) falsa applicazione
delle norme in tema di violazione dei doveri matrimoniali e di quelle relative
all’addebito della separazione, attesa la non imputabilità alla ricorrente del
comportamento accertato; 3) la non correttezza del riparto delle spese di lite.
Resisteva, con controricorso, Tizio.
3.
La decisione
La
Suprema Corte rigetta
tutti i motivi di ricorso. I primi due vengono esaminati congiuntamente. A
proposito di essi, la Corte
precisa che sono sottratti al sindacato di legittimità profili che attengono
l’accertamento in fatto e, più specificamente, la valutazione compiuta dal
giudice di appello circa la consulenza tecnica.
Dalla
sentenza impugnata emergeva come il consulente tecnico di ufficio – con
valutazione condivisa dal giudice di appello – avesse accertato l’utilizzo, da
parte di Caia, di denaro sottratto si a familiari sia a terzi, per soddisfare
la propria esigenza di effettuare acquisti sempre più frequenti e dispendiosi
di vestiti, borse e gioielli.
Emergeva,
inoltre, che simili condotte di Caia erano riconducibili a una nevrosi
caratteriale repressa, più esattamente diagnosticata quale shopping compulsivo.
A dispetto di ciò, in capo a Caia era stata esclusa alcuna incapacità di
intendere e di volere, sussistendo soltanto un disturbo della personalità, non
tale da escludere l’imputabilità della condotta dissipatrice in capo a Caia,
quella stessa ritenuta all’origine della intollerabilità della prosecuzione
della vita in comune dei coniugi.
Del
pari infondato è ritenuto il terzo motivo di ricorso ed è confermata la
condanna al pagamento delle spese di lite a carico di Caia, secondo il
principio della soccombenza.
4.
I precedenti
In
senso conforme alla prima massima, si veda Cassazione Civile n. 14042/2008.
La
problematica dei disturbi della personalità, ai fini del riconoscimento del
vizio totale o parziale di mente è stata affrontata, con argomentazioni
conformi a quelle riportate nella seconda delle massime enunciate, dalla
Cassazione Penale, Sezioni Unite, con la sentenza n. 9163/2005.
La Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva
erroneamente escluso il vizio parziale di mente dell’autore di una condotta
delittuosa che risultava affetto da un disturbo non rientrante tra le
alterazioni patologiche clinicamente accertabili e corrispondenti al quadro di
una vera e propria malattia psichica (nella specie, si trattava di disturbo
paranoideo, di cui si era accertato essere affetto l’autore di un omicidio).
Le
Sezioni Unite Penali hanno riconosciuto che anche “i disturbi della
personalità” possono determinare un vizio totale o parziale di mente, purché
siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla
capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, all’ulteriore
condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta illecita,
per effetto del quale l’illecito possa ritenersi causalmente determinato dal
disturbo mentale.
Andrea Falcone (da
filodiritto.com)