di Antonino Ciavola
Con
delibera del 31 gennaio 2014 il CNF ha approvato il nuovo codice deontologico
forense. L'avv. Antonino Ciavola (nostro
grande amico e consigliere dell’Ordine, NdAGANews) analizza le novità
introdotte in materia di pubblicità forense anche alla luce del dossier
elaborato dal CNF sul punto nonchè di una recente pronuncia della Suprema Corte
riguardante professionisti che offrivano la sottoscrizione del ricorso in
Cassazione.
1.
Breve storia della pubblicità forense
2.
Che cos’è la pubblicità?
3.
L’evoluzione della normativa italiana
4.
I prezzi delle prestazioni
5.
La sentenza Cass. Civ., SS.UU., 16 dicembre 2013 n. 27996
6.
Il nuovo codice deontologico
7.
Altra casistica
8.
La casistica mai sanzionata: Enjoy Avvocato
1.
Breve storia della pubblicità forense
Nel
1990 il Ricciardi scriveva che il divieto di propaganda costituisce un
principio deontologico importante, diretto a sottolineare la particolare
dignità della professione forense, che non è equiparabile ad una qualunque
attività di servizi.
Lo
stesso autore, a titolo esemplificativo, indicava come illecito disciplinare
l’inserimento del proprio nome in grassetto nell’elenco telefonico; questo è
sempre stato un classico esempio di pubblicità dell’avvocato in un’ottica
mercantile, e svariate volte sanzionato.
Altro
esempio di pubblicità indiretta citato dal Ricciardi riguarda l’invio di
biglietti augurali del professionista al personale di cancelleria con l’invito,
sul retro, a ritirare una strenna natalizia.
Sempre
nel 1990, era indicato come esempio di pubblicità e propaganda vietata quello
della diffusione di lettere circolari contenenti il nominativo del
professionista e dei suoi successi professionali.
Nel
1991 la Francia
si è dotata di una legge che permette agli avvocati di fare pubblicità nei
limiti in cui ciò serva a dare informazione al pubblico sull’attività svolta e
non abbia un aspetto commerciale. Analoga iniziativa è stata adottata in
Germania, mentre in Italia il codice deontologico approvato nel 1997, all’art.
17, continuava a vietare qualsiasi forma di pubblicità, consentendo una
limitata attività di informazione, purché in modo veritiero e nel rispetto dei
doveri di dignità e decoro.
Con
la modifica del 26 ottobre 2002, l’impostazione del codice deontologico in
materia di pubblicità cominciava a mutare: la rubrica dell’art. 17 non
riguardava più un divieto, bensì le informazioni sull’esercizio professionale.
Sembrava
così evidente la volontà, da parte di tutta l’avvocatura europea, di
distinguere tra informazione e pubblicità, considerando la prima un diritto
dell’avvocato derivante dal mutato assetto sociale, e la seconda una indecorosa
attività mercantile.
2.
Che cos’è la pubblicità?
Esaminando
la definizione di pubblicità riportata dai dizionari, troviamo sia la
divulgazione di una notizia tra il pubblico, sia (più specificamente)
l’attività aziendale diretta a far conoscere l’esistenza di un bene o servizio
e a incrementarne il consumo e l’uso.
Dottrina,
giurisprudenza e leggi hanno poi gradatamente ipotizzato, definito e sanzionato
una particolare forma di pubblicità, quella che si concretizza nella menzogna e
nell’inganno, e che è stata definita pubblicità ingannevole, poichè fornisce
informazioni false e/o distorte.
Dal
punto di vista normativo, il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, emanato in
attuazione di una direttiva comunitaria e modificato con D. Lgs. 25 febbraio
2000 n. 67, definiva la pubblicità come qualsiasi forma di messaggio che sia
diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale,
industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di
beni ... oppure la prestazione di opere o di servizi.
Il
decreto era espressamente rivolto, ai sensi dell’art. 1, anche ai soggetti che
esercitano un’attività professionale.
La
norma è stata poi riformulata (si veda il d. Lgs. 2 agosto 2007, n. 145), ma
resta fermo che per pubblicità ingannevole si intende quella che induca o possa
indurre in errore, pregiudicando l’economia e la concorrenza; e che la
pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale, ed è vietata ogni
forma di pubblicità subliminale.
L’esame
dei dati normativi e l’approfondimento del nostro ragionamento ci portano ad
affermare che, anche in campo forense, la distinzione da farsi non è tanto
quella, più volte sottolineata, tra informazione e pubblicità, bensì quella tra
pubblicità vera e corretta da una parte (informazione secondo correttezza e
verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli
obblighi di segretezza e riservatezza) e pubblicità ingannevole e fuorviante
dall’altra.
Infatti,
ogni messaggio informativo costituisce una forma di pubblicità, sia perché
questa è la definizione legislativa, sia soprattutto perché l’avvocato che
informa ha in realtà lo scopo di incrementare la propria clientela.
La
distinzione era già stata avvertita dal Ricciardi, che accanto alla parola
pubblicità utilizzava anche il termine propaganda, nella accezione deteriore,
che racchiude in sé la pubblicità ingannevole e gridata.
3.
L’evoluzione della normativa italiana
Il
percorso legislativo, non privo di logica ma viziato da errori di fondo, può
così essere sintetizzato:
Con
il “decreto Bersani” (decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in Legge 4
agosto 2006 n. 248) sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari
che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e
intellettuali il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa
circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del
servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni
secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio;
con
la c.d. ''Manovra bis'' (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in
legge 14 settembre 2011, n. 148), è precisato che la pubblicità informativa,
con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni
ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi
delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono essere trasparenti,
veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie;
con
il d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, art. 4 comma secondo, si afferma che la
pubblicità informativa deve essere funzionale all'oggetto, veritiera e
corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere
equivoca, ingannevole o denigratoria.
Infine
con la L. 31
dicembre 2012 n. 247, all’art. 10, è consentita all'avvocato la pubblicità
informativa sulla propria attività professionale, sulla organizzazione e
struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici
e professionali posseduti. La pubblicità e tutte le informazioni diffuse
pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere
trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri
professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive.
Attenzione:
l’ultima normativa in ordine di tempo, cioè la riforma dell’ordinamento professionale
forense, include le specializzazioni (nel senso precisato e disciplinato dalla
stessa legge) ma esclude i prezzi (compensi) delle prestazioni dal novero delle
informazioni che possono essere diffuse, così modificando le leggi precedenti.
Qual
è la ragione di questa scelta?
4.
I prezzi delle prestazioni
L’art.
17 del codice deontologico previgente proibiva l’invio di brochures informative
con la possibilità di risposte prepagate; tra i mezzi di comunicazione vietati
indicava l’utilizzazione di internet per l’offerta di servizi e consulenze
gratuite.
La
previsione dell’invio del modulo con risposta prepagata discendeva
probabilmente dal caso deciso dalla Corte di Versailles il 3 febbraio 1993.
In
quel caso uno studio legale associato aveva inviato a 5000 imprese della zona
di Versailles (soggetti determinati per territorio e attività, secondo
l’ipotesi estensiva) un cartoncino contenente informazioni ingannevoli sullo
studio e un modulo prepagato con l’invito ai 5000 potenziali clienti a
richiedere un bollettino bimestrale di informazione.
L’invio
del modulo con risposta prepagata è stato riconosciuto un atto proibito di
sollecitazione della clientela.
Quanto
all’offerta di consulenza e servizi gratuiti, essa era vietata non soltanto se
compiuta tramite internet, ma anche se contenuta in una lettera, in un opuscolo
o se svolta di fatto, salvi casi specifici.
All’interno
dei contenuti dell’informazione, si precisava che la rete internet e il sito
web possono essere utilizzati per l’offerta di consulenza, ma con indicazione
della vigente tariffa professionale (oggi abrogata) per la determinazione dei
corrispettivi.
Negli
anni ‘70 l’avvocato statunitense Bates fece pubblicare su un giornale questo
annuncio: Avete bisogno di un avvocato? Servizi legali a prezzi ragionevoli.
Divorzio o separazione legale dollari 175,00.
L’avvocato
Bates, inizialmente sanzionato dal suo ordine, vinse la causa.
La Corte
Suprema Federale USA
ha affermato che il divieto di pubblicità è incostituzionale perchè
contribuisce a impedire il libero flusso dell’informazione commerciale e a
tenere il pubblico nell’ignoranza.
L’avvocato
Bates, se riproponesse ai giorni nostri in Italia lo stesso annuncio, sarebbe
sanzionato per il mezzo utilizzato (il giornale), per il tenore dell’annuncio (forse
ingannevole nella sua semplicità) ma sarebbe ben più dubbia la sanzione per
l’indicazione del prezzo, se l’importo corrispondesse a quello ragionevolmente
prevedibile per una causa di divorzio; però, a rigore, l’ultima disciplina
legislativa esclude i prezzi dal novero delle informazioni che possono
lecitamente essere pubblicizzate.
Tuttavia,
se la deontologia è in gran parte derivante da quello che alberga nella
coscienza degli avvocati in un dato momento storico, non c’è dubbio che
l’indicazione dei prezzi, specie se tendenti al ribasso, sia considerato
riprovevole dalla maggioranza dei professionisti iscritti.
Mi
sembra quindi che la ragione della (re)introduzione del divieto di
pubblicizzare il prezzo delle prestazioni risponda a una esigenza diffusa e
comunemente sentita; la prova è data da una recente decisione, che qui
commentiamo.
5.
La sentenza Cass. Civ., SS.UU., 16 dicembre 2013 n. 27996
Con
questa pronuncia (nella quale non compare la parola pubblicità) la Suprema Corte
conferma la sanzione della censura irrogata dal Consiglio dell’Ordine di Milano
a un avvocato che aveva inviato oltre 10.000 mail a colleghi sparsi in tutta
Italia, offrendo servizi di domiciliazione e sostituzione dietro compenso e in
particolare scrivendo: I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte
potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso
per Cassazione da loro stessi predisposti.
Si
trattava di una buona occasione per prendere posizione sul problema dello
spamming inviato a soggetti molto numerosi, ma non indeterminati; infatti la
mail era indirizzata soltanto ad avvocati.
Il
Consiglio milanese, soffermandosi prevalentemente sulla questione posta
dall’art. 21 del codice deontologico (divieto di agevolare l’esercizio della
professione a soggetti non abilitati) e trascurando l’aspetto pubblicitario, ha
concluso irrogando una sanzione mite rispetto alla gravità dei fatti.
La
motivazione del CNF in sede di gravame, contenuta nella sentenza 29 novembre
2012 n. 177, contiene un passaggio chiaro ed esaustivo: Integra violazione dei doveri di correttezza
e probità la condotta di un Avvocato che invii in maniera indiscriminata, con
modalità sostanzialmente di "offerta al pubblico" (e che in tal modo
raggiunga oltre 10.000 Avvocati), una proposta di sottoscrizione di ricorsi
innanzi la Corte
di Cassazione predisposti da Colleghi privi dello specifico jus postulandi.
Infine,
il ricorso in Cassazione (poi rigettato) si concentrava soltanto sull’aspetto
relativo alla sottoscrizione dei ricorsi, senza far più riferimento alla
questione pubblicitaria.
Il
giudicato sulla pronuncia del CNF, comunque, sembra confermare la tesi già
espressa da chi scrive, cioè che la regola deontologica insita nella coscienza
degli avvocati vieta l’invio di lettere, e-mail, comunicazioni via internet, al
fine di evitare la diffusione di messaggi non richiesti non soltanto alla massa
indeterminata, ma anche ad intere categorie, presso indirizzi comunque
reperiti; e tale attività (spamming) è vietata anche dalla normativa sulla
privacy.
Il
punto allora non è quello del soggetto determinato, bensì del soggetto già
conosciuto; e quindi, la possibilità di rivolgersi o meno al cliente
potenziale, fermi restando i metodi da utilizzare che non devono mai essere
contrari al decoro, come sarebbe il deposito di volantini negli ospedali, nelle
carceri o sotto i parabrezza delle auto.
Mi
sembra che questo nodo essenziale, nel quale possiamo rinvenire l’essenza e lo
scopo della pubblicità, non sia mai stato risolto dal codice deontologico, ma
possa essere deciso nel senso sopra accennato interpretando le regole
deontologiche in relazione a quelle civili e amministrative a tutela della
privacy.
In
tal modo sarebbe anche possibile fornire una informazione sui costi di massima
di un processo, contribuendo a rendere un po’ più trasparente la nostra
tariffa, che per i clienti è sempre stata oscura e che tale rimane, malgrado le
recenti semplificazioni.
6.
Il nuovo codice deontologico
Nella
seduta del 31 gennaio 2014,
in esecuzione dell’art. 65 della Legge 31 dicembre 2012,
n. 247, il Consiglio Nazionale Forense ha approvato il nuovo codice
deontologico, così modificando le disposizioni oggetto di questo commento.
Art.
17 – Informazione sull’esercizio della professione
1.
è consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività,
l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e
struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e
professionali posseduti.
2.
Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico,
debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non
ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative.
3. In ogni caso le informazioni offerte devono fare
riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
Art.
35 – Dovere di corretta informazione
1.
L’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale deve
rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza,
facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione
professionale.
2.
L’avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né
equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a
titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale.
3.
L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in ogni caso indicare il titolo
professionale, la denominazione dello studio e l’Ordine di appartenenza.
4.
L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo se sia o sia
stato docente universitario di materie giuridiche; specificando in ogni caso la qualifica e la
materia di insegnamento.
5.
L’iscritto nel registro dei praticanti avvocati può usare esclusivamente e per
esteso il titolo di “praticante avvocato”, con l’eventuale indicazione di
“abilitato al patrocinio” qualora abbia conseguito tale abilitazione.
6.
Non è consentita l’indicazione di nominativi di professionisti e di terzi non
organicamente o direttamente collegati con lo studio dell’avvocato.
7.
L’avvocato non può utilizzare nell’informazione il nome di professionista
defunto, che abbia fatto parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo
abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero non vi sia il
consenso unanime degli eredi.
8.
Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei
propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano.
9.
L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con
domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo
studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa
comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del
contenuto del sito stesso.
10.
L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che
non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante
l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni
al sito.
11.
Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi
di dignità e decoro della professione.
12.
La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione
della sanzione disciplinare della censura.
Le
nuove norme replicano quelle precedenti, confermando che non si potrà più far
riferimento al costo delle prestazioni utilizzandolo come veicolo per acquisire
clientela facendo leva sulla possibilità di risparmiare.
Inoltre,
i commi 3 e 9 chiariscono definitivamente il pensiero già da me espresso in
precedenti occasioni, nel senso che la pubblicità non deve essere anonima, ma
il professionista deve sempre identificarsi con il proprio nome, spendendo la
propria fama (se c’è) e i propri titoli.
Quindi
è vietato propagandare servizi legali in modo generico e senza nomi (il nostro
staff di esperti avvocati; un esercito di avvocati; ecc.); nonchè propagandare,
da parte di società, servizi legali a prezzi scontatissimi, non soltanto per la
viltà del prezzo (pareri a 20 euro, ma solo per oggi), quanto perchè l’avvocato
resta anonimo nella fase dell’offerta e viola anche il codice deontologico
sotto altro profilo, utilizzando un agente che ovviamente incasserà una
percentuale del compenso.
7.
Altra casistica
Il
nuovo codice deontologico, come sopra detto, indica i mezzi di informazione (e
le informazioni) consentiti e vietati.
Le
singole questioni saranno vagliate con riferimento alla concreta ipotesi,
analizzandola alla luce dell’intero codice deontologico.
Vediamo,
come esempio, questa incolpazione (seguita da sanzione): “per aver violato i
doveri di correttezza, probità e verità avendo pubblicato o comunque
acconsentito alla pubblicazione, sul sito (omissis).it, della dichiarazione
avente il seguente tenore letterale: “...
raccoglie testimonianze di persone che hanno subito condanne o rinvio a
giudizio per causa di perizie ... e volessero agire giudizialmente, io sono
disponibile anche con il gratuito patrocinio. Avv. F.M. (penalista)”;
rappresentando nell’occasione, a tutti i destinatari della dichiarazione
stessa, la propria disponibilità al gratuito patrocinio, pur non essendo
iscritto nell’elenco degli avvocati disponibili al patrocinio a spese dello
Stato, sia per l’anno 2007 che per l’anno 2008, fornendo in tal modo informazioni
non veritiere sulla propria attività professionale.”
Cass.
Civ., SS.UU., 13 novembre 2012, n. 19705 conferma la necessità di valutare caso
per caso:
In
tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa
che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi
dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, poiché l'abrogazione del
divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività
libero-professionali, stabilita dall'art. 2 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223,
convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, non preclude all'organo
professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio
pubblicitario, quando non conforme a correttezza, in linea con quanto stabilito
dagli artt. 17, 17-bis e 19 del codice deontologico forense, e tanto più che
l'art. 4 del d.P.R. 3 agosto 2012, n. 137, al comma secondo, statuisce che la
pubblicità informativa deve essere "funzionale all'oggetto, veritiera e
corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere
equivoca, ingannevole o denigratoria". (La S.C. ha confermato la decisione impugnata, che
aveva affermato costituire illecito disciplinare l'inserimento nel
"box" pubblicitario di un giornale di uno slogan sull'attività
svolta, con grafica tale da porre enfasi sul dato economico dei costi molto
bassi, contenente elementi equivoci, suggestivi ed eccedenti il carattere
informativo).
CNF,
15 ottobre 2012, n. 152 conferma indirettamente (sempre facendo riferimento
alla disciplina previgente) quanto affermato:
L'art.
2 del d.l. n. 223/2006, convertito nella n. 248/2006, abrogando le disposizioni
che non consentivano la c.d. pubblicità informativa relativamente alle attività
professionali, non ha affatto abrogato l'art. 38, comma 1, del r.d.l. n.
1578/1933, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità ed al
decoro professionale. Dovendosi pertanto interpretare alla luce di tale
disposizione le norme di cui agli artt. 17 e 17 bis del codice deontologico
forense, la pubblicità informativa deve essere consentita nei limiti fissati
dal codice deontologico e comunque deve essere svolta con modalità che non
siano lesive della dignità e del decoro professionale.
Il
codice deontologico forense, infatti, a seguito dell'entrata in vigore della
normativa nota come "Bersani", consente non una pubblicità
indiscriminata (ed in particolare non comparativa ed elogiativa), ma la
diffusione di specifiche informazioni sull'attività, anche sui prezzi, i
contenuti e le altre condizioni di offerta di servizi professionali, al fine di
orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella
libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. La
peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione
sociale, impongono tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria ed alla
costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le limitazioni
connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è
dall'ordinamento affidata al potere-dovere dell'ordine professionale.
La
sentenza sopra riportata afferma la legittimità del riferimento ai prezzi, ma
si deve tener conto della modifica legislativa che, come sopra illustrato, li
esclude dalle informazioni che possono lecitamente divulgarsi.
Cass.
Civ., SS.UU., 10 agosto 2012, n. 14368 sembra confermare la tesi in base alla
quale la pubblicità mira all’acquisizione di nuova clientela, pur dovendosi
mantenere nei limiti sopra ampiamente evidenziati.
In
tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa
finalizzata all'acquisizione della clientela costituisce illecito, ai sensi
dell'art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, e degli artt. 17 e 17-bis
del codice deontologico forense, ove venga svolta con modalità lesive del
decoro e della dignità della professione. A tal fine, invero, resta irrilevante
sia che il d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 abbia disciplinato esaustivamente la
materia della pubblicità ingannevole e comparativa, attribuendo i poteri sanzionatori
all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in quanto questi non
attengono alle violazioni del codice di deontologia forense, sia che l'art. 2,
comma primo, lett. b), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. dalla legge 4
agosto 2006, n. 248, consenta di svolgere pubblicità informativa, siccome la
disposizione non incide sul rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto
con cui la pubblicità informativa è realizzata, sia, infine, che l'incolpato si
sia immediatamente adeguato al modello comportamentale suggerito
dall'incolpazione, giacché non esiste alcuna norma nel sistema disciplinare
forense che escluda l'illecito in ragione del cd. "ravvedimento
operoso". (Nella specie, la
C.S. ha confermato la decisione impugnata, che aveva irrogato
la sanzione della censura a carico di un avvocato, per avere lo stesso
utilizzato presso l'ufficio e nel sito "web" le espressioni
"L'angolo dei diritti" e "negozio", ritenendo le stesse di
carattere prettamente commerciale ed eccedenti l'ambito informativo razionale).
Infine,
la sentenza Cass. CIv. SS.UU., 3 maggio 2013 n. 10304 completa il quadro
occupandosi della pubblicità mascherata da articolo giornalistico/intervista
(vietata in quanto tendente a ingannare), valutandone anche il contenuto.
Nella
fattispecie il titolo dell’intervista sembrava evidenziare una speciale
competenza dei professionisti in materia commerciale e societaria
internazionale, mentre il contenuto riguardava struttura dello studio,
competenze diverse e numerose fotografie.
Malgrado
il caso specifico (cioè l’illecito contestato) risalga al 2007, la Suprema Corte
analizza anche la normativa in tema di pubblicità informativa introdotta
successivamente, fino al d.P.R. 3 agosto 2012 n. 137.
La
pubblicità forense è quindi diversa rispetto a quella commerciale, senza alcuna
assimilazione della professione all’attività di impresa.
Le
norme sopra riportate affermano, in linea con il codice deontologico, che la
pubblicità in senso tradizionale (esaltazione di un nome, di un marchio, di un servizio,
anche senza evidenziare le sue caratteristiche) è vietata.
Quella
consentita è solo l’informazione su attività professionale, specializzazioni e
titoli professionali posseduti, struttura dello studio e compensi (ma oggi
questi ultimi non più).
La
sentenza, per sgombrare il campo da ogni equivoco, analizza anche la normativa
europea dalla quale, secondo i ricorrenti, deriverebbe un principio di assoluta
libertà pubblicitaria: e smonta la tesi precisando che nulla autorizza una
lettura della normativa comunitaria nel senso che essa consenta la
realizzazione della pubblicità professionale anche con modalità classificabili
come "pubblicità occulta" o che siano lesive della dignità e del
decoro della professione: in verità, nel caso di specie, non è in discussione
il "diritto" al libero esercizio di una "pubblicità
promozionale" dell'attività professionale, bensì esclusivamente la
modalità secondo la quale detta pubblicità sia realizzabile nel doveroso
rispetto di precisi e specifici limiti deontologici disciplinarmente rilevanti.
Il
principio che resta fermo, allora, è quello già ben enucleato da Cass. Civ.,
SS.UU., 18 novembre 2010, n. 23287:
Il
precetto della norma generale è: “non commettere fatti non conformi al decoro
ed alla dignità professionale”.
Da
tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di
un precetto per il caso specifico, sia pure - come ogni precetto - ancora in
astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e
suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del
decoro e della dignità professionale”.
“...
diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria
attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità
non possono ledere la dignità e il decoro professionale, in quanto i fatti
lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare”.
8.
La casistica mai sanzionata: Enjoy Avvocato
Fin
qui la teoria (anche se confortata da dottrina e giurisprudenza).
La
pratica è cosa diversa: basta digitare su un motore di ricerca le parole
“avvocato specializzato” per trovare una casistica amplissima e persino
divertente in alcune manifestazioni auto elogiative.
Ma
la prassi, come si sa, non sempre coincide con la Legge: vedremo se i nuovi
Consigli distrettuali di disciplina, istituiti proprio dalla Legge 31 dicembre
2012 n. 247, riusciranno ad arginare il fenomeno.
La
mia preoccupazione discende dalla sanzione edittale prevista dal nuovo codice
deontologico nella (sola) censura: non mi sembra idonea a scoraggiare
comportamenti come quello del testo sotto riportato, ricevuto via mail da
numerosi colleghi e sinistramente simile al caso deciso dalla Cassazione nella
sentenza sopra commentata:
Egregio
collega, il nostro studio legale da tempo esercita la propria attività su Roma
presso tutte le Magistrature Superiori del settore civile, penale ed
amministrativo, nonché presso i Giudici di Merito ricompresi nei distretti
delle Corti d’appello di Roma e di Salerno.
La
nostra struttura è attrezzata per offrire servizi legali ai colleghi fuorisede.
In particolare i nostri servizi ineriscono:
1.
le domiciliazioni per tutti i procedimenti già incardinati o da incardinare
presso le Magistrature superiori e/o i Giudici di Merito sopra indicati;
2.
sostituzioni in udienza presso tutte le magistrature;
3.
redazione e sottoscrizione atti (anche mandato congiunto) presso Corte di
Cassazione, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale;
4.
procedure davanti alle magistrature militari.
Qualora
interessato vorrà prendere contatti con codesto studio legale, via mail
preferibilmente o, comunque, chiamando ai recapiti telefonici in epigrafe, per
specificare la natura dei servizi richiesti e ricevere entro 48 ore un
preventivo circa i costi afferenti.
Che
ne pensate del punto 3 sulla redazione e sottoscrizione di atti anche con
mandato congiunto presso la
Corte di Cassazione?
Ancora
qualche esempio per spiegare il titolo di questo paragrafo.
La
bevanda più nota al mondo pubblicizza il proprio marchio accompagnato dalla
parola “enjoy”. Non è necessario conoscerne la traduzione (godere, gustare,
assaporare) per ricevere il messaggio pubblicitario, che risiede nel nome
indicato a caratteri cubitali.
Oggi
come un tempo, la pubblicità consiste nella diffusione del marchio, coincide
cioè con l’antica indicazione in grassetto nell’elenco telefonico, con la
maggiore visibilità rispetto agli altri: non è necessaria, per la sua
efficacia, alcuna informazione supplementare, della quale l’utente non è in grado
di verificare l’attendibilità.
Se
digitiamo su un motore di ricerca le parole “avvocato specializzato” troviamo
ai primi risultati alcuni professionisti della nostra città.
Non
è un caso: la rete sa dove ci troviamo (l’abbiamo scritto su facebook) e il
sistema mette al primo posto chi, pagando di più, ottiene questa visibilità
senza bisogno di indicare alcuna informazione.
Se
poi ci addentriamo nei singoli siti, osserviamo violazioni costanti e ripetute
del codice deontologico (sia vecchio che nuovo).
L’avvocato
H. di Dresda pubblicizza il proprio studio con una clip horror (la moglie ha
ucciso il marito con una sega elettrica). La scritta finale è “con un avvocato
matrimonialista non sarebbe mai successo”.
Struttura
dello studio? Titoli posseduti? No. Solo pubblicità.
Il
sito Buon avvocato ha creato un network nazionale di avvocati, rigorosamente
anonimi, con prima assistenza gratuita e costi estremamente contenuti; ha anche
costituito un albo professionale (ovviamente non legittimo) nel quale ogni interessato
può iscriversi.
L’avvocato
E.S. si dichiara specialista in materia di famiglia e delle successioni senza
indicare il conseguimento del titolo di specialista; questa violazione è
diffusissima malgrado il chiaro dettato del codice deontologico.
Sono
presenti informazioni generiche e auto elogiative, come ad esempio “il cliente
è costantemente informato sullo stato della sua pratica”.
Il
sito Pronto Legale offre consulenza legale da parte di avvocati, anche qui
rigorosamente anonimi, al prezzo di € 39,90.
L’avvocato
M. A. si dichiara specializzato in materia di trasporto passeggeri e merci e
nel patrocinio innanzi alle commissioni tributarie, senza indicare
l’attribuzione di tale specializzazione.
Offre
altresì assistenza fiscale ai privati mediante uno sportello CAF con sede
presso i locali dello studio (quest’ultimo aspetto meriterebbe una verifica).
Molti
dei siti esaminati sono costruiti dallo stesso gruppo imprenditoriale e sono
corredati da fotografie non riferibili allo studio ma che ritraggono modelle o
attori.
Infine,
da premiare per l’originalità l’avvocato A.C. (non sono io!) che indica tra i
settori di attività quello degli incidenti mortali e assiste i propri clienti
anticipando o rimborsando tutte le spese funerarie.
Del
resto, come sappiamo, il buon avvocato deve offrire assistenza globale.
(Da Altalex del 20.2.2014)