A
deciderlo è la Corte
di cassazione con la sentenza n. 45648 del 14 novembre 2013, che respinge il
ricorso dell’imputato, condannato in primo e secondo grado per i reati di
stalking e violenza sessuale.
Nel
giudizio di merito era emerso che la condotta dell’uomo, consistente in
minacce, insulti, atti di violenza e persecuzione, integrasse il reato di cui
all’art 612 bis del codice penale (stalking), considerando anche i suddetti
comportamenti avevano ingenerato una situazione di stress, paura e ansia
perdurante nella vittima oggetto dell’attenzione del molestatore. Veniva,
inoltre, ribadita la configurabilità del reato di violenza sessuale sulla base
delle dichiarazioni della vittima ai carabinieri, versione che era stata
ritenuto credibile dalla Corte d’appello.
Nel
ricorso la difesa tuttavia assumeva che sarebbero stati (anche) alcuni
comportamenti della donna ad incentivare l’atteggiamento dello stalker, dal
momento che era elle stessa a cercarne la presenza: comportamenti che, come
viene detto nel ricorso, si porrebbero in posizione antinomica con il concetto
di atti persecutori che presuppone una vittima alla mercè del suo aggressore ed
impossibilitata, quindi, a reagire.
Secondo
le argomentazioni della difesa, la ricerca di un contatto in via del tutto
autonoma da parte della donna persino dopo che da parte dell’imputato veniva
posta in essere una condotta minacciosa o aggressiva, dimostrerebbe, da una
parte, l’inoffensività della condotta persecutoria descritta dalla vittima, e,
dall’altra, una sua capacità reattiva in termini anche di indipendenza,
incompatibile con il concetto di stress enunciato dalla norma incriminatrice.
La
Cassazione ha tuttavia
sostenuto che la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la
configurabilità del reato di stalking «incombendo, in tale ipotesi, sul giudice
un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di
danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del
suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o
della necessità del mutamento delle abitudini di vita».
In
altre parole ad avviso della Corte occorre, in caso di reciprocità, valutare se
ci sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti,
tale da consentire di qualificare le iniziative minacciose e moleste come atti
di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un
meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura.
Lucia Nacciarone (da
diritto.it del 18.11.2013)