La sentenza 9 ottobre 2013, n. 22956 della Cassazione
civile, sezioni unite, conferma e consolida l’orientamento secondo il quale la
prescrizione quinquennale dell'azione disciplinare, stante la natura
pubblicistica della materia, è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del
giudizio disciplinare e anche in sede di legittimità (cfr. Cass. S.U. 11 marzo
2004 n. 5038; 26 giugno 2003, n. 10162; e più recentemente sentenza 7 dicembre
2012, n. 22266).
In passato la questione era controversa e secondo l’opinione più autorevole[i] l'azione disciplinare, per quanto concerne la prescrizione, è retta dalle disposizioni civilistiche; i corollari di questa impostazione dogmatica sono che il suo termine resta sospeso per tutto il corso del procedimento giurisdizionale innanzi al CNF (non così per quello innanzi al Consiglio locale, che ha natura amministrativa) e soprattutto – per quanto qui rileva – che detta prescrizione non possa essere rilevata d’ufficio.
L’orientamento oggi commentato si consolida in
direzione opposta, ma con alcune precisazioni.
La motivazione afferma (riportandosi pedissequamente
alla precedente Cass., sezioni unite, sentenza 7 dicembre 2012, n. 22266) che
l’eccezione può essere sollevata per la prima volta con il ricorso per
cassazione “allorché il relativo esame non comporti indagini fattuali”.
Come è noto, i cinque motivi che consentono alla
parte soccombente di ricorrere in Cassazione sono di puro diritto poichè rimane
escluso dal giudizio di legittimità ogni riesame del fatto relativo al merito
della causa.
Nel caso specifico, il merito della causa è la falsa
dichiarazione resa dall’avvocato al fine di incassare una somma di denaro.
Diverso è il fatto che riguarda lo svolgimento del
processo e quindi le sue eventuali invalidità (come direbbe il
processualista[ii] “non il fatto della lite ma il fatto interno al processo”).
Questi fatti interni al processo, che si deducono
come errores in procedendo, possono essere valutati solo con l’accesso diretto
al fascicolo.
Ci sembra quindi che la questione non vada posta in
termini di indagini di fatto, bensì come violazione del principio di
autosufficienza.
Secondo tale principio il ricorso deve consentire, in
base alla sua sola lettura, di comprendere le censure sollevate non bastando il
rinvio alla sentenza né ad altri atti, né alle risultanze istruttorie compresi
i documenti il cui contenuto va riportato con la precisa indicazione della sede
processuale ove il testo è rinvenibile.
Il ricorrente avrebbe dovuto quindi argomentare
meglio l’eccezione di prescrizione non limitandosi a dedurre che erano decorsi
otto anni dal fatto illecito, ma specificamente indicando anche gli atti
interruttivi del procedimento disciplinare innanzi al Consiglio dell’Ordine e
il decorso del termine quinquennale al loro interno.
La sentenza in commento indica alcuni di questi atti
interruttivi, ai quali aggiungiamo quelli più frequentemente richiamati in
giurisprudenza: la comunicazione di apertura del procedimento disciplinare, il
decreto di citazione e la notificazione della decisione.
Possiamo dunque concludere che l’orientamento
consolidato è nel senso della possibile rilevabilità d’ufficio della
prescrizione, sia dal Consiglio dell’Ordine che dal Consiglio Nazionale
Forense, e anche in Cassazione, ma (in quest’ultima sede) con i limiti
derivanti da ciò che emerge dalla sentenza del CNF, giacchè la Suprema Corte non
esaminerà direttamente gli atti della prima fase; inoltre che l’eccezione di
parte può essere proposta anche in Cassazione, ma avendo cura di specificare e
riportare tutti gli atti interruttivi verificatisi nella fase amministrativa
innanzi al Consiglio territoriale.
E ancora: la ratio di questa disciplina della
prescrizione si fonda su un “impulso pubblicistico che domina il suddetto
procedimento e sugli interessi di natura indubbiamente non privatistica che
esso mira a tutelare” (così Cass., sezioni unite, 2 giugno 1997, n. 4902).
Il procedimento disciplinare, quindi, non è dettato a
protezione dei professionisti bensì a tutela della collettività; l’interesse
dei singoli iscritti si identifica con quello collettivo, tendendo a sanzionare
(e, ove occorra, anche allontanare) chi non rispetta le regole deontologiche
dettate e condivise dal corpo professionale.
Tale interesse richiede pertanto che si proceda con
rapidità all’istruzione dei casi disciplinari, come confermano queste
divertenti massime:
“...gli atti interruttivi della prescrizione
verificatisi durante la prima fase amministrativa davanti al C.d.O. producono
soltanto effetti istantanei e dal verificarsi degli stessi comincia a decorrere
un nuovo termine quinquennale di prescrizione. Nella specie la delibera di
rinvio a giudizio era stata emessa ben oltre sei anni dopo la delibera di
apertura del procedimento che peraltro in quella data era comunque prescritto
in quanto aperto ben oltre cinque anni dalla commissione del fatto” (CNF, 10
novembre 2005, n. 139).
“Va dichiarata la prescrizione dell'azione
disciplinare qualora, ... tra la data dell'udienza dibattimentale nella quale
il procedimento è stato trattato e deciso dal Consiglio dell'Ordine e la data
del deposito della decisione, sia ampiamente decorso il relativo termine di cui
all'art. 51 r.d.l. n. 1578/33, termine pertanto a maggior ragione decorso tra
la notificazione del decreto di citazione a dibattimento e la data della
notificazione della decisione, atti cui può ascriversi efficacia interruttiva
della prescrizione” (CNF, 22 luglio 2011, n. 125).
(Da Altalex dell’8.11.2013. Nota di Antonino Ciavola)