Il rifiuto del presunto padre di sottoporsi all’esame
del Dna può assumere valore di prova per stabilire la filiazione anche nel caso
in cui sia accertato che la madre all’epoca del concepimento frequentava altri
uomini. Lo ha stabilito la Corte
di cassazione, con la sentenza 24361/2013, respingendo il ricorso di un uomo
residente ad Ascoli contro la sentenza della Corte di appello di Ancona che ne
dichiarava la paternità su istanza del figlio naturale.
La Suprema corte comincia infatti col ricordare che “ai fini
dell’accertamento della paternità naturale può essere utilizzato ogni mezzo di
prova (art. 269, secondo comma, c.c. ),” e dunque il giudice può basare il proprio giudizio
“anche su risultanze di valore probatorio
soltanto indiziario”.
Così, in applicazione di questo principio, la Corte di appello di Ancona
aveva qualificato “ingiustificato” il rifiuto di sottoporsi all’esame del Dna,
anche alla luce dell’ammissione del ricorrente di aver avuto rapporti sessuali
con la madre dell’istante.
Egli infatti non aveva contestato la “frequentazione
amorosa”, essendosi limitato a sostenere “ che nel periodo del concepimento
fossero altri .. a frequentare assiduamente la madre” del ragazzo.
Un dato considerato però “ininfluente rispetto
all’oggetto del decidere”, e cioè l’ accertamento dell’effettività del rapporto
di filiazione che “non potrebbe comunque essere escluso da un’eventuale
conferma della circostanza che la madre di quest’ ultimo fosse solita
frequentare assiduamente altre persone di sesso maschile”.
(Da ilsole24ore.com del 29.10.2013)