martedì 9 giugno 2015

L’avvocato può scambiare “due chiacchiere” col testimone?

Non qualsiasi rapporto dell’avvocato con i testi
sconfina nell'illecito disciplinare.
Vediamo entro quali limiti è possibile il contatto

Fra le diverse problematiche “deontologiche” che l’avvocato deve affrontare nell’esercizio della sua attività una delle più delicate è il rapporto dello stesso con i testimoni (ovvero, con le persone informate sui fatti, nel processo penale). E ciò per ovvi motivi che possono ricollegarsi ai rapporti con il cliente, alle dichiarazioni rese e di conseguenza all’esito (positivo o negativo) della causa), ma anche ai rapporti con la controparte e il giudice.

È quindi naturale che il codice deontologico forense abbia fissato una regola ad hoc sui rapporti dell’avvocato con i testimoni che è quella di cui all’attuale art. 55. Secondo la prima parte della disposizione, “l’avvocato non deve intrattenersi con testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”.

Com’è evidente non si tratta di un divieto assoluto, ma di una sorta di “disciplina” del contatto.

In sostanza, nulla sembra vietare all’avvocato di scambiare “due chiacchiere” con i potenziali testimoni o di andare a prendere un caffè al bar, purché i contatti non siano tesi ad ottenere un “vantaggio” processuale, ovvero ad esercitare appunto le forzature o le suggestioni finalizzate ad ottenere dichiarazioni favorevoli al proprio cliente e come tali sanzionate dal codice deontologico, con la sospensione dall’esercizio della professione da due a sei mesi.

Affinchè la condotta sia deontologicamente rilevante, secondo una recente sentenza del Consiglio Nazionale Forense (n. 112/2012) è necessario che l’avvocato, intrattenendosi con i testimoni, faccia “uso di argomenti ontologicamente idonei a provocare forzature o suggestioni del teste ovvero a creare una situazione psicologica della persona tale da alterare una non spontanea e/o falsa rappresentazione della realtà, funzionale ad ottenere dal teste delle deposizioni a favore della parte”.

E il precetto deontologico di cui all’art. 55 si applica inoltre in ogni rapporto con i testimoni (e segnatamente per quelli di controparte) “indipendentemente dalla circostanza che gli stessi debbano rendere la testimonianza o l’abbiano già resa” (Cnf, sentenza n. 200/2012).

Altra regola imposta dal comma 7 dell’art. 55 agli avvocati (e ai soggetti eventualmente delegati) è quella di non corrispondere alcun compenso o indennità sotto qualsiasi forma ai testimoni (anche se la disposizione recita testualmente “alle persone, interpellate ai fini delle investigazioni”). Resta salva, in ogni caso, la facoltà di rimborsare le spese debitamente documentate. La violazione di tale ultimo dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.


Marina Crisafi (da studiocataldi.it del 7.6.2015)