Così
hanno stabilito le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di cassazione, le
quali con sentenza n. 1002 del 20 gennaio 2014, hanno accolto il ricorso di un
legale, incorso nella sanzione della censura, a seguito di una presunta
violazione dell’art. 22 del codice deontologico.
Nella
fattispecie il legale aveva proposto ricorso avverso la decisione del Consiglio
dell’Ordine degli avvocati territorialmente competente, con cui le veniva
irrogata la sanzione disciplinare della censura per aver presentato,
nell’interesse di un proprio assistito, una querela nei confronti del primo
difensore senza aver adeguatamente esaminato la fondatezza delle accuse rivolte
al collega e senza avere tempestivamente informato di tale iniziativa il
Consiglio dell’Ordine competente. L’atto di querela era stato, in ogni caso,
materialmente presentato da un collega di studio.
In
particolare, con l’atto di querela si contestava al primo difensore di essere
venuto meno ai propri doveri professionali per non aver adeguatamente assistito
il proprio cliente nel corso di un giudizio civile da questi intentato nei
confronti dei suoi coeredi a seguito della morte del loro dante causa. Il
legale, nello specifico, veniva accusato di non aver informato il proprio
cliente in merito alla attività svolta dal proprio consulente di parte
nell’ambito delle operazioni peritali disposte dal giudice, conclusesi con
esito sfavorevole per il cliente.
Con
la sentenza in oggetto, i giudici di piazza Cavour hanno accolto le motivazioni
di ricorso avanzate dall’avvocato censurato, sostenendo che “contrariamente a
quanto statuito in sede di condanna disciplinare, l’avvocato censurato non ha
mai presentato personalmente alcun atto di denuncia-querela nei confronti del
collega né sotto il profilo formale (la presentazione era avvenuta da parte di
altro legale) né sotto il profilo sostanziale (nel contenuto veniva riportata
la volontà del soggetto querelante, ossia dell’assistito, unico sottoscrittore
dell’atto). Il legale si era limitato solo alla autentica della sottoscrizione
come richiesto dal disposto normativo del codice di rito penale.
“Infine,
– hanno continuato, tra l’altro, gli Ermellini – la norma deontologica non
imponeva né impone una valutazione fattuale improntata ad un ben maggiore
approfondimento dovendo agire contro i colleghi. Tale singolare affermazione
appare, difatti, in contrasto con elementari principi costituzionali, oltre che
foriera di una sorta di impredicabile “riguardo di categoria” imposta
all’esercente la professione forense in guisa di lex specialis ex non scripto
dal massimo organo disciplinare”.
Biancamaria Consales
(da diritto.it del 22.1.2014)