Diamo voce alla gente che soffre, al Paese
che soffre!
La
giustizia italiana è in uno stato di perenne emergenza, la professione di
avvocato in una crisi profonda e i partiti, chiusi nei Palazzi della Politica,
sono complici di questa grave situazione. Questo il quadro con cui si confronta
l’VIII Conferenza Nazionale dell’Avvocatura, durante la quale cercheremo di
fare un’analisi della società italiana, delle profonde trasformazioni del
tessuto economico del Paese e del ruolo e dei problemi, appunto, della
professione forense. Un’avvocatura, che anche sulla scorta di elementi di
autocritica, si propone ancora oggi come ceto intellettuale, con forti radici
nei valori liberali, con l’auspicio di poter continuare ad essere in futuro
protagonista delle necessarie riforme, per un effettivo cambiamento della
nostra malandata democrazia. In Italia con una “Giustizia Umiliata” e con i
“diritti” ridotti a “privilegi”, come recita il titolo stesso dell’assise,
assistiamo a un costante deterioramento delle garanzie costituzionali e dello
stesso Stato di diritto. La strada che ha portato a questo status quo è
lastricata da un decennio di cattive leggi, da un’assenza costante di confronto
con l’avvocatura, da un pericoloso, ma permanente ricorso alla decretazione di
urgenza e alla marginalizzazione del Parlamento e del ruolo di deputati e
senatori, come rappresentanti dei cittadini e dei territori. Desidero,
pertanto, introdurre la mia riflessione partendo dalle parole di un Avvocato
che fa parte della storia del diritto e della Giustizia italiana:
“Molte
professioni possono farsi col cervello e non col cuore.
Ma
l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un altruista, uno che
sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro
dolori e sentire come sue le loro ambasce.
L’avvocatura
è una professione di comprensione, dedizione e carità”
(L’Avvocato
- di Piero Calamandrei)
Le
autorevoli e intramontabili parole di Piero Calamandrei, padre fondatore del
nostro codice di procedura civile, senza dubbio tra i più illustri giuristi del
secolo scorso, impongono una prima importante riflessione, ad apertura di
questa VIII Conferenza dell’Avvocatura: contrariamente alle tendenze
politico-sociali degli ultimi anni, che cercano di svilire progressivamente il
ruolo dell’Avvocatura nella società moderna, occorre ribadire subito che per
essere un buon avvocato è necessario essere preparati, capaci ed efficienti, ma
non basta. Diversamente dalle altre
professioni, infatti, la scelta di esercitare l’avvocatura comporta
l’assunzione di un vero e proprio impegno sociale, per il perseguimento del
quale sono richieste doti umane che non si possono improvvisare e per le quali
bisogna essere, in certo senso, intimamente predisposti. Del resto, le
testimonianze dell’impegno sociale dell’Avvocatura italiana nella costruzione
dell’attuale Stato di diritto sono numerosissime, a partire dal contributo dato
dagli avvocati padri fondatori della Costituzione, primo tra tutti Enrico De
Nicola, avvocato, padre costituente, primo Presidente della Repubblica
Italiana, per continuare con la fondazione ad opera di altri illustri nomi
dell’Avvocatura del nuovo diritto civile e commerciale, del nuovo diritto
penale, amministrativo e del nuovo diritto del lavoro e sindacale. Il
contributo qualificato degli avvocati e degli accademici durante la costruzione
dello Stato italiano, era considerato talmente tanto determinante che costoro,
in virtù del proprio titolo, appartenevano automaticamente all’élite culturale
e politica dell’epoca. La forza e la nobiltà dell’Avvocatura, infatti, da
sempre sono state legate alla sua principale funzione di tutela dei diritti dei
cittadini e di promozione della legalità, ragion per cui la considerazione sociale
nutrita nei confronti della nostra categoria è sempre stata storicamente
altissima. Non a caso lo stesso termine “onorario”, riferito al compenso dovuto
all’avvocato per la propria prestazione professionale, affonda le radici nel
concetto di “onore della tutela”, che il professionista assume nei confronti
del cliente. Tuttavia, a fronte del ruolo di grande rilievo ricoperto in
passato dalla figura dell’avvocato, negli ultimi decenni abbiamo assistito ad
un progressivo declassamento della categoria forense, direttamente collegato
anche all’abnorme aumento del numero di avvocati ed alla inevitabile
dequalificazione generale dell’intera categoria, che tale fenomeno ha
comportato. È necessario che gli avvocati abbiano come riferimento lo spirito
che nel secondo dopo guerra spinse gli italiani a rinascere, dimostrando di
avere dignità e voglia di emergere con il sacrificio e la devozione alla
professione, a servizio dei cittadini e delle imprese, che mai come in questi
anni di enormi difficoltà hanno bisogno di competenza e preparazione per
risolvere i gravi problemi che li assillano. La crisi in cui versa attualmente
l’Avvocatura non può, infatti, semplicisticamente essere attribuita alla crisi
economico-finanziaria che si è abbattuta negli ultimi anni su buona parte dei
Paesi occidentali: la parabola discendente per l’Avvocatura, piuttosto, è
cominciata quando l’attività professionale è stata assimilata alle comuni
attività imprenditoriali, nella convinzione che le regole del libero mercato
concorrenziale potessero applicarsi anche alle professioni intellettuali ed in
particolare alla professione forense che coinvolge, più di ogni altra, tutta
una serie di interessi e di diritti costituzionalmente garantiti, che
richiedono per la loro tutela la predisposizione di regole ad hoc. La
liberalizzazione selvaggia delle professioni intellettuali, accompagnata da una
grave perdita di prestigio dell’Avvocatura registrata presso i cittadini, ha
segnato indelebilmente una certa sfiducia nel ceto forense, sensibilmente aggravata
anche dalla lentezza della Giustizia Italiana, tanto in ambito penale che
civile. Per i tempi di quest’ultima, è da escludere che il prolungarsi del
giudizio sia addebitabile all’avvocato, essendo pura fantasia la storia che
l’onorario aumenti in maniera direttamente proporzionale al protrarsi della
causa. È vero piuttosto il contrario: soltanto con la conclusione della
vertenza, l’avvocato riesce ad ottenere il compenso per l’attività
professionale, e non sempre! Non è facile offrire una ricetta che possa essere
considerata quale vademecum per la risoluzione delle annose questioni che
stritolano l'amministrazione della giustizia. E mentre tutto tende a realizzare
correttivi adeguati, troppo spesso , per incapacità ed incultura, non ci si
rende conto di alimentare una giustizia che viene percepita dai cittadini come
profondamente ingiusta. Al fine di evitare fraintendimenti e vuote speculazioni
di maniera, tese a creare stucchevoli ed inadeguate correnti di pensiero, la
cui unica cifra è l'arroccamento arrogante di fazioni che si contrappongono,
ritengo sia doveroso analizzare i temi oggetto delle tavole rotonde della
nostra conferenza. Per operare correttamente (anche al fine di evitare di
esautorare argomenti ed offrire anticipatamente soluzioni), credo sia opportuno
soltanto sollevare una serie di interrogativi che spero saranno recuperati da
parte degli illustrissimi relatori, divenendo oggetto di confronto dialettico.
Uno dei temi essenziali dell'Avvocatura è riconducibile al problema relativo
alla corretta gestione della giustizia civile. Col titolo della tavola rotonda
abbiamo inteso fotografare una realtà che annulla, purtroppo, le conquiste
centenarie del diritto. Del resto, che cosa rappresenta il diritto? Un insieme
di regole tese a garantire la pacifica convivenza sociale e civile. Credo di
non essere lontano dal vero, se affermo che il diritto rappresenta lo strenuo
baluardo della difesa delle aspettative dei cittadini ed è la base per la
realizzazione dell'eguaglianza sostanziale. È evidente, che quando faccio tali
affermazioni, le stesse sono afferenti ad un sistema democratico in cui la
norma è il principio di difesa dei più deboli. A questo punto, quindi, la
domanda da porsi rispetto alla attualità è la seguente :“la giustizia per come
è concepita oggi, è un diritto od un privilegio?”. Tutti i correttivi o
presunti tali, tutte le innovazioni che sono state proposte a livello
legislativo, sono realmente confacenti ad una giustizia che non sia privilegio?
Credo che in quest'ottica ci si debba interrogare, rispetto al tema essenziale
dell'amministrazione della giustizia e cioè: "la temporalità"! Un
sistema non è giusto, quando per riconoscere un diritto offre una risposta a
distanza di decenni. Un sistema non è giusto, quando i costi di un procedimento
sono superiori all'eventuale beneficio, che la parte riceverà dal risultato
positivo del processo che la vede protagonista. Un sistema non è giusto, quando
e fino a quando si tenti e si tenda a delegittimare l'Avvocatura sulla base di
uno sconsiderato e falso imperativo categorico, secondo cui i problemi della
giustizia si possono risolvere bypassando la figura dell'avvocato. Da qui
deriva e riparte una legittima considerazione, che pone un ulteriore importante
interrogativo: “perché sembra che le ultime riforme siano orientate a colpire
gli avvocati e non, invece, ad affrontare seriamente i problemi di gestione
della giustizia?”. Rispondendo correttamente a tali quesiti, forse, inizieremo
a porci nella giusta ottica, per tentare di risolvere i problemi che ci
assillano. Problemi che alla fine, se pur affrontati separatamente nella
attuale conferenza, sono legati da un unico comune denominatore, che ne
rappresenta la vera essenza. Un unico comune denominatore, individuabile nel
sostanziale disagio dei cittadini e delle imprese. Il disagio rappresentato da quel senso di
frustrazione ed abbandono che pervade le persone nel momento in cui avvertono
la distanza dello Stato, rispetto alla propria legittima aspirazione a veder
riconosciuti i propri diritti. In tal senso ed in quest'ottica, va affrontato
il tema della giustizia penale, che si interfaccia col diritto sacro ed
inviolabile della libertà. Molto spesso le prove raccolte sono suggestive e
finiscono per vanificarsi in sede dibattimentale ovvero determinano l’emissione
di Sentenze contraddittorie, che a volte fanno ritornare il caso al punto di
partenza, con la conseguenza che sia le vittime sia l’imputato-presunto
innocente crollino psicologicamente, coinvolgendo anche familiari e affini,
logorati ed estenuati dalla liturgia processuale. Un limite a tale anomalia è
paradossalmente rappresentato dall’istituto della prescrizione, che risale al
diritto Romano e si fonda su ragioni di certezza giuridica oltre che di
civiltà, al fine di porre un freno ai poteri pubblici, potenzialmente in grado
di tenere imputati e vittime in un’attesa infinita. Quante volte in questi anni
abbiamo assistito ad una gestione anche mass mediatica, in cui sono stati
calpestati i più elementari diritti ed il rispetto della dignità umana? Quante
volte sono stati sbattuti in prima pagina mostri costruiti a tavolino e
demolite persone, che dopo l'amaro calice di un processo ingiusto e dopo
un'assoluzione, non sono mai state adeguatamente riabilitate all'occhio
dell'opinione pubblica? Quante volte in questi anni ci siamo sentiti osservati
e spiati da un sistema di intercettazioni, inadeguato ed abusato nell'utilizzo?
Quante volte abbiamo assistito silenti ad ascese straordinarie, create ad arte
sulla base di processi eufemisticamente definibili fantasiosi ed il cui l'unico
risultato è stato quello di assicurare carriere politiche, a soggetti che forse
non lo meritavano? Quante volte e per quanto tempo, mentre da un lato ci
riempivamo la bocca col concetto di risocializzazione del reo e di rieducazione
della pena, dall'altro accettavamo un
sistema in cui il carcere è abbrutimento e troppo spesso diviene il
luogo in cui un soggetto si sente privato della propria umanità? La ulteriore
domanda, quindi, da porsi è: "se veramente tutto questo è accaduto(ed è accaduto) , non abbiamo, forse,
il dovere di denunciare un tale evidente fallimento? Ecco parchè questa
conferenza ambisce a porsi come la pietra da cui ripartire, per ricostruire
tutti insieme un sistema senza privilegi e privilegiati. Dove ognuno attende al
proprio ruolo, nella consapevolezza che solo remando nella stessa direzione
riusciremo a rinsaldare il contratto sociale e lo stato, passando attraverso
una buona amministrazione della giustizia. Una giustizia in cui i ruoli siano
chiari e definiti. Una giustizia in cui il cittadino risulta al centro,
l'avvocato rappresenta la difesa dei diritti ed il giudice la amministra
attraverso l’applicazione delle regole. Siamo stanchi, infatti, di verificare
che troppo spesso negli ultimi anni, alcuni giudici abbiano immaginato di
svolgere una funzione salvifica, ergendosi a giudici etici. Tanto non può e non
deve avvenire, in quanto ai giudici non è dato censurare i costumi, ma
applicare le norme del diritto! Ed è con questo spirito che dobbiamo perorare
un sistema in cui sia garantito, anche e soprattutto ai più giovani che si
avvicinano a questa straordinaria professione, la possibilità di veder
riconosciuto ed assicurato un percorso formativo di alto livello qualitativo.
In questo senso si dovrà immaginare un percorso, in cui sin dall'università si
debbano acquisire strumenti di elevata caratura e preparazione per il futuro
esercizio della professione forense. Per realizzare tutto questo, bisogna che
l'avvocatura faccia vibrare le corde della propria passione e si riproponga
fortemente quale classe dirigente, di un paese che ha sempre onorato col
proprio sacrificio e con la propria storia. Un'avvocatura che, rispetto alla
insipienza di politici troppo spesso inadeguati ed impreparati, non accetti
supinamente riforme quali quelle dell'ordinamento giudiziario, in cui la cifra
non è il contenimento dei costi e l'interesse dei cittadini, bensì, il
mantenimento di rendite parassitarie riconducibili a novelli feudatari, che
ricercano la propria sopravvivenza in partiti politici superati ed inadeguati.
Per questo motivo, oggi, abbiamo il dovere di cogliere una opportunità
irripetibile, offertaci dalla previsione dell'art. 39 della Legge
professionale. Abbiamo la possibilità, abbandonando la logica delle divisioni,
di intraprendere la strada di un'avvocatura forte e coesa. Un'avvocatura in cui
tutte le associazioni costituiscano una risorsa in un percorso che, attraverso
il ruolo centrale dell'Oua , esprima una posizione unica. Per troppi anni,
hanno parcellizzato le nostre istanze rendendole meno forti. È arrivato,
dunque, il momento di parlare attraverso una voce sola! Abbandoniamo le logiche
divisive ed intraprendiamo una battaglia che non sia, finalmente, di
retroguardia, ma che ci ponga al centro del dibattito culturale e sociale del
paese. Tutto questo, per affermare e rivendicare che le riforme vanno fatte
parlando con la gente, vivendo i territori e non restando colpevolmente seduti
dietro scrivanie di cui non si conosce il valore, perché non guadagnate col
sacrificio. Diamo voce alla gente che soffre, al paese che soffre! Ed anche se
tutto, in questi ultimi anni sembra sfiorire ed appassire, io continuo a
coltivare una speranza ed ad inseguire un sogno. Continuo ad immaginare che
possa esistere una risposta positiva rispetto alla legittima domanda:
"Quale giustizia senza diritti?" La mia risposta è semplice e breve:
"la giustizia è diritto, e sino a quando ci sarà un uomo, un cittadino, un
avvocato pronto a battersi per la tutela di un altrui diritto, avremo la
certezza di vivere in un tempo in cui lo stato non è ordine, ma società".
(Da Mondoprofessionisti
del 17.1.2014)