Tribunale Varese, sez. I civile,
sentenza 14.3.2012
Il
nato morto non può considerarsi "persona", poiché il feto, pur
essendo senz’altro un soggetto titolare di interessi meritevoli di protezione
non è una persona fisica in senso tecnico-giuridico. Non essendo nato, non
acquista situazioni giuridiche soggettive risarcitorie che possa trasferire
agli eredi. E' quanto ha stabilito la Prima Sezione Civile del Tribunale di Varese, con
la sentenza 14 marzo 2012.
A
seguito di un intervento di parto cesareo, veniva estratta dall'utero materno
una bambina priva di segni vitali, a causa di un ematoma del cordone
ombelicale. Nonostante gli sforzi compiuti oer rianimare la piccola, questa non
riusciva a sopravvivere. L'autopsia svolta in un secondo momento aveva rilevato
che la bambina era nata senza aria nei polmoni e, quindi, nata morta.
La
parte attrice citava in giudizio l’ospedale convenuto ed il sanitario che aveva
svolto l'operazione, per ottenere il risarcimento dei danni subiti, in
particolare il danno da perdita di chance, ritenuto trasferibile jure
hereditatis, deducendo la sussistenza di nesso causale tra la condotta imperita
dei convenuti ed il decesso della bambina.
Per
insegnamento costante, la nascita del feto corrisponde alla completa
fuoriuscita dal corpo materno. La fuoriuscita del feto, comunque essa avvenga,
non è un requisito sufficiente per considerare il soggetto "nato",
essendo necessario l’ulteriore requisito dell’atto respiratorio: il feto,
fuoriuscito dall’alveo materno, deve respirare, anche senza avere un'attitudine
a vivere di vita autonoma.
Come
evidenziato dai giudici di merito "L’accertamento della nascita, passa per
prove scientifiche che sono note per la credibilità oggettiva e riconosciuta
dalla letteratura scientifica: in particolare, il feto che, all’esito
dell’esame autoptico, non abbia aria nei polmoni, non può definirsi nato vivo,
proprio perché sussiste la prova che non ha respirato".
Di
conseguenza, nessun danno può essere vantato dai genitori, jure hereditatis, né
soprattutto quello “tanatologico”. Infatti, premesso che i diritti assoluti
primari alla salute e alla vita, sono distinti, la lesione dell'integrità
fisica con esito letale non può considerarsi la più grave forma possibile della
lesione alla salute perché la tutela di questo bene implica che il soggetto
leso resti in vita menomato, mentre se la persona offesa muore la morte
impedisce che la lesione del bene giuridico della salute sia risarcibile per colui
che non è più in vita. Pertanto va esclusa la risarcibilità del danno c.d.
tanatologico iure hereditatis.
Sulla
base di tali considerazioni, secondo i giudici del Tribunale di Varese, la
domanda dei genitori deve essere intesa come generale richiesta di risarcimento
del danno non patrimoniale, anche se la parte attrice, tuttavia, incorre in un
errore concettuale, postulandio la risarcibilità di un danno da perdita del
congiunto e, cioè, da perdita del rapporto parentale.
Questo
danno non è configurabile posto che i genitori hanno perso il frutto del loro
concepimento, ovvero il feto, e non il figlio.
Qualificato
il risarcimento del danno richiesto dai genitori come generico danno non
patrimoniale, i giudici territoriali ritengono sussistenti sia la sofferenza
morale subita dai genitori che la perduta possibilità di programmare ed attuale
lo sviluppo della famiglia. Su tale punto, però, precisano che
"trattandosi di perdita di una speranza di vita e non di una vita, le
tabelle milanesi giurisprudenziali sul danno parentale, elaborate per la
perdita della persona viva, non sono direttamente utilizzabili, se non come
parametro orientativo".
(Da Altalex del
21.5.2012. Nota di Simone Marani)