Per l’efficacia degli anni di iscrizione alla cassa ai fini previdenziali, occorre che il professionista dimostri l’esercizio continuativo della professione in assenza di situazioni di incompatibilità.
In questa sede, nell’approfondire la tematica, vedremo di esaminare l’incompatibilità tra esercizio della professione forense e l’attività commerciale, attività che l’art. 3 della Legge Professionale forense (R.D.L. 27.11.1933 n. 1578, come convertito nella L. 22.01.1934 n. 36 e successive modifiche) descrive come “esercizio del commercio in nome proprio o altrui”.
L’ ‘esercizio del commercio in nome proprio’ si realizza in quei casi in cui il professionista sia titolare di impresa commerciale, sia formalmente che di fatto (imprenditore occulto).
In tali ipotesi, la ratio dell’incompatibilità viene ravvisata nel perseguimento in prima persona, con la gestione dell’azienda, di interessi strettamente personali, a rigore contrastanti col dovere professionale di tutelare in primo luogo gli interessi del cliente.
Inoltre, l’avvocato sarebbe esposto al rischio del fallimento e alle conseguenti limitazioni dei diritti civili e della capacità di agire, con pesanti rilessi sul libero esercizio della professione e sull’onorabilità della stessa.
Con l’espressione ‘esercizio del commercio in nome altrui’, invece, si devono anzitutto intendere i casi di mandato institorio o procura generale per la gestione di impresa commerciale di terzi conferiti all’avvocato. Dette ipotesi configurano sostituzione nella gestione dell’impresa ed esercizio di attività commerciale da parte del professionista in nome di altro soggetto, al perseguimento del cui interesse l’avvocato risulta legato da rapporto negoziale in grado di condizionare la libera determinazione nella tutela degli interessi del cliente.
Si ha esercizio di commercio in nome altrui anche nei casi in cui l’avvocato sia socio (anche occulto) di società semplice, in nome collettivo o accomandatario di società in accomandita semplice, svolgendo in tali casi attività di impresa in nome di un soggetto terzo (la società, per l’appunto).
L’incompatibilità viene affermata in tutti i casi in cui l’avvocato sarebbe chiamato a rispondere in proprio ed illimitatamente delle obbligazioni sociali, per il solo fatto di rivestire la qualità di socio, a prescindere dal ruolo effettivamente svolto all’interno della compagine sociale.
Quanto alle società di capitali all’interno delle quali l’avvocato rivesta cariche sociali, l’incompatibilità viene ricollegata all’effettiva titolarità di poteri di gestione, esclusi quindi i casi di mera titolarità di poteri di rappresentanza o l’appartenenza ad organi collegiali all’interno dei quali la volontà del singolo non abbia autonoma rilevanza.
Si è affermato, pertanto, che sussiste l’incompatibilità per il Presidente del Consiglio di Amministrazione (salva l’ipotesi in cui abbia mere funzioni di rappresentanza), per l’Amministratore Unico e per l’Amministatore Delegato.
Si è ritenuto, conseguenzialmente, non costituire causa di incompatibilità con l’esercizio della professione forense l’assunzione della carica di Amministratore Unico o Delegato di società commerciali immobiliari qualora gli immobili di proprietà della stessa provengano da patrimonio personale o familiare e l’attività concretamente svolta sia consistita nella mera gestione di beni finalizzata al loro godimento, senza effettivo esercizio di impresa.
Infine, non sussiste incompatibilità in relazione alla carica di liquidatore di società di capitali, tenuto conto dello scopo non imprenditoriale dell’attività liquidatoria.
Franco Smania (da CF News)