Cass. Sez. Lavoro, Sent. 7.2.2014, n.
2837
Fa
parte dell’orario di lavoro il tempo impiegato per mettere e dismettere gli
indumenti necessari per lo svolgimento delle mansioni lavorative. Lo ha
stabilito una recente sentenza della Cassazione su ricorso presentato da un
lavoratore impiegato in un’industria alimentare, addetto alla lavorazione di
gelati e surgelati.
Nel
caso di specie, il ricorrente chiedeva all’autorità giudiziaria di attribuire
al tempo necessario per eseguire le operazioni di vestimento e di dismissione
degli abiti, richiesti dalle norme igienico-sanitarie, natura lavorativa e
dunque di imputarlo nella retribuzione.
Il
dipendente, per la particolarità delle mansioni svolte, era costretto ad
indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche, copricapo e indumenti intimi
forniti dall’azienda. Tale operazione richiedeva dai 15 ai 20 minuti che
costringevano il lavoratore a presentarsi sul luogo di lavoro in anticipo
rispetto all’orario di inizio dell’attività. La medesima operazione si svolgeva
alla fine della giornata lavorativa.
Il
giudice della Corte d’Appello, riformando la sentenza del giudice di prima
istanza, il quale aveva rigettato il ricorso, ha accolto le richieste del
lavoratore, condannando l’azienda a retribuire il tempo necessario per svolgere
le suddette attività preparatorie alle mansioni ordinarie.
L’impresa
datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che le
operazioni di vestimento, come le conseguenti operazioni di dismissione degli
abiti, sono richieste da norme imperative di legge, sottratte al potere
datoriale e, dunque, da questo non dipendenti. Inoltre, il CCNL applicato ai
dipendenti dell’azienda non fa alcun riferimento al “tempo tuta” ai fini della
definizione della retribuzione e dei riposi individuali.
I
giudici di legittimità hanno confermato la sentenza impugnata statuendo che
“per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di
orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad
essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di
quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera, e ciò consente
di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente
l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a
prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della
disciplina d’impresa (art. 2104 comma 2 cod. civ.) ed autonomamente esigibili
dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale
in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal
lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato
alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione
aggiuntiva”.
In
conclusione, “in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n.692,
art. 3, in
base al quale è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda
un’occupazione assidua e continuativa”, il tempo necessario per indossare la
divisa fa parte dell’orario lavorativo perché attività strettamente necessaria
e obbligatoria per lo svolgimento delle mansioni lavorative.
La
Suprema Corte ha,
dunque, definito la disciplina di un fenomeno, che è quello del “tempo tuta”,
in genere poco presente nei contratti di lavoro sia individuali sia di
categoria e dato una più precisa definizione di orario di lavoro ai fini della
retribuzione.
Lorenzo Pispero (da
filodiritto.com)