L’art. 245 del codice civile recita infatti che “Se la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, la decorrenza del termine indicato nell’articolo precedente è sospesa, nei suoi confronti, sino a che dura lo stato di interdizione. L’azione può tuttavia essere promossa dal tutore”.
La norma, a dir del ricorrente, in siffatta formulazione, poneva “l’incapace naturale nella medesima condizione del soggetto pienamente capace di intendere e di volere e di acquisire conseguentemente piena consapevolezza dei fatti che fondano l’azione”, ponendosi pertanto in contrasto coi principi di cui agli articoli 3 e 24 della carta costituzionale.
Riconoscendo fondato il ricorso, sollevato in occasione di un procedimento civile pendente dinanzi al Tribunale di Catania, i giudici della Consulta hanno affermato che la norma parifica il soggetto capace a quello incapace di fatto, e ne deriva pertanto in’irragionevole disparità di trattamento a danno degli individui che si trovano in condizioni di abituale e grave infermità di mente, sia essa accertata o meno con provvedimento di interdizione. La tutela disciplinata dal codice civile non si ancora alla perdita della capacità di agire in senso soltanto formale, proclamata dal riconoscimento dello status di interdetto, ma deve essere riconosciuta in ogni ipotesi ove, di fatto, sussiste una condizione di menomazione del soggetto, di natura intellettiva e volitiva.
Per detti motivi la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine di cui all’articolo 244 del medesimo codice, non suscettibile di interpretazione analogica, risulti sospesa pure verso il soggetto, non formalmente interdetto, che si trovi in condizione di grave ed abituale infermità di mente, e finquando persista detta incapacità.
(Da Altalex del 30.11.2011. Nota di Laura Biarella)