di Antonino Galletti (coordinatore comm. Dir. Amm. OUA)
La sproporzione tra la domanda di giustizia dei cittadini e l’offerta di giustizia dello Stato è una delle cause, forse la principale, della crisi della giustizia nel nostro ordinamento. Il problema potrebbe (e dovrebbe) essere risolto – anche ai sensi degli artt.3, 24, 97 Cost. – col miglioramento dell’offerta di giustizia per renderla adeguata alla domanda. Purtroppo, in questi ultimi anni, complice la perdurante crisi economica, lo Stato è intervenuto in funzione diametralmente opposta, cercando di “contrarre la domanda, sviando le controversie dal giudice ad altri organismi, oppure attribuendo al giudice maggiori poteri, in modo che questi meglio potesse governare la domanda di giustizia” (Scarselli). In questa linea s’innestano gli ultimi (estemporanei) interventi sulla c.d. geografia giudiziaria che, anziché avvicinare ulteriormente i luoghi deputati a fornire risposte (ovvero le sedi giudiziarie) alle domande di giustizia dei cittadini e perciò al territorio in ossequio al principio di sussidiarietà ed alle tendenze impropriamente definite federaliste di talune parti politiche, mirano a “concentrare” la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari, prospettandosi addirittura la soppressione di 52 Tribunali, 200 Sezioni distaccate e 700 sedi del giudice di pace (De Tilla). Infatti, con la legge 14 settembre 2011, n. 148, è stato convertito in legge, con modificazioni, il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo ed è stata conferita la “delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari”. In particolare, l’art. 1 della citata Legge ha previsto:
1. al primo comma, la conversione in legge del D.L. 138/2011;
2. al secondo comma, che “il Governo, anche ai fini del perseguimento delle finalità di cui all'articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari al fine di realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza, con l’osservanza” di taluni “principi e criteri direttivi”, che sono dettagliatamente indicati nelle lettere da a) a q) del medesimo comma secondo della L. 148/2011.
Nella fattispecie, la straordinaria necessità ed urgenza dichiarata nel preambolo del decreto-legge n. 138 del 2011, non è stata neppure ripetuta nella legge di conversione n. 148 del 2011, la quale, invece, si è limitata ad introdurre, per la prima volta in sede di conversione, una disciplina – quella relativa alla riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari – della quale non vi è alcun cenno nel decreto poi convertito con modificazioni se non nell’art. 1 comma 2 che indica il fine del “perseguimento delle finalità di cui all'articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111” e, dunque, fa rinvio a quanto previsto da un decreto legge diverso e, oltretutto, già convertito con altra legge! Appare, così, evidente, il vulnus inflitto alla norma procedimentale prevista dalla Costituzione che limita l’adozione del decreto-legge ai soli casi di straordinaria necessità ed urgenza e sancisce la perdita di efficacia dello stesso decreto in caso di mancata conversione parlamentare entro i 60 gg. successivi alla pubblicazione. Solo in tal caso (e nella differente ipotesi del decreto legislativo, dove però la delega parlamentare interviene prima dell’inizio del procedimento di formazione legislativo) è consentito derogare al procedimento legislativo ordinario previsto dall’art. 72 della Costituzione.
Nella fattispecie risulta palese la violazione non solo dell’ iter ordinario di produzione legislativa (sancito dagli artt. 70 e 72) e di quello previsto per la c.d. decretazione d’urgenza (art. 77 co. 2), in quanto non sussistono – per espressa dichiarazione del legislatore, che neppure li ha enunciati con clausola di mero stile – ragioni di necessità ed urgenza a sostegno e supporto dell’introduzione, soltanto in sede di conversione, di una disposizione relativa alla riorganizzazione nella distribuzione degli uffici giudiziari, del tutto eterogenea rispetto al contenuto del decreto-legge convertito, anzi dichiaratamente legata ad altro decreto-legge (già oggetto di conversione con altra legge). Trattasi, dunque, per l’espressa ammissione contenuta nella legge di conversione, di una “norma intrusa” (Celotto) che introduce una nuova disciplina (e, propriamente, una delega al Governo a legiferare con successivi decreti legislativi in materia di riorganizzazione della distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio), evidentemente estranea all’insieme delle altre disposizioni del decreto-legge che il primo comma dell’articolo uno provvede a convertire. In conclusione, nella fattispecie appare evidente come sia stato compiuto un vero e proprio “stravolgimento” del sistema delle fonti e di quello di produzione normativo indicato nella Costituzione che qui viene invertito e “piegato” per giustificare esigenze certamente diverse da quelle di straordinaria necessità ed urgenza che invece sono le sole che legittimano il ricorso al decreto legge. La norma in esame sembra, quindi, essere incostituzionale, in quanto la sequenza procedimentale decreto-legge + legge di conversione è stata sostituita con la differente sequenza decreto-legge + legge di conversione che contiene (anche) una norma di delega al Governo a legiferare in futuro in materia del tutto estranea al decreto convertito, ma riferita ad altro e diverso decreto già convertito con altra legge di conversione. Inoltre, ciò comporta anche una palese violazione “sostanziale” dell’art. 15 della legge n. 400 del 1988 (recante la disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) che prevede che i decreti devono contenere norme di immediata applicazione ed il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo; inoltre, l’art. 15 della predetta legge vieta espressamente al Governo l’uso del decreto-legge per conferire deleghe legislative a se medesimo. Va, inoltre, tenuto presente che la disciplina dettata dalla legge n. 400 del 1988 ha nel nostro ordinamento valore “rafforzato” o almeno peculiare, in quanto i regolamenti interni, sia della Camera che del Senato, invitano le Camere a verificare il rispetto, da parte dei decreti-legge, dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente (e perciò dalla L. 400/1988) ed il Capo dello Stato, in un suo messaggio alle Camere, aveva già esaltato il valore regolamentare della legge in questione, chiedendone il rigoroso rispetto. Da ultimo, il Presidente Napolitano ha pure richiamato l'attenzione sull'ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche apportate nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (cosiddetto "milleproroghe") ed ha messo in evidenza che la prassi irrituale con cui si introducono nei decreti legge disposizioni non strettamente attinenti al loro oggetto si pone in contrasto con puntuali norme della Costituzione, delle leggi e dei regolamenti parlamentari, eludendo il vaglio preventivo spettante al Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti-legge. Ebbene, non si può non condividere l’autorevole ammonimento presidenziale secondo il quale “questo modo di procedere … si pone in contrasto con i principi sanciti dall'articolo 77 della Costituzione e dall'articolo 15, comma 3, della legge di attuazione costituzionale n. 400 del 1988, recepiti dalle stesse norme dei regolamenti parlamentari. L'inserimento nei decreti di disposizioni non strettamente attinenti ai loro contenuti, eterogenee e spesso prive dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, elude il vaglio preventivo spettante al Presidente della Repubblica in sede di emanazione dei decreti legge. Inoltre l'eterogeneità e l'ampiezza delle materie non consentono a tutte le Commissioni competenti di svolgere l'esame referente richiesto dal primo comma dell'articolo 72 della Costituzione, e costringono la discussione da parte di entrambe le Camere nel termine tassativo di 60 giorni.”. Deve, pertanto, riaffermarsi nella sua pienezza il principio costituzionale secondo il quale il potere normativo spetta in via generale al Parlamento e il decreto-legge ne rappresenta una deroga. Ne deriva che l’iter agevolato della legge di conversione appare giustificato soltanto dalla necessità di convertire in legge disposizioni dettate sul presupposto della straordinaria necessità ed urgenza. Il giudizio di (in)costituzionalità dell’art. 1 co. 2 della legge n. 148 del 2011 per la violazione del principio di legalità sostanziale e dei parametri costituzionali relativi alle fonti governative, deriva dall’obbligo per la Corte di salvaguardare la legittimità della disciplina delle fonti, essendo tesa anche alla tutela dei valori e dei diritti fondamentali.
(Da Mondoprofessionisti dell’8.11.2011)