Con la sentenza 30 giugno 2011, n. 14460 la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in tema di interpretazione del contratto, chiarendo che il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto stesso, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto.
In questo modo le singole clausole devono essere considerate in correlazione tra loro, dovendosi procedere al loro coordinamento ai sensi dell’articolo 1363 del cod. civ. e dovendosi intendere per senso letterale delle parole tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone.
Il giudice di merito - a cui è riservata l’opera interpretativa - dovrà collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato. Inoltre, i Giudici del Palazzaccio evidenziano che nell’impiego della tecnica ermeneutica basata sul contesto letterale dell’atto, occorre considerare che l’esatto significato lessicale delle espressioni adoperate può non corrispondere all’intenzione comune delle parti allorché i singoli vocaboli utilizzati possiedano un preciso significato tecnico - scientifico, che rimandi ad una branca dello scibile umano non necessariamente a conoscenza dei dichiaranti in tutte le sue implicazioni.
Ne consegue che, a fronte di una precisa e comune volontà delle parti di riferirsi ad una certa valenza semantica propria di determinate nozioni specialistiche, l’interpretazione letterale deve essere contestualizzata in maniera da scontare una ragionevole approssimazione alla materia richiamata. Solo in questo modo è possibile garantire la portata soggettiva del canone d’interpretazione letterale, essendo in caso contrario impossibile storicizzare l’espressione analizzata, dovendola riferire a dati oggettivi e astratti dipendenti da fattori estranei alla comune intenzione delle parti.
Tutto ciò non è stato compiuto nel caso specifico, dove i giudici di merito hanno interpretato un articolo del regolamento contrattuale - articolo 6 - in maniera difforme dai principi appena sopra richiamati e non hanno motivato in modo sufficiente in ordine alla concreta destinazione dell’immobile ad un uso contrario alla regola condominiale, anch’essa insufficientemente indagata.
Nella fattispecie affrontata la Corte di Appello di Napoli ha confermato la sentenza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva dichiarato illegittima la destinazione dell’appartamento di proprietà di un medico dermatologo a suo studio professionale. Al riguardo, la Cassazione critica l’operato dei giudici di merito, ritenendo errata l’opera interpretativa condotta. In particolare, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’intero contenuto della clausola di cui all’art. 6 del regolamento di condominio, di più ampio tenore, cosi come riportato dal ricorrente; ha decontestualizzato il richiamo contenuto nel regolamento a nozioni di carattere medico, ricavando le proprie conclusioni unicamente dalla circostanza astratta che anche le malattie contagiose possono rientrare nell’ambito di competenza della dermatologia; non ha accertato quale fosse l’effettiva destinazione dell’immobile, traendo quest’ultima non da un elemento di fatto concreto, ma solo dalla specializzazione medica di cui è in possesso il proprietario, dato sicuramente insufficiente in assenza di una complessiva interpretazione della clausola.
Per questi motivi la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli che dovrà decidere la causa attenendosi ai principi enunciati a con la sentenza 14460/2011.
(Da Altalex del 29.8.2011. Nota di Alessandro Ferretti)