Con sentenza n. 18745 del 13 settembre 2011, la Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione con cui i giudici di merito avevano escluso il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione per le lungaggini di un processo amministrativo instaurato da un cittadino nell’ambito di una lite ritenuta «temeraria», e ciò nonostante il primo grado di giudizio fosse durato ben oltre i termini indicati dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Secondo le previsioni della L. 89/2001 (cd. legge Pinto) la domanda di riparazione va proposta alla competente Corte d’appello e nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e può essere presentata sia durante la pendenza del processo del quale si lamenta l’eccessiva durata (giudizio presupposto), sia dopo l’avvenuta definizione del processo con sentenza definitiva, nel qual caso la domanda è sottoposta al termine di decadenza di sei mesi dal momento in cui la sentenza è passata in giudicato. La legge statuisce che, nell’accertare la violazione, il giudice debba valutare la complessità del caso, nonché il comportamento delle parti, del giudice del procedimento e di ogni altra autorità che abbia contribuito alla sua definizione.
Nella determinazione dell’indennizzo non si può dunque prescindere anche dal comportamento tenuto dalle parti, che deve essere improntato a diligenza, di modo che la valutazione di tale comportamento può determinare un a limitazione o addirittura l’esclusione del diritto all’equo indennizzo.
I giudici della 1ª sezione civile hanno, in proposito, sottolineato come il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della L. 89/2001 in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, spetti a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, e dalla consistenza economica o dall’importanza sociale della vicenda, salvi i casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che le parti abbiano artatamente prolungato la durata del processo allo scopo di ottenere un’equa riparazione, ovvero in caso di una lite temeraria, accompagnata, cioè, dalla piena consapevolezza da parte dell’interessato, dell’infondatezza delle domande avanzate nel giudizio presupposto. Di dette ultime situazioni è tuttavia la parte che le eccepisce che deve fornire la prova al fine di negare la sussistenza del lamentato danno, dovendo altrimenti ritenersi che esso si verifica di regola come conseguenza della violazione stessa, e che non abbisogna di essere provato neppure a mezzo di elementi presuntivi.
Nel caso di specie, osservano ancora gli Ermellini che la Corte di merito ha rigettato la domanda di equa riparazione ravvisando la temerarietà della domanda nella infondatezza della pretesa fatta valere, senza però evidenziare elementi idonei a configurare nella condotta del ricorrente una situazione di abuso del processo volta a realizzare il perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 2 della L. 89/2001.
Sulla base delle argomentazioni esposte, la Cassazione , nell’accogliere il ricorso, ha riconosciuto al ricorrente un risarcimento del danno quantificato, secondo i principi generali vigenti in materia, in 750 euro per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, ma limitatamente ai primi tre anni; per quelli successivi deve invece aversi riguardo al parametro di 1.100 euro, tenendosi conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno.
Anna Costagliola (da diritto.it del 16.9.2011)