“Il pregiudizio non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore dì lavoro, per cui non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare la illegittimità della condotta datoriale ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c., anche con presunzioni, del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con detta condotta”. Questo è quanto recita la sentenza n. 11527 del 14 maggio 2013 della Corte di Cassazione che ha preso in esame il ricorso di un lavoratore avverso la sentenza del giudice d’Appello che aveva considerato non provato il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla illegittimità del trasferimento.
Per la Corte d’Appello il danno esistenziale, perché sia accertato, deve essere provato dal soggetto che lamenta di averlo subito e “se è vero che il danno esistenziale consiste nell’obiettivo peggioramento delle condizioni di vita, conseguenza di un fatto che ha inciso su beni costituzionalmente protetti, e se è altrettanto vero che, nella specie, ci si trova dinanzi ad un fatto ingiusto del datore di lavoro che può avere inciso su diritti costituzionalmente rilevanti, collegati alla famiglia, alla vita di relazione ecc, è altresì vero che non è in re ipsa detto peggioramento.”
La Corte di merito – chiariscono i giudici di legittimità – ha riscontrato che il lavoratore, avrebbe dovuto almeno allegare quali conseguenze sul piano degli affetti e della vita di relazione avrebbe determinato il trasferimento e il poter fare rientro a casa circa una sola volta al mese, questo ai fini della concreta utilizzazione delle presunzioni dalle quali partire, perché se ne potesse rilevare il carattere di concordanza, univocità ecc, essenziale per considerare raggiunta una prova sufficiente ad affermare la verificazione di un danno.
“Nel caso in esame, non solo nulla era stato detto, ma risultava che già prima del trasferimento il lavoratore viaggiava e di fatto stava tutta la settimana fuori, così che di fatto non coltivava né relazioni né rapporti particolarmente stretti e continuativi con la sua famiglia, di talché, in realtà, nessuna modifica, in senso peggiorativo della sua qualità di vita poteva perfino ipotizzarsi.”
La Suprema Corte ha poi ricordato che “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno) va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative dì progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno”.
(Da leggioggi.it del 16.5.2013)