Nell'esporre qualche riflessione critica sulla nuova legge professionale è doveroso premettere due considerazioni.
La prima è che il momento di ragionevolezza che ha colpito il disciolto Senato al limite del suo mandato ha salvato l'avvocatura dalla umiliazione che le aveva inflitto il governo "tecnico".
Come è noto il decreto 137 dell'agosto 2012 aveva negato alla professione di avvocato una sua specificità inserendola in una disciplina comune a tutti gli altri ordinamenti professionali e aveva impresso una tendenza autoritaria e dirigistica al processo di regolamentazione.
Rifletteva inoltre una visione riduttiva del ruolo dell'avvocato, dequalificato al servizio della crescita economica, e oscurato della sua storica funzione di difensore dei diritti della persona in piena indipendenza nei confronti dello Stato e di ogni altro potere come sin dal 1988 è scolpito nel preambolo del Codice deontologico dell'avvocato europeo.
Avere ottenuto una regolamentazione specifica per la professione superando il decreto Monti ha rappresentato un risultato importante, e va condivisa la scelta che ha indotto l'avvocatura e le sue istituzioni a sollecitarne l'approvazione. Una scelta obbligata, poiché l'alternativa era quella di archiviare ancora una volta un disegno di legge di riforma con lo scioglimento del parlamento, come molte volte è avvenuto negli ultimi decenni.
La soddisfazione per il risultato raggiunto è quindi comprensibile. Si tratta infatti di una svolta importante che tuttavia ha soltanto ripristinato condizioni accettabili per costruire una professione moderna fondata sui principi dello stato di diritto e sui valori della società democratica. E che offre agli avvocati e alle loro istituzioni e associazioni una nuova opportunità per riflettere che la presenza degli avvocati nell'ordinamento giurisdizionale e nell'Alta Corte stabilita dalla Costituzione non è una benevola concessione, ma una precisa investitura di pubbliche responsabilità delle quali sono chiamati a rispondere alla collettività. Molto resta infatti da fare…
La seconda premessa è che tutto ciò che manca nella nuova legge, e ci riferiamo soprattutto ad anacronistiche sopravvivenze, a mancati riferimenti a valori e principi dell'attuale ordinamento costituzionale, ad una visione ristretta a un tecnicismo senza respiro culturale, può in qualche misura essere recuperato nei regolamenti e nel nuovo codice deontologico.
La circostanza che la legge sia stata approvata così come risultava dopo un incompleto travagliato e scoordinato percorso parlamentare per evitarne l'archiviazione, è ragionevole motivo per riconoscere ai regolamenti anche la finalità di integrarne e precisarne alcuni punti essenziali.
E decisivo sarà in questa prospettiva il compito del Consiglio Nazionale Forense e degli ordini.
I regolamenti di attuazione, forse troppo numerosi tra competenze del Consiglio Nazionale Forense e del Ministero della Giustizia, dovranno completare, e se possibile armonizzare, il nuovo quadro normativo e comporlo in un sistema che ne riveli più apertamente i fondamenti. Un quadro che dalla prima percezione, salvo alcune novità certamente di non trascurabile portata in materia di formazione, di specializzazioni e di disciplina, rivela come poco o nulla sia cambiato nei principi e nelle linee generali rispetto alla legislazione del 1933.
Un risultato può anche essere ottenuto nella prassi di interpretazione e applicazione delle nuove norme, sempreché non sopravviva il vizio del formalismo radicato nella cultura giuridica nostrana.
Si pensi, ad esempio, alla funzione interpretativa della giurisprudenza disciplinare ancora in gran parte ispirata all'ottocentesca tutela del decoro della corporazione anziché alla osservanza dei doveri e delle responsabilità verso la società e verso gli altri, oggi posti alla base delle moderne concezioni dell'etica professionale, e di cui si è discusso nella Conferenza europea promossa dal CNF e dalla Scuola Superiore nello scorso novembre sul tema della responsabilità sociale dell'avvocato europeo.
Si consideri, inoltre, il ruolo della formazione dei giovani e dell'aggiornamento, ancora stretti nelle letture codicistiche, mentre può costituire strumento di nuove conoscenze tecniche e culturali e di formazione di una coscienza europea.
Come è stato osservato la nuova legge ha arginato «la deriva mercatista impressa dal precedente disegno riformatore delle professioni iniziato col d.l. n. 138/2011» e culminato nel d.p.r. n. 137/2012 che aveva piegato la professione forense sul modello dell'impresa (Perfetti).
Ma ad essa non ha sostituito nulla di nuovo rispetto al tradizionale assetto dell'ordinamento approvato nel 1933, che manteneva l'impostazione, anche ideologica, della prima legge professionale del 1874.
Eppure da allora si può dire che sia cambiato il mondo, e, per quello che più da vicino ci riguarda, sono cambiati in Europa i rapporti tra Stati, società, persone, è cambiato il diritto, è stato fondato un nuovo sistema di valori e principi, e, in Italia, abbiamo approvato una Costituzione democratica.
Tali limiti sono evidenti nei primi articoli della legge che disegnano l'ordinamento forense, la professione e i doveri dell'avvocato.
Salvo un ovvio e generico riferimento al rispetto dei principi costituzionali e alla normativa comunitaria (ma non alla Carta dei diritti fondamentali dell'U.E.) ed ai trattati internazionali, le norme generali circoscrivono la specificità della professione alla sola funzione difensiva, ed i requisiti di libertà, autonomia e indipendenza sono riferiti esclusivamente alla rappresentanza e difesa in giudizio ed alla consulenza connessa alla attività giurisdizionale.
I doveri professionali e la deontologia sono inoltre riprodotti secondo nozioni già iscritte nell'attuale codice deontologico, enunciati in un elenco di per sé assai poco significativo e con il solo richiamo al «rilievo sociale della difesa» (ma non si tratta di un diritto costituzionale?) e al rispetto dei «principi della corretta e leale concorrenza» (riemerge qui il modello della professione-impresa).
Tali generiche espressioni sono applicabili ad ogni altra professione intellettuale e dimostrano che la specificità e il "rilievo sociale" della professione (requisito non esclusivo della professione legale) sono affermati limitatamente alla funzione tecnica svolta nel processo il che rappresenta tutto sommato una ovvietà.
Altra cosa è la specificità del ruolo della professione forense nella società e nella Costituzione, che l'avvocatura ha sempre rivendicato come fondamento di una regolazione normativa riservata alla funzione svolta esclusivamente dall'avvocato nel sistema giurisdizionale e delle garanzie costituzionali.
Gli stessi caratteri di indipendenza e di autonomia, circoscritti alla funzione processuale e di consulenza, eludono ogni relazione dell'avvocato e dell'avvocatura con la collettività nella tutela dei valori e dei principi fondanti dello stato di diritto e della società democratica.
Queste assenze e queste cautele appaiono ancor più ingiustificate se si considera quanto è avvenuto negli ultimi decenni nel mondo del diritto e della giustizia in Europa.
La responsabilità sociale dell'avvocato, già enunciata nel codice deontologico europeo del 1988 e nelle Linee Guida del CCBE del 2002, costituisce ormai una acquisizione al patrimonio etico e culturale dell'avvocatura europea.
Inoltre l'approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. con il Trattato di Lisbona del 2009 ha radicalmente innovato il mondo della giustizia, traducendo in principi e diritti il processo di identificazione dei valori fondativi dell'Unione, come enuncia con grande efficacia il Preambolo della Carta di Nizza in sintonia con la nostra Costituzione.
Si è affermato anche nei nostri congressi, ad es. con la dichiarazione approvata al Congresso nazionale di Genova, che l'applicazione della Carta dei diritti fondamentali nei rapporti tra privati, e quindi nella effettività della prestazione professionale, che rappresenta un grande strumento di civiltà non soltanto giuridica, è legata alla responsabilità istituzionale e politica dei giuristi e in particolare degli avvocati, come anche emerge dalla giurisprudenza delle corti europee.
Certo, come dimostrano le Carte storiche di recente pubblicate dalla Scuola Superiore del Consiglio Nazionale Forense, la lotta per l'affermazione dei diritti ha sofferto nei secoli recenti repressioni, e poi resistenze ed elusioni mascherate da astratte condivisioni.
La politica, infatti, ha sempre visto con diffidenza, se non con sofferenza, i diritti fondamentali delle persone e delle collettività, perché essi rappresentano un limite alla stessa discrezionalità del legislatore, e questo limite è presente anche nella nuova legge professionale.
Non si tratta dunque di voli teorici, ma di principi ai quali deve uniformarsi concretamente il nostro ordinamento in ogni settore.
Di recente la Presidente della Camera Laura Boldrini alla inaugurazione della Biennale della Democrazia di Torino ha richiamato allo «spirito profondo della nostra Repubblica», scolpito nell'art. 3 della Costituzione, e all'Europa dei diritti.
Negli stessi giorni il Presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, nella relazione sull'attività svolta nell'anno precedente, ha affermato la necessità che la Costituzione sia "interiorizzata" da parte di tutti perché operi con pienezza uscendo dalle aule giudiziarie «e divenendo cultura, senso comune, massima etica».
È questo l'orizzonte identitario culturale ed etico di una avvocatura consapevole delle proprie responsabilità, un orizzonte che a partire dalla nuova legge rappresenti il nostro vero progetto per il futuro.
Alarico Mariani Marini (da scuolasuperioreavvocatura.it)