Cass. Civ., sez. I, sent. 30.1.2013 n° 2183
Tale visione prende avvio e sostegno dalla precedente elaborazione giurisprudenziale del 2007 (cfr. Cass. Civ. n. 21099/2007; Cass. Civ. n. 3353/2007) nonché da quella successiva (cfr: Cass. Civ. n. 2274/2012) la quale va a scandire il diritto costituzionalmente garantito di non vedersi obbligati a mantenere in vita una convivenza non più desiderata, la cui dissoluzione non può essere fonte di biasimo giuridico e dunque di addebito della separazione.
Ebbene, la riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva già disarticolato la separazione dal presupposto della colpa, rendendo essa azionabile tutte le volte in cui vengano ad esistenza fatti che rendano intollerabile la prosecuzione della convivenza, indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi.
E’, comunque, a partire dagli orientamenti giurisprudenziali del 2007 (cfr: Cass. Civ. n. 3356 del 2007) che si è andati ad operare un ampliamento ermeneutico dell’art. 151 c.c., passando da una lettura oggettiva dell’articolo de quo (il diritto alla separazione si concretizza nel momento in cui la stessa si fondi su fatti che rendano intollerabile la prosecuzione della convivenza e, nell’accezione più restrittiva, nelle ipotesi in cui vi è una violazione degli obblighi familiari), ad un’altra di stampo manifestamente soggettivo, coincidente con la volontà di non voler più vivere insieme.
Invero, per i giudici di legittimità, quell’intollerabilità della convivenza, rilevabile alla luce di parametri soggettivi di valutazione, risulta essere “un fatto psicologico squisitamente individuale” che deve necessariamente essere riferito alla “formazione culturale, alla sensibilità ed al contesto interno alla vita dei coniugi”.
Dunque, la Cassazione con tale pronuncia ribadisce, in riferimento al controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della convivenza tra coniugi, tanto la necessità di un apprezzamento giudiziario oggettivo dei fatti generatori della suddetta incompatibilità, quanto una valutazione ed un sguardo apertamente soggettivo alla disaffezione ed al distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi.
In una “visione evolutiva del rapporto coniugale” che nella società odierna risulta connotato, ancor di più, da forti tratti di incoercibilità e consensualità, il giudicante, nel pronunciare la separazione, deve individuare, da fatti obiettivamente emersi nel corso del giudizio, l’esistenza, anche in uno solo dei coniugi, di elementi di disaffezione al matrimonio che rendano intollerabile la convivenza.
Al venir in essere di tale condizione, anche rispetto ad uno solo dei coniugi, si deve ritenere che questi possa proporre domanda di separazione non costituendo quest’ultima motivo di addebito.
Nel caso de quo, i giudici di legittimità affermano che, correttamente, la Corte d’Appello, senza porre l’accento sui comportamenti del ricorrente contrari ai doveri del matrimonio, ha rivolto la propria attenzione esclusivamente sui fatti oggettivi di causa, dai quali è emersa la disaffezione maturata dalla moglie.
Tale disaffezione è stata dedotta dai giudici del merito da due circostanze: a) la pregressa separazione dei coniugi, indice di una unione non felice; b) l’età della signora (70 anni) allorché si allontanò dall’abitazione coniugale, indicante il superamento del limite di tollerabilità dell’infelicità, in quanto ad un’età avanzata si avverte il bisogno di rimanere vicino ai propri cari, affinché si possa ricevere tutta la solidarietà morale e materiale di cui si necessita.
(Da Altalex del 18.4.2013. Nota di Nicola Gammarrota)