Massima
Per la configurazione di una condotta di "mobbing", l'illegittimità di un atto non è di per sé sufficiente. E' necessario infatti accertare l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione) e la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta, nonché la prova dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio (Cons. Stato, sent. 856 del 17.2.2012).
Premessa
Secondo il prevalente giurisprudenziale, per "mobbing", riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti, per il datore di lavoro, dall’art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta del datore stesso nei confronti del lavoratore protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili, che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica e da cui consegue la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente nell'ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell'equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo.
In quest'ottica, è stato precisato che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, sono necessari: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo
sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (1).
È stato, pertanto, messo in risalto che il tratto strutturante del "mobbing" - tale da attrarre nell'area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro - è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa ove questi opera.
Onere della prova
La regola generale dell'onere probatorio, alla stregua della quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata, trova integrale applicazione nel giudizio risarcitorio, nel quale non ricorre quella disuguaglianza di posizione tra amministrazione e privato che giustifica nel giudizio di legittimità l'applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo".
A mio avviso, va rilevato come il Consiglio di Stato (2) abbia enunciato che: "L'azione risarcitoria non è soggetta alla regola del principio dispositivo con metodo acquisitivo, bensì al principio dell'onere della prova (artt. 2697 e 115 cpc) in quanto inerente a processo avente ad oggetto diritti (risarcitori); ed invero trattandosi di giudizio che verte principalmente sull'esistenza delle condizioni perché un danno possa ritenersi ingiusto, occorre innanzitutto la prova della sua esistenza e del suo ammontare, consistente nella verifica positiva degli specifici requisiti e, in particolare, nell'accertamento di una effettiva lesione alla propria posizione giuridica soggettiva tutelata ovvero la violazione della norma giuridica che attribuisce la protezione a tale interesse" (v. art. 64, 1° c. cpc).
Rocchina Staiano (da diritto.it del 21.3.2012)