giovedì 12 dicembre 2013

Esame imputato: ammissibilità e valore probatorio, diritto al silenzio, libertà morale

Nel dibattimento, come disposto dall’art. 208 c.p.p., l’esame dell’imputato è ammesso a seguito di una sua richiesta o di consenso alla richiesta di altra parte, in ossequio al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. che si manifesta sotto l’aspetto attivo nel caso in cui l’imputato voglia interloquire nel processo per discolparsi, senza obblighi di verità, ovvero sotto l’aspetto passivo quando scelga di difendersi tacendo (diritto al silenzio individuato già in Corte Cost., sent. n. 361/1998).
La scelta del legislatore si fonda, in particolare, sulla presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. che, operando quale regola di giudizio e di distribuzione dell’onere
probatorio, impone al Pubblico Ministero la dimostrazione di tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice al di là di ogni ragionevole dubbio, escludendo invece un onere di difesa per l’imputato che, altrimenti, verrebbe ad essere nello stesso tempo accusatore e accusato.
L’unica soluzione rispettosa della presunzione di non colpevolezza è, dunque, quella di respingere l’idea di un obbligo di collaborazione a carico dell’imputato, il quale, anche laddove abbia prestato consenso all’esame, si vede sempre garantito il diritto di non rispondere, a norma dell’art. 64 co. 3 lett. b) c.p.p., per il principio nemo tenetur se detegere che si appalesa pure nella possibilità di mentire (Corte Cost., sent. n. 179/1994, «l’imputato non solo gode della facoltà di non rispondere, ma non ha nemmeno l’obbligo di dire la verità»).
Il mendacio difensivo viene così equiparato al silenzio tenuto dall’esaminando che “garantito all'imputato come oggetto di un suo diritto processuale, non può essere utilizzato, in contrasto con tale garanzia, quale tacita confessione di colpevolezza” (v. Cass. pen., sez. IV, 09.02.1996, n. 3241) … sicché la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell'imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale e complementare ed in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento dell'onere probatorio” (v. Cass., sez. I, 26.10.2011, n. 2653, nonché, conf. Cass. pen., sez. II, 21.04.2010, n. 22651 e Cass. pen., sez. V, 10.02.2006, n. 11590).
Il silenzio difensivo, infatti, evidenzia ulteriori aspetti problematici qualora sia adottato dopo aver prestato il consenso all’esame, poiché l’art. 209 c.p.p. dispone che “deve essere fatta menzione nel processo verbale” dell’esercizio dello ius tacendi rispetto alla specifica domanda rivoltagli. Sebbene la norma non chiarisca il parametro di valutazione probatoria da adottare, già la Relazione al codice di rito specificava che “una volta che una parte ha chiesto di sottoporsi ad esame diretto, essa non è più in grado di sottrarsi alle domande che le vengono formulate, tanto che ogni rifiuto di rispondere – di cui deve farsi menzione nel verbale – assumerà legittimamente argomento di prova”. Quest’ultimo concetto, tuttavia, è del tutto assente nel codice stesso, di conseguenza non si comprende se valga come “indizio” o rappresenti un tertium genus non meglio specificato.
Secondo un particolare orientamento, la valutazione quale argomento di prova deriverebbe dall’applicazione di una massima di comune esperienza, per la quale l’innocente – non avendo nulla da celare – è interessato a fornire qualsivoglia chiarimento e a non trincerarsi dietro al diritto di tacere, pertanto, il silenzio varrebbe come ammissione dell’impossibilità di fornire una spiegazione a sé favorevole.
Secondo altra interpretazione, il tacere determinate circostanze rientrerebbe legittimamente nella garanzia avverso l’autoincriminazione, essendo ipotizzabile che l’imputato, posto di fronte all’alternativa di ammettere la propria responsabilità per un reato diverso da quello per cui si procede e non rispondere a talune domande, preferisca la seconda soluzione.
Venendo poi alle tecniche di acquisizione della prova, l’art. 188 c.p.p. – libertà morale della persona nell’assunzione della prova – sancisce l’espresso divieto di utilizzazione di metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti.
La libertà morale, garantita ad ogni persona nell’assunzione della prova e perciò pure all’imputato sottoposto ad esame, si articola in due riferimenti specifici:
    Libertà di autodeterminazione, vietando l’impiego di metodi e tecniche tali da comprometterla e vanificarla;
    Capacità mnemoniche e valutative, vietando il ricorso a metodi e tecniche idonei ad alterarli.
Il principio generale è, dunque, il divieto di manipolare la psiche con mezzi di costrizione fisica o mentale, indipendentemente dalla volontà della persona, in linea con il presupposto panprocessuale – fondamentale nel nostro ordinamento – del rifiuto di ottenere la verità ad ogni costo, facendo così prevalere la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo rispetto alle esigenze di accertamento che, invece, rimangono l’onere probatorio della pubblica accusa.
La libertà morale rinviene il proprio fondamento costituzionale nell’art. 13 co. 4 Cost., ove si afferma la necessità di punire ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà; la libertà di autodeterminazione nelle proprie scelte difensive è – in altri termini – espressione dei diritti inviolabili della persona.
L’art. 188 c.p.p. vieta, pertanto, l’adozione di metodi – propri del modello inquisitorio – che, con il pretesto della ricerca della verità, giustificavano il ricorso a strumenti invasivi e destabilizzanti, tra i quali la tortura, senza però fornire un’esemplificazione dei mezzi introspettivi lesivi della libertà morale ivi sancita.
In dottrina si è detto che il poligrafo, limitandosi a registrare variazioni di alcuni indici fisiologici, potenzialmente riscontrabili nel momento in cui si rivolgono le domande, non sarebbe in contrasto con la libertà garantita all’esaminando.
Si è pure sostenuto che, in tal modo, gli elementi di valutazione verrebbero offerti dal comportamento anziché dalle parole dell’interessato, testimone del proprio pensiero, condizionato dallo stress e dalla ricerca inconsapevole di un controllo corporale nel momento in cui si procede all’assunzione della prova; qualora, invece, egli non volesse sottoporsi all’esplorazione della mente, potrebbe addirittura ingenerare il sospetto di non dire la verità.
Al di là di ogni valutazione politica, il dettato normativo esclude l’utilizzazione dei metodi e delle tecniche lesive della libertà di autodeterminazione, comportando l’inutilizzabilità della prova così ottenuta, “neppure con il consenso dell’interessato” considerato inidoneo a legittimarne la validità probatoria di un mezzo, invece, percepito in termini di aggressione a beni indisponibili da parte dell’individuo.

Antonella Manisi (da diritto.it dell’11.12.2013)