Nel dibattimento, come disposto dall’art. 208 c.p.p.,
l’esame dell’imputato è ammesso a seguito di una sua richiesta o di consenso
alla richiesta di altra parte, in ossequio al diritto di difesa di cui all’art.
24 Cost. che si manifesta sotto l’aspetto attivo nel caso in cui l’imputato
voglia interloquire nel processo per discolparsi, senza obblighi di verità,
ovvero sotto l’aspetto passivo quando scelga di difendersi tacendo (diritto al
silenzio individuato già in Corte Cost., sent. n. 361/1998).
La scelta del legislatore si fonda, in particolare,
sulla presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. che, operando quale
regola di giudizio e di distribuzione dell’onere
probatorio, impone al Pubblico Ministero la
dimostrazione di tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice al di là
di ogni ragionevole dubbio, escludendo invece un onere di difesa per l’imputato
che, altrimenti, verrebbe ad essere nello stesso tempo accusatore e accusato.
L’unica soluzione rispettosa della presunzione di non
colpevolezza è, dunque, quella di respingere l’idea di un obbligo di
collaborazione a carico dell’imputato, il quale, anche laddove abbia prestato
consenso all’esame, si vede sempre garantito il diritto di non rispondere, a
norma dell’art. 64 co. 3 lett. b) c.p.p., per il principio nemo tenetur se
detegere che si appalesa pure nella possibilità di mentire (Corte Cost., sent.
n. 179/1994, «l’imputato non solo gode della facoltà di non rispondere, ma non
ha nemmeno l’obbligo di dire la verità»).
Il mendacio difensivo viene così equiparato al
silenzio tenuto dall’esaminando che “garantito all'imputato come oggetto di un
suo diritto processuale, non può essere utilizzato, in contrasto con tale
garanzia, quale tacita confessione di colpevolezza” (v. Cass. pen., sez. IV,
09.02.1996, n. 3241) … sicché la negazione o il mancato chiarimento, da parte
dell'imputato, di circostanze valutabili a suo carico nonché la menzogna o il
semplice silenzio su queste ultime possono fornire al giudice argomenti di
prova solo con carattere residuale e complementare ed in presenza di univoci
elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento
dell'onere probatorio” (v. Cass., sez. I, 26.10.2011, n. 2653, nonché, conf.
Cass. pen., sez. II, 21.04.2010, n. 22651 e Cass. pen., sez. V, 10.02.2006, n.
11590).
Il silenzio difensivo, infatti, evidenzia ulteriori
aspetti problematici qualora sia adottato dopo aver prestato il consenso
all’esame, poiché l’art. 209 c.p.p. dispone che “deve essere fatta menzione nel
processo verbale” dell’esercizio dello ius tacendi rispetto alla specifica
domanda rivoltagli. Sebbene la norma non chiarisca il parametro di valutazione
probatoria da adottare, già la
Relazione al codice di rito specificava che “una volta che
una parte ha chiesto di sottoporsi ad esame diretto, essa non è più in grado di
sottrarsi alle domande che le vengono formulate, tanto che ogni rifiuto di
rispondere – di cui deve farsi menzione nel verbale – assumerà legittimamente
argomento di prova”. Quest’ultimo concetto, tuttavia, è del tutto assente nel
codice stesso, di conseguenza non si comprende se valga come “indizio” o
rappresenti un tertium genus non meglio specificato.
Secondo un particolare orientamento, la valutazione
quale argomento di prova deriverebbe dall’applicazione di una massima di comune
esperienza, per la quale l’innocente – non avendo nulla da celare – è
interessato a fornire qualsivoglia chiarimento e a non trincerarsi dietro al
diritto di tacere, pertanto, il silenzio varrebbe come ammissione
dell’impossibilità di fornire una spiegazione a sé favorevole.
Secondo altra interpretazione, il tacere determinate
circostanze rientrerebbe legittimamente nella garanzia avverso l’autoincriminazione,
essendo ipotizzabile che l’imputato, posto di fronte all’alternativa di
ammettere la propria responsabilità per un reato diverso da quello per cui si
procede e non rispondere a talune domande, preferisca la seconda soluzione.
Venendo poi alle tecniche di acquisizione della
prova, l’art. 188 c.p.p. – libertà morale della persona nell’assunzione della
prova – sancisce l’espresso divieto di utilizzazione di metodi o tecniche
idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la
capacità di ricordare e di valutare i fatti.
La libertà morale, garantita ad ogni persona
nell’assunzione della prova e perciò pure all’imputato sottoposto ad esame, si
articola in due riferimenti specifici:
Libertà di
autodeterminazione, vietando l’impiego di metodi e tecniche tali da
comprometterla e vanificarla;
Capacità
mnemoniche e valutative, vietando il ricorso a metodi e tecniche idonei ad
alterarli.
Il principio generale è, dunque, il divieto di
manipolare la psiche con mezzi di costrizione fisica o mentale,
indipendentemente dalla volontà della persona, in linea con il presupposto panprocessuale
– fondamentale nel nostro ordinamento – del rifiuto di ottenere la verità ad
ogni costo, facendo così prevalere la tutela dei diritti fondamentali
dell’individuo rispetto alle esigenze di accertamento che, invece, rimangono
l’onere probatorio della pubblica accusa.
La libertà morale rinviene il proprio fondamento
costituzionale nell’art. 13 co. 4 Cost., ove si afferma la necessità di punire
ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni
di libertà; la libertà di autodeterminazione nelle proprie scelte difensive è –
in altri termini – espressione dei diritti inviolabili della persona.
L’art. 188 c.p.p. vieta, pertanto, l’adozione di
metodi – propri del modello inquisitorio – che, con il pretesto della ricerca
della verità, giustificavano il ricorso a strumenti invasivi e destabilizzanti,
tra i quali la tortura, senza però fornire un’esemplificazione dei mezzi
introspettivi lesivi della libertà morale ivi sancita.
In dottrina si è detto che il poligrafo, limitandosi
a registrare variazioni di alcuni indici fisiologici, potenzialmente
riscontrabili nel momento in cui si rivolgono le domande, non sarebbe in
contrasto con la libertà garantita all’esaminando.
Si è pure sostenuto che, in tal modo, gli elementi di
valutazione verrebbero offerti dal comportamento anziché dalle parole
dell’interessato, testimone del proprio pensiero, condizionato dallo stress e
dalla ricerca inconsapevole di un controllo corporale nel momento in cui si
procede all’assunzione della prova; qualora, invece, egli non volesse
sottoporsi all’esplorazione della mente, potrebbe addirittura ingenerare il
sospetto di non dire la verità.
Al di là di ogni valutazione politica, il dettato
normativo esclude l’utilizzazione dei metodi e delle tecniche lesive della
libertà di autodeterminazione, comportando l’inutilizzabilità della prova così
ottenuta, “neppure con il consenso dell’interessato” considerato inidoneo a
legittimarne la validità probatoria di un mezzo, invece, percepito in termini
di aggressione a beni indisponibili da parte dell’individuo.
Antonella Manisi (da diritto.it dell’11.12.2013)